SCIENZA E RICERCA

Memorie, emozioni, Covid-19 e altri affanni nel misterioso mondo degli odori

È probabile che molti abbiano avuto modo di sperimentare lo straordinario potere evocativo degli odori, segnali chimici impalpabili ed eterei in grado di riportarci memorie del passato con una immediatezza, intensità e ricchezza di particolari che non trova eguali se rapportata, ad esempio, al senso della vista e dell’udito. In genere, il ricordo che accompagna il suggerimento olfattivo racchiude in sé un alone emozionale la cui connotazione muta a seconda del tipo di legame che un tempo ha unito un particolare odore ad un episodio significativo della vostra vita. Sicché ritrovare un’essenza che era presente al letto di morte di una persona cara può indurre dolore, così come nostalgia se legata al cortile e ai ricordi d’infanzia. Tutto ciò non sorprende, poiché sono note le connessioni dirette tra olfatto e sistema limbico, centrale, quest’ultimo, per la nostra vita umorale ed emozionale, in cui i segnali esterni si trasformano in eventi neuroendocrini. Qui, si trovano l’amigdala e l’ippocampo, coinvolte l’una nell’esperienza emozionale e l’altro nell’elaborazione delle memorie a breve termine e anatomicamente connessi con la corteccia olfattiva primaria.

Tuttavia, sia la percezione olfattiva nei suoi aspetti più generali, sia la memoria olfattiva in particolare sono state a lungo trascurate dalla ricerca scientifica più attenta ai sistemi sensoriali visivo e acustico. Questi, sono stati da sempre ritenuti indispensabili ai fini della evoluzione socio-culturale umana e connessi a sottili funzioni cognitive quali, per citarne alcune, l’apprendimento e la produzione del linguaggio, il ragionamento, la risoluzione dei problemi e l’assunzione di decisioni. Il sistema olfattivo, espressione di ciò che è invisibile ed etereo – ovvero, gli odori - è stato considerato meno nobile, primitivo ed emozionale; distante quindi, da un mondo dominato da parole e immagini.  Eppure, non meno importante, come dimostrato negli ultimi decenni dall’interesse da parte degli studiosi, che si è tradotto in un consistente aumento del numero di lavori scientifici e in un significativo ampliamento del sapere. Cruciale il suo ruolo in salute e in malattia, ovvero, in relazione sia agli aspetti cognitivi ed emotivi della nostra vita quotidiana sia a quelli legati alle più svariate condizioni patologiche. 

Riguardo i primi, al di là del già citato impatto emozionale che caratterizza taluni ricordi autobiografici suggeriti da segnali odorosi, la memoria olfattiva risulta governata da leggi sue proprie che la rendono anomala dalle sue consorelle visiva e verbale. Tra queste, come confermato dai nostri studi, il rapporto che esiste tra la quantità di ricordo e il trascorrere del tempo. Si è osservato, infatti, che la perdita dei ricordi olfattivi è davvero insignificante, poiché le tracce olfattive permangono per tempi davvero lunghi. Questi ricordi, inoltre, non subiscono l’influenza da parte di esperienze di apprendimento successive a quelle iniziali; ciò suggerisce che una volta creatasi una associazione tra un odore e un evento è difficile che se ne crei una nuova per lo stesso evento. Chiarisco questo concetto, attraverso un esempio: molti di voi avranno sperimentato come sia arduo estinguere le avversioni apprese nei confronti dei cibi; potrebbe essere accaduto, infatti, che una sera a cena abbiate consumato dei funghi, mentre un banale virus influenzale già incubato in voi era in attesa di manifestarsi. Di notte accade, il virus si attiva; così vi siete ritrovati preda di nausea e vomito. Avrete osservato che da quel momento, di quel cibo (e soprattutto del suo odore) non volete più sentirne menzione. L’avversione (ma ciò vale anche per le preferenze) al cibo è stata appresa incidentalmente e immagazzinata nella memoria come una sorta di combinazione di input olfattivi, gustativi e somato-sensoriali. E questa associazione odore-episodio è difficilmente soggetta a oblio e alle interferenze retroattive, nel senso chenessun altro episodio verrà suscitato in voi dall’odore dei funghi; solo quello legato al vostro malessere. La prima associazione parrebbe, dunque, resistere per sempre. Quanto descritto è avvenuto in virtù di una forma di apprendimento condizionato che prende il nome di Classical conditioning e nella sua più recente veste di Evaluative Conditioning. All’interno di questo paradigma, Bernstein negli anni Settanta ha condotto uno studio pioneristico, per molti versi eticamente discutibile, riguardante l’apprendimento delle avversioni al cibo in bambini sottoposti a chemioterapia; l’autore ha voluto verificare se questi avrebbero acquisito una repulsione nei confronti del gusto di un gelato consumato prima del trattamento farmacologico. I dati non hanno lasciato dubbi di sorta: quattro mesi dopo ai bambini venne chiesto di scegliere tra il gelato con cui avevano già avuto esperienza e uno nuovo e si è osservata una chiara preferenza nei confronti del secondo così come un’avversione condizionata nei confronti di quello precedentemente associato alla chemioterapia Questo studio, ha contribuito, secondo l’autore, alla comprensione delle ragioni per cui taluni ammalati di cancro siano soliti perdere l’appetito. Legami associativi come questo, spiegano, inoltre, la ragione per cui taluni odori possono indurre risposte che vanno anche al di là della nostra stessa consapevolezza. Può accadere, infatti, di sperimentare condizioni di ansia o euforia senza comprenderne il perché.  E la possibile ragione è semplice: un odore in sé neutro, ma associato in precedenza a una condizione di malessere, è in grado, una volta riproposto, di indurre la stessa reazione. Diversamente, un’essenza legata a benessere potrà regalarci ancora, a distanza di tempo, una sensazione analoga. Fenomeni usuali nella nostra vita quotidiana. E la ricerca sperimentale ha confermato con chiarezza l’esistenza di reazioni non coscienti mediate da odori. Infatti, si è osservato che stimoli odorosi presentati sotto la soglia di rilevazione sono in grado di influenzare preferenze, così come di produrre cambiamenti nei tracciati elettroencefalografici e di attivare specifiche regioni cerebrali (Li et al. 2007; Sobel et al, 1999; Stern a McClintock, 1998; Zucco et al. 2009). Nel nostro laboratorio, ad esempio, abbiamo verificato tale potere di condizionamento inconscio. Ad alcuni volontari venne chiesto di portare a termine un compito altamente stressante, inconsapevoli della contemporanea presenza di una fragranza. Giorni dopo ai volontari fu chiesto di esprimere dei giudizi sul loro tono dell’umore. Dei gruppi che avevano partecipato alla prima prova uno solo venne esposto nuovamente allo stesso odore. Fu quello l’unico gruppo che giudicò altamente negativo il proprio umore. Un odore sperimentale, quindi, è stato in grado di indurre una risposta di ansia, replicando in tal modo ciò che accade nel nostro quotidiano

Complesso, o impossibile, infine, richiamare alla memoria un odore. Siete in grado di rievocare l’odore del caffè o della terra bagnata così come rievocate il volto di una persona cara o riproducete, col linguaggio silente, una filastrocca, una preghiera, o una poesia? Chi presume di riuscirci probabilmente ricorre ad attributi verbali e visivi per etichettare lo stimolo olfattivo. Riconosciamo gli odori ma non li rievochiamo per l’assenza di una rappresentazione interna consapevole; sicché il rapporto odore-episodio è asimmetrico: il primo riporta al secondo, ma non viceversa. E il ricordo che un odore fosse presente e anche del suo nome non deve trarre in inganno, poiché la rappresentazione interna consapevole dell’odore è condizione ardua o impossibile. Per svariati autori la memoria olfattiva è dunque percettiva, implicita, automatica e limitata riguardo le risorse neocorticali disponibili (e.g., Stevenson, 2009; Stevenson and Attuquayefio, 2013 Zucco, 2003; Zucco, 2011). Caratteristiche queste, messe in evidenza con sorprendente acume sperimentale, dallo scrittore Vladimir Nabòkov nel suo bel racconto Maria.

Se il senso dell’olfatto riveste, come abbiamo visto, un ruolo importante per la nostra vita cognitiva ed emozionale, ciò è ugualmente evidente nelle più svariate condizioni patologiche, poiché una sua una sua compromissione si configura spesso come un precoce segnale d’allarme utile per individuare quadri clinici notevolmente disabilitanti. Certamente il naso per se non è esente da patologie periferiche che oscillano dal semplice raffreddore a disturbi più complessi (e.g., sinusiti, riniti allergiche, poliposi, deviazione del setto). Questi disturbi, però, non sono informativi del coinvolgimento dell’olfatto anche in patologie interessanti il sistema nervoso centrale. È noto dalla letteratura, infatti, che deficit olfattivi sono presenti in svariate sindromi neurodegenerative, psichiatriche, infettive e di altra natura. Sicché, come osservato anche in alcuni dei nostri studi, pazienti Parkinsoniani, Alzheimer, Korsakov, con Sindrome di Down, o affetti  dalla Corea di Huntington, da Atrofia multi sistemica, dal virus dell’HIV, da Encefalopatia spongiforme di Creutzfeldt-Jakob (nella sua variante trasmissibile, Bovine Spongiform Encephalopathy, più nota come sindrome della mucca pazza), da Encefalopatia epatica minima, così come da Schizofrenia, Depressione Maggiore e Disturbi Alimentari esibiscono deficit più o meno marcati nelle prove di rilevazione, memoria e identificazione di odori. Un dato importante: la compromissione di queste abilità è precoce nelle patologie Alzheimer, Parkinson, immunologiche quali l’AIDS e in talune condizioni psichiatriche. Ne consegue che deficit nelle funzioni sia sensoriali che cognitive associate all’olfatto rappresentano potenzialmente uno dei primi marker pre-clinici del disturbo così come un possibile predittore della sua evoluzione. E a proposito del potere predittivo dei deficit olfattivi  si è osservato, ad esempio, come questi disturbi possano fare la loro comparsa nella transizione tra stadi diversi di una patologia (e.g.,  dalla cirrosi epatica all’encefalopatia epatica minima) o costituire un vero e proprio cut-off tra le diverse gravità della stessa (e.g., nel passaggio dalla condizione sieropositiva asintomatica HIV, alla sindrome AIDS conclamata, fino alla condizione più grave di demenza associata alla sindrome; così come nella transizione tra forme Depressive Maggiori lievi e gravi). Interessante, per le implicazioni con il senso dell’olfatto, è, ad esempio, la relazione che lega La demenza di Alzheimer alla Sindrome di Down. Non a tutti, ad esempio, è noto che le due sindromi condividono aspetti neuropatologici comuni. Esami istologici di reperti autoptici hanno, infatti, evidenziato con chiarezza la presenza nei cervelli di persone Down di placche senili, grovigli neuro fibrillari e depositi di sostanza amiloide quali quelli dei pazienti affetti da Demenza di Alzheimer; nei primi è emerso, da osservazioni autoptiche, che tali modificazioni neuropatologiche farebbero la loro comparsa tra la seconda e la terza decade di vita. Un punto di raccordo ulteriore proviene dal dato genetico: la Sindrome di Down, è nota come trisomia 21; ebbene lo stesso cromosoma si trova ad essere coinvolto nello sviluppo della Demenza di Alzheimer, dal momento che è proprio lì che risiede il locus genetico responsabile dell’accumulo della proteina beta amiloide nei cervelli di entrambi; proteina che svolge un ruolo cruciale nell’insorgenza delle degenerazioni. Date queste necessarie premesse, studi clinici sia recenti che precoci (e.g., Doty, 2017; Nijjar e Murphy, 2003; Zucco e Saviolo, 1994) hanno evidenziato nelle persone affette da sindrome di Down la presenza di deficit olfattivi identici a quelli esibiti dai pazienti Alzheimer, ovverossia nei compiti di rilevazione, memoria e identificazione di odori; tali alterazioni seguono linearmente  l’evolversi della patologia: a una sintomatologia generale sempre più grave, corrisponde un analogo peggioramento della funzione olfattiva. Nelle persone Down ciò emerge con ulteriore chiarezza se si confrontano le prestazioni ai test olfattivi di campioni di diverse età: dalla quasi assenza di deficit nei ragazzi Down al di sotto dei 20 anni, a disfunzioni molto gravi nei down di età al di sopra dei 40 anni. Le aree olfattive maggiormente e precocemente compromesse dalle degenerazioni spaziano dalle periferiche alle contrali interessando la stessa mucosa olfattiva (laddove per primi Talamo e colleghi, nel 1989, hanno riscontrato le stesse degenerazioni presenti nelle aree cerebrali di pazienti Alzheimer, suggerendo la possibilità di una diagnosi di demenza nel paziente in vita), così come, i bulbi, il nucleo olfattivo anteriore, l’amigdala, le cortecce piriforme e entorinale, fino alle regioni orbito frontali. Una nota curiosa: quanto osservato da Talamo e colleghi riguardo i pazienti Alzheimer è emerso, con evidenza ancora più impressionante nelle persone affette da Encefalopatia spongiforme sporadica di Creutzfeldt-Jakob (cf. Zanusso et al. 2003).

Una sindrome poco nota, che coinvolge il sistema olfattivo, è, invece, la Multiple Chemical Sensitivity (intolleranza agli odori idiopatica). Si tratta di un disturbo acquisito grave, che si esprime attraverso una varietà di sintomi, tra i quali: nausea, irritazione, tachicardia, deficit respiratori, capogiri, dispepsia, difficoltà di concentrazione e memoria, depressione, se esposti a sostanze chimiche di varia natura. La patologia colpisce prevalentemente soggetti di sesso femminile, in genere di giovane età. Tra le caratteristiche più salienti vi è l’assenza di segni fisici oggettivi (che corrispondano ai sintomi esibiti), la difficoltà a stabilire chiari meccanismi causali (organici o psicologici) e l’eccesso della risposta. In un nostro studio (Zucco, Militello, Doty 2009) attraverso un paradigma sperimentale nuovo siamo riusciti a stabilire le cause, in quel caso psicologiche, della sindrome in una giovane donna.

E il senso dell’olfatto torna ancora una volta alla ribalta per il suo coinvolgimento perfino nella pandemia che recentemente ha reso più preoccupanti e difficili i nostri giorni, la SARS-CoV-2 (Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus-2). Da quanto osservato dai clinici i sintomi iniziali comunemente registrati nei pazienti interessavano più organi, ma in particolare il sistema respiratorio, e oscillavano da febbre, tosse, dispnea, mialgie, congiuntiviti, fino a perdita di appetito, dissenteria, emicrania e generale astenia. Più recentemente, però, alcuni studiosi (cf:, Menni et al. 2020, Vetter et al. 2020) hanno osservato che i pazienti, in molti casi, lamentavano anche la comparsa improvvisa di disturbi interessanti sia il sistema olfattivo (i.e., iposmie e anosmie) che il gustativo (i.e., ipogeusie e ageusie). Tutto ciò, sotto il profilo clinico-sperimentale è certamente rilevante, seppure non sorprendente: è noto che anche forme di comune influenza possano provocare una riduzione, generalmente temporanea, nella sensibilità olfattiva e gustativa, così come forme virali più aggressive, quali Parainfluenza del tipo 3 (cf. Wang et al, 2007), Rhinovirus e altre di Coronavirus (cf. Suzuki et al, 2007; Van Riel et al., 2015). Nella fattispecie il collegamento è diretto: dalle vie aeree inferiori, fino alle superiori, quindi, probabilmente al bulbo olfattivo e alla corteccia piriforme, con un possibile coinvolgimento perfino di aree più centrali (e.g., corteccia orbito-frontale). Le conseguenze dell’infezione da Covid-19 sul sistema olfattivo e gustativo (sebbene il sottostante meccanismo fisiopatologico di questo e altri virus non sia ancora del tutto noto, cf., Soler et al, 2020, Tian et al., 2016), meritano quindi l’attenzione del ricercatore.

Nei pochi studi sin qui condotti, o tuttora in corso, per valutare la portata dei disordini olfattivi e gustativi in questi pazienti, si è, tuttavia, fatto ricorso prevalentemente all’utilizzo di questionari ad hoc per la loro rilevazione. In particolare, uno studio condotto da autori Europei (cf. Lechlen, et al., 2020) e che ha interessato 12 strutture ospedaliere ha evidenziato deficit olfattivi nell’ 85.6% dei pazienti esaminati, così come deficit gustativi nell’88.8% (con una risoluzione dei disturbi in media nei primi quindici giorni seguenti alla remissione dell’infezione da Covid-19). Nel contempo, la riduzione delle capacità chemo-sensoriali è stata ugualmente riscontrata in una ricerca in corso che coinvolge studiosi plurilingue di numerosi Paesi sia Oltreoceano che Europei, raggruppati nel Global Consortium for Chemosensory Research (GCCR). L’indagine ha riguardato una popolazione di 4039 pazienti affetti da Covid-19. Ad essi è stato proposto un questionario il cui fine era quello di rilevare i cambiamenti chemo-sensoriali sia olfattivi e gustativi, sia relativi alla cosiddetta modalità chemestesis (i.e, riferiti, alle sensazioni in genere mediate dal nervo trigemino: freddo, caldo, bruciato, pungente, piccante, e così via) avvertiti prima e durante l’infezione da Covid-19. Per l’autovalutazione i pazienti hanno fatto ricorso ad una scala a 100 punti (Visual analogue scale, VAS) i cui risultati sono stati i seguenti, rispettivamente per i tre tipi di acuità, prima e durante l’infezione: Olfattiva (90.18 vs 11.49); Gustativa (91.33 vs 23.34), Chemesthesis (84.96 vs 47.48).  Seppure rilevanti, tuttavia, gli studi citati risentono del fattore soggettività e mancano quindi di adeguati riscontri attraverso l’uso di test oggettivi. E’, inoltre, importante sottolineare la discrepanza esistente tra gli studi citati e quelli asiatici, in cui i deficit olfattivi e gustativi sono stati riscontrati in percentuali molto basse all’interno della popolazione (e cioè oscillanti tra il 5% e il 6%, cf. Mao et al., 2020). Certamente diversi studi oggettivi sono in corso e probabilmente qualcuno già in corso di stampa, in concomitanza con la preparazione del presente contributo. Sarà, quindi, importante indagare sperimentalmente (ed è ciò che il nostro stesso gruppo si propone) le capacità olfattive dei pazienti affetti da Covid-19 per mezzo di test standardizzati così come l’eventuale efficacia di training riabilitativi sulle funzioni deficitarie. Alcuni dei quesiti cui fornire una risposta sono i seguenti: se l’eventuale anosmia (o iposmia) esibita dai pazienti sia esclusivamente periferica o se interessi anche le aree centrali; se l'andamento del disturbo sia lineare – i.e., se alla gravità dei sintomi causati dal virus corrisponde un aggravio dei deficit olfattivi, o se la condizione è invece on-off-tutto-niente; e se vi è un possibile cut-off in relazione ai differenti stadi (ad esempio, da lieve a medio)  dell’infezione virale (ovvero, se i deficit olfattivi fanno la loro comparsa in un ben preciso stadio della patologia).

In commercio vi sono numerosi kit olfattivi per valutare le funzioni sia sensoriali che cognitive olfattive nelle persone sane e nei pazienti. Tra le più note, la batteria Sniffin’s Sticks (Burghart, Wedel, Germania) sviluppata da Hummel et al., (1997). Il test, nel suo insieme, consente la valutazione di più capacità olfattive: quella di detezione olfattiva (e pertanto la misurazione della soglia olfattiva, ovvero della pura sensibilità sensoriale); così come, capacità più cognitive di discriminazione tra odoranti diversi e di identificazione (i.e., denominazione) di odoranti; in aggiunta sarà utile valutare le capacità di memoria (cf. Zucco, 2011). Infine, un kit, costituito da quattro sostanze appartenenti a categorie diverse (fiori, frutta, resinoso, aromatico) potrà consentire di verificare l’efficacia di training olfattivi sulla patologia causata nei pazienti dal Covid-19 (cf. Haehner, et al. 2013; Hummel e t al, 2009).

Termina qui la disamina di alcune tra le più importanti caratteristiche di questo senso affascinante, cruciale per gli aspetti della nostra cognizione così come dell’emotività: “Colui che dominava gli odori, dominava il cuore degli uomini” ci ricorda, infatti, Sueskind ne Il Profumo; ma molto altro ancora potrebbe essere aggiunto.

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