SCIENZA E RICERCA

Microplastiche nel corpo umano. Quando salute dell’ambiente e dell’uomo sono inscindibili

Stando ai dati forniti da un citatissimo studio pubblicato nel 2017 sulla rivista Science Advances, dagli anni Cinquanta ad oggi sono stati prodotti circa 8300 milioni di tonnellate di plastica vergine, con un bilancio annuale di produzione in costante crescita. Di questa inimmaginabile quantità di plastica, meno del 10% è stato riciclato e circa il 12% è stato incenerito. E il resto? Il resto – poco meno dell’80% di tutta la plastica mai prodotta – è finito, attraverso i più svariati percorsi e nelle forme più diverse, nell’ambiente.

L’inquinamento da plastica è, infatti, uno dei problemi ambientali più preoccupanti, e più discussi, della nostra epoca. In pochi decenni, abbiamo letteralmente riempito il mondo di questo materiale di sintesi non degradabile e altamente resistente, che persiste nell’ambiente per secoli, interferendo con i normali processi metabolici degli ecosistemi.

Tuttavia, nonostante la proverbiale resistenza delle molecole che compongono i materiali plastici, anch’essi, come tutto ciò che è terreno, vanno incontro ad invecchiamento. Agenti atmosferici come le radiazioni solari e le piogge, la rottura meccanica (frammentazione), l’azione dei batteri concorrono alla dispersione e alla riduzione delle plastiche in minuscoli frammenti, che sono da pochi anni definiti microplastiche.

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Ascolta l'intervista completa a Ilaria Corsi. Servizio e montaggio di Sofia Belardinelli

«Sulla definizione del termine ‘microplastica’ non vi è ancora un consenso unanime nella comunità scientifica», spiega la professoressa Ilaria Corsi, docente di Ecotossicologia all’università di Siena. «Tuttavia, almeno a livello europeo si definiscono microplastiche i frammenti di dimensioni inferiori ai 5 millimetri (mm) e superiori a 1 micrometro (μm); sotto questa soglia, si parla di ‘nanoplastiche’. Si tratta di un approccio leggermente diverso rispetto alla definizione fisica di corpi nanoscopici, che non dovrebbero essere più grandi di 100 nanometri (nm): la differenza è dovuta al fatto che, per quanto riguarda i materiali plastici, le proprietà colloidali dei corpi nanoscopici sembrano conservarsi anche a dimensioni maggiori».

Come spiega Corsi, vi sono diversi tipi di microplastica: questa, infatti, non deriva soltanto dalla degradazione di oggetti di grandi dimensioni – si parla, in tal caso, di microplastiche di origine secondaria; molta parte delle microplastiche disperse in ambiente vengono prodotte già in questa forma, e utilizzate o nell’industria cosmetica (ad esempio, le microsfere che troviamo in dentifrici, scrub e creme) o come materiale di partenza per la produzione di oggetti più grandi.

Le microplastiche, oggi, sono davvero ubiquitarie. Nonostante, finora, la ricerca scientifica si sia principalmente focalizzata sugli ambienti acquatici, interessati da un vastissimo fenomeno di inquinamento (si pensi a tutte le microplastiche che arrivano nei corsi d’acqua e nei mari attraverso le acque reflue industriali e urbane), vi sono crescenti evidenze della massiccia contaminazione da microplastiche anche nei suoli e nell’aria. In queste condizioni, l’ingresso delle microplastiche nelle catene trofiche era inevitabile: infatti, è nota la loro presenza all’interno di animali e piante.

Ma «all’apice delle catene trofiche vi è sempre l’uomo» ricorda Ilaria Corsi. «La nostra specie, dunque, è diventata, suo malgrado, il collettore di tutti gli inquinanti che essa stessa disperde nell’ambiente, con inevitabili ripercussioni sulla salute umana».

Infatti, stanno facendo la loro comparsa nella letteratura scientifica i primi lavori che segnalano la presenza di microplastiche all’interno del corpo umano. Particelle di origine sintetica sono state ritrovate nei polmoni, nel sangue, perfino nella placenta. «Tali studi – afferma l’ecotossicologa – sono sicuramente pionieristici: per valutare il rischio tossicologico di una sostanza, il primo passaggio necessario è verificarne la presenza nell’organismo. Spesso, le particelle riscontrate nei diversi organi non sono vere e proprie microplastiche, ma monomeri, singole molecole. Questo non riduce certo l’importanza dei risultati: la loro sola presenza, infatti, è un campanello d’allarme, anche se, per comprendere i potenziali rischi in termini di salute, saranno necessarie ricerche ulteriori».

La presenza di microplastiche negli organi è una prova di come questi composti siano in grado di superare i meccanismi di ‘difesa’ del nostro corpo dagli agenti esterni. Il fatto che siano stati ritrovati composti collegabili ai materiali plastici addirittura nella placenta, organo che filtra e regola la ‘comunicazione’ tra il feto, la madre e l’ambiente esterno, suggerisce che vi sia la concreta possibilità che materiali di origine sintetica possano interferire anche con i processi di sviluppo, con conseguenze per ora difficili da prevedere.

«In risposta alle crescenti preoccupazioni per la salute legate all’inquinamento ambientale, da alcuni anni a questa parte l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inaugurato l’approccio One Health, che riconosce la stretta interdipendenza tra salute dell’uomo e salute degli ecosistemi e dei loro membri», ricorda Corsi. Tuttavia, anche in questo caso non ci si è discostati da un approccio sostanzialmente antropocentrico: la salute dell’ambiente va tutelata nella misura in cui è coinvolta la salute della nostra specie.

«La grande attenzione scientifica e mediatica riservata al problema dell’inquinamento da microplastiche è un bene, poiché spinge i decisori politici a scelte lungimiranti in termini di regolamentazione, e poiché offre maggiori opportunità in termini di ricerca. Non dobbiamo dimenticare, però, che la plastica non è né l’unico né il più pericoloso tra gli inquinanti ambientali di origine antropica: pensiamo alla nocività delle fibre dell’amianto, o alla tossicità del mercurio, la cui diffusione all’interno delle catene trofiche è impressionante. Bisogna fare in modo che questi temi non si escludano a vicenda, ma che vengano affrontati congiuntamente, in un approccio olistico che sappia far dialogare e convergere la ricerca scientifica e le scelte legislative».

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