SOCIETÀ
Metamorfosi, fratellanza e happy collapse in “Un'altra fine del mondo è possibile”
Il collasso di una civiltà non è un evento (cioè una catastrofe), ma una serie di eventi catastrofici unici (come uragani, incidenti industriali, attacchi, pandemie, siccità) in un contesto di cambiamenti progressivi egualmente destabilizzanti (desertificazione, cambiamenti stagionali, inquinamento persistente, estinzione di specie e popolazioni animali).
Questo si legge nelle prime pagine di Un’altra fine del mondo è possibile, uno degli ultimi saggi pubblicati da Treccani nella collana Visioni, dedicata allo studio e ai cambiamenti della società contemporanea.
Se è vero che la storia umana procede attraverso il continuo nascere e morire di intere civiltà, imperi e sistemi sociali, il saggio in questione può essere pensato proprio come una guida per tutti gli abitanti del nostro pianeta, perché si preparino ad affrontare le conseguenze del mondo così come lo conosciamo oggi, dando dei suggerimenti e delle indicazioni non tanto su come agire ma su come prepararsi, psicologicamente, all'inevitabile.
Di che collasso stiamo parlando? Naturalmente di quello della civiltà termoindustriale che, secondo gli autori, non può reggere a lungo così com'è strutturata. Il riscaldamento globale, la progressiva scomparsa della biodiversità e la forbice delle disuguaglianze economiche e sociali che continua ad allargarsi fanno sì che la catastrofe sia scritta nel nostro destino.
Un'altra fine del mondo è possibile, il cui sottotitolo è: “vivere il collasso e non solo sopravvivere” nasce dalla collaborazione di un trio di studiosi francesi: Pablo Servigne, conferenziere e scrittore da molto interessato al tema della transizione ecologica, Raphaël Stevens, esperto in resilienza dei sistemi socio-ecologici, e Gauthier Chapelle, ingegnere agronomo all'Institut royal des Sciences naturelles del Belgio.
Reduci e sicuramente non ancora al sicuro dalla recente pandemia, leggere di crisi globale e apocalisse può colpirci duramente. C’è da dire, comunque, che gli autori hanno scritto questo libro prima che scoppiasse l'emergenza sanitaria.
L’assunzione di fondo dei suoi autori è che il collasso del mondo così come lo conosciamo è imminente e irrefrenabile, e che sarà un evento epocale che segnerà profondamente la storia dell’umanità.
Può davvero esistere, fatte queste premesse, un modo costruttivo di reagire al disastro? Gli autori prendono fermamente le distanze sia da chi nega il problema in cui il mondo si trova, sia da chi si è passivamente rassegnato al pessimismo.
Stando alla loro opinione, esiste una visione del mondo secondo la quale possiamo non solo accettare il collasso, ma anche essere pronti a farcene carico per trovare il modo più conveniente non di evitarlo o di subirlo, ma di conviverci. Il sentimento alla base di questo? La solidarietà. Servigne, Stevens e Chapelle respingono le idee del survivalismo, ovvero la corrente di pensiero fatta propria da coloro che si preparano al disastro con la mentalità dell'homo homini lupus, convinti che la salvezza sarà solo per pochi, e che quei pochi dovranno essere loro, ovvero i più preparati, i più agguerriti, i più forti.
La fine della società industriale, come scrive nella postfazione lo scrittore e regista Cyril Dion, richiede una nuova coscienza e un'organizzazione umana che sia meno legata al bisogno del possesso materiale e più basata su valori come l'intelligenza, la cooperazione, la condivisione e l'interdipendenza con il resto del mondo vivente.
Gli autori aspettano questo collasso a braccia aperte. Infatti, come scrivono in conclusione del libro, “non c'è nulla di incompatibile nel vivere un'apocalisse e un happy collapse”. Accettare la loro proposta e abbracciare la loro visione del mondo, sicuramente estrema e, per certi versi, radicale, è certamente una decisione che il lettore potrà prendere dopo aver letto il saggio ma, pur non volendo condividere l'ottimismo di Servigne, Stevens e Chapelle, il loro libro dà sicuramente degli ottimi spunti di riflessione per affrontare questioni con le quali tutti dovremmo confrontarci, come, ad esempio: i modi migliori con cui i media dovrebbero comunicare le notizie più drammatiche, l’importanza delle voci degli scienziati nel guidarci attraverso la crisi e un’adeguata considerazione al trauma emotivo vissuto dai ricercatori che studiano le dinamiche del collasso.