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Siamo giunti all’ultimo appuntamento del ciclo Aspettando Genova – L’Onda Covid: capire per reagire, una serie di interviste dedicate al tema del nuovo coronavirus e condotte dalla redazione de Il Bo Live in occasione della diciottesima edizione del Festival della Scienza di Genova.
Nel corso dei precedenti approfondimenti abbiamo toccato vari aspetti legati all’infezione da Sars-CoV-2: abbiamo parlato di epidemiologia con Paolo Vineis, di immunità con Maria Rescigno, di come si gestisce una pandemia con Walter Ricciardi; e ancora, di Covid-19 e bambini con Paolo Rossi. Con Giuseppe Ippolito abbiamo focalizzato l’attenzione sui sintomi della malattia e sui progressi delle terapie, con Giorgio Palù abbiamo approfondito la storia dei coronavirus e infine con Alessia Melegaro abbiamo discusso dei modelli epidemiologici che permettono agli scienziati e ai governi di prevedere i possibili scenari di diffusione della pandemia.
Con Andrea Crisanti, infine, ripercorriamo le tappe più significative dello studio condotto tra febbraio e marzo a Vo’, pubblicato pochi mesi fa su Nature, con il titolo Suppression of a SARS-CoV-2 outbreak in the Italian municipality of Vo’. Con lo scienziato, inoltre, abbiamo discusso dei provvedimenti più recenti adottati nel nostro Paese per contrastare la diffusione del virus Sars-CoV-2. Di seguito ci soffermeremo su alcuni degli argomenti toccati, rimandando alla videointervista per l’intervento integrale.
Andrea Crisanti è ordinario di Microbiologia all’università di Padova, direttore del dipartimento di Medicina molecolare e dell’unità operativa di microbiologia e virologia dell’Azienda ospedaliera di Padova. Ed è stato per lungo tempo docente di parassitologia molecolare all’Imperial College di Londra. Autore di oltre un centinaio di contributi pubblicati su riviste internazionali, si è dedicato in particolare allo studio della malaria e delle misure atte a contenerne la trasmissione.
“L’infezione ha una storia, se ha una storia ha una trama”
A gennaio, nel nostro Paese, vengono registrati i primi casi di infezione da Sars-CoV-2: due turisti cinesi, provenienti da Wuhan e atterrati a Milano, risultano positivi e vengono ricoverati, fino alla loro completa guarigione, all’istituto nazionale per le malattie infettive “L. Spallanzani”. Il 18 febbraio si presenta all’ospedale di Codogno un trentottenne, primo paziente italiano identificato, che sarà ricoverato in terapia intensiva in condizioni gravi. Il 21 febbraio si ha notizia del primo decesso, un uomo di Vo’ ricoverato all’ospedale di Schiavonia. Seguono l’istituzione della zona rossa nel lodigiano e a Vo’, e a marzo, il blocco dell’intero Paese tra l’8 e l’11 dello stesso mese.
Quando viene istituita la zona rossa – e poi, di nuovo, a distanza di circa due settimane – la popolazione di Vo’ viene sottoposta a tamponi nasofaringei per valutare il grado di diffusione del contagio. Dal primo campionamento, che ha coinvolto 2.812 persone (l’86% della popolazione), è risultato positivo a Sars-CoV-2 quasi il 3% dei soggetti. “Una cifra estremamente elevata”, commenta Crisanti. Al secondo campionamento, cui invece hanno aderito 2.343 persone (il 71% della popolazione), risultava aver contratto il virus l’1,2% del campione e i nuovi infetti erano otto (lo 0,3%).
Guarda l'intervista integrale ad Andrea Crisanti. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Barbara Paknazar
Il ruolo degli asintomatici e la dinamica del contagio
Uno dei risultati più significativi cui lo studio è giunto, e che nel tempo ha influito sulle misure di contenimento del virus, è il ruolo assunto dagli asintomatici nella trasmissione del contagio: durante il primo campionamento il 41% dei soggetti che avevano contratto il virus non presentava sintomi; quasi il 45% nel corso del secondo campionamento. “Una quota importante di persone – spiega Crisanti – era completamente asintomatica. La presenza degli asintomatici pone un grande problema per il controllo della diffusione dell’epidemia, perché l’asintomatico per definizione non ha nessuna manifestazione di malattia, non solo ma è in grado di muoversi e di avere una vita sociale completamente normale e quindi è potenzialmente in grado di infettare altre persone. A questo punto, ci siamo chiesti se gli asintomatici potevano essere una fonte di infezione e abbiamo dimostrato che avevano una carica virale equivalente a quella dei sintomatici”. In particolare, spiega il docente, una parte degli otto nuovi casi rilevati nel corso del secondo campionamento poteva essere riferita soltanto a contatti con soggetti asintomatici. “Questi, dunque, avevano la medesima carica virale e allo stesso tempo erano in grado di trasmettere la malattia”.
Lo studio, inoltre, ha dimostrato che la condivisione degli spazi domestici con un soggetto positivo aumenta notevolmente la probabilità di contagio: “Questo – osserva Crisanti – ci ha permesso di capire altri aspetti sull’andamento dell’epidemia dopo il lockdown, e cioè che i casi non diminuivano, perché alimentati da trasmissione endofamiliare all’interno della comunità”.
I due campionamenti effettuati a Vo’ hanno permesso, infine, di ricostruire la dinamica dell’infezione: se l’ultima settimana di febbraio l’indice riproduttivo del virus (R0) – il numero di persone che ogni positivo può contagiare – era circa 3, due settimane più tardi (l’8 marzo) era inferiore a 1, e questo dimostrava che le misure di contenimento erano servite a ridurre l’infezione.
Covid-19, bambini e indagine sierologica
Significativo anche quanto emerso dalle analisi dei più piccoli, che si sono dimostrati meno suscettibili alla malattia: “Nessuno dei bambini è mai stato positivo al tampone (nemmeno quanti condividevano l’abitazione con persone infette) e ha mai accusato alcun sintomo. Non si possono fare generalizzazioni e dire che i bambini non si ammalano in assoluto, tuttavia sono delle eccezioni, dato che si ammalano molto raramente oppure in maniera estremamente transitoria. Non sappiamo, tuttavia, quale sia il contributo dei bambini alla trasmissione”.
A maggio, infine, è stato condotto un terzo campionamento a Vo’ e in questo caso oltre al tampone è stato effettuato anche un prelievo di sangue. L’obiettivo è studiare la risposta anticorpale della popolazione, ma anche il genoma di ogni cittadino e del virus. “Dall’analisi immunologica è emerso che a Vo’ già il 22 febbraio c’erano circa 30 persone che si erano ammalate ed erano guarite, perché possedevano anticorpi e non erano mai state positive al tampone”. E ciò in linea anche con un altro studio che ha fatto risalire il primo caso di Covid-19 in Lombardia al primo gennaio.
Le analisi finora condotte hanno permesso di stabilire, inoltre, che la produzione degli anticorpi è transitoria, osserva Crisanti: una volta stimolati sembra, infatti, che non durino più di cinque, sei mesi. “Ora stiamo completando l’analisi di tutte le sequenze genetiche del virus, per capire esattamente se ci sono state delle varianti virali che si sono diffuse più velocemente. Stiamo concludendo anche l’analisi del genoma della popolazione, per verificare se esistono varianti genetiche che in qualche modo proteggono dall’infezione o rappresentano un fattore di rischio per sviluppare complicazioni gravi”.
Conclude Crisanti: “Ciò che è interessante, e che non mi stancherò mai di ripetere, è che qui a Vo’ non c’è stato più nessun caso. Ciò significa che, se si identificano tutte le persone positive all’interno di una rete di interazione, si blocca la trasmissione”.
Contact tracing e network testing
“Quello che è stato fatto a Vo’ per bloccare l’epidemia non è contact tracing”, tiene a specificare Crisanti, o meglio non è stato fatto solo questo. “La Regione ha messo in moto tutte le sue energie per cercare di trovare il paziente zero nella cittadina, e dunque è stato effettuato un contact tracing veramente minuzioso. Possediamo esattamente la mappa di tutte le persone che si sono infettate e possiamo tranquillamente affermare che, sulla base del contact tracing, si sarebbe potuto individuare soltanto il 30% delle persone che si erano infettate”. Il resto dei soggetti che avevano contratto il virus, dunque, non sarebbero stati individuati e avrebbero potuto alimentare l’epidemia.
Il contact tracing è una procedura che mira a ricostruire la rete di persone che possono essere state esposte a un soggetto positivo a Sars-CoV-2, durante il periodo di contagiosità, e che dunque potrebbero a loro volta sviluppare l’infezione. Una volta individuati, vengono posti in isolamento e monitorati per accertarsi sul loro stato di salute. Questo metodo però, secondo Crisanti, non è esente da limiti, dato che serve fare affidamento sulla memoria dei singoli per rintracciare i contatti.
“A Vo’ – argomenta il docente – abbiamo applicato il ‘network testing’, cioè all’interno della rete di interazione delle persone abbiamo testato tutti, nel caso specifico tutta la cittadinanza”. E approfondisce: “Ognuno di noi ha uno spazio di interazione, un vero e proprio ‘spazio tridimensionale’, fatto di diversi livelli, come la scuola, la casa, il lavoro. Se una persona all’interno di questo spazio si ammala e lo spazio viene saturato dai test, la trasmissione viene bloccata”.
Secondo Crisanti questo approccio è molto più efficace del contact tracing, perché non richiede nessuna conoscenza a priori e nemmeno tutto lo sforzo di intelligence e di monitoraggio che invece serve per il contact tracing. Il docente sottolinea che il sistema di network testing ha un’efficienza del 100% (o molto vicina) – molto superiore, dunque, al 30% del contact tracing –, ma richiede di dotarsi di un numero sufficiente di tamponi.
Crisanti ritiene che quest’ultimo sistema abbia fallito: si calcola, infatti, che ogni individuo infetto abbia una rete di circa 10-15 contatti, ma le persone che ad oggi vengono messe in isolamento sono molte meno di quelle che in realtà dovrebbero essere. Ciò significa, secondo il docente, che viene intercettata solo una minima parte dei reali contatti di chi ha contratto il virus. “Non è una situazione solo del Veneto, ma di tutta l’Italia: dal punto di vista del controllo sul territorio il sistema è completamente saltato”.
Tamponi, sorveglianza e controllo
La quantità di tamponi eseguiti quotidianamente in Italia è gradualmente cresciuta nel corso di questi mesi: dai circa 35.000 test di inizio aprile, sono state raggiunte punte di oltre 150.000 a metà ottobre. Il mese scorso, nel nostro Paese si valutava la possibilità di aumentare ulteriormente il numero di tamponi giornalieri, partendo da una proposta inviata al governo proprio da Andrea Crisanti. Il progetto presentato dal microbiologo prevedeva di raggiungere i 300.000 tamponi giornalieri. E ciò attraverso la creazione di nuovi laboratori e unità mobili per raggiungere i focolai sul territorio. “A questo punto penso si possa dire che il piano è stato ignorato o sottovalutato come impatto – commenta il docente –. In Italia abbiamo trascorso circa due mesi con bassi livelli di trasmissione e non ci siamo mai chiesti quale fosse la ragione”. La spiegazione, secondo Crisanti, va cercata nel modo con cui è stata impiegata la quota di tamponi disponibili per contrastare il virus, seguendo cioè un approccio molto simile a quello utilizzato a Vo’.
“In questi mesi – continua – ogni volta che una persona era infetta testavamo tutti, parenti, amici e colleghi di lavoro. Via via che sono aumentati i contatti tra le persone, con la riapertura delle scuole e la ripresa di tutte le attività riproduttive, il virus ha avuto più opportunità di trasmettersi. Ma più il virus si trasmetteva, più la quota di tamponi che avevamo a disposizione per fare questo tipo di attività diminuiva. E ciò perché dei 100.000 tamponi che vengono effettuati al giorno non tutti servono per fare il tracciamento del virus o per eliminare i focolai: di fatto 1/3 viene impiegato per sorveglianza del personale sanitario, 1/3 per monitorare le persone già infette, e 1/3 (circa 30.000 tamponi) per attività di sorveglianza”.
Partendo dal presupposto che ogni infetto entra in contatto con 10-15 persone, Crisanti osserva che al crescere dei casi, è aumentata notevolmente anche la quantità di tamponi necessari. Ma via via che i casi son aumentati, è stato necessario utilizzare una quota maggiore di tamponi anche per il monitoraggio di chi si ammalava: “Ogni giorno che si accumulavano 1000-1500 persone che stavano male, di fatto noi dovevamo spostare una quota di tamponi impiegati per la sorveglianza, per il controllo di questi soggetti. Quindi, di fatto, alla fine siamo arrivati al punto critico di rottura e ora il sistema è completamente collassato”.
🔴 #COVID19 - La situazione in Italia al 19 ottobre:https://t.co/8ciMmO9yfx pic.twitter.com/xw0Lw3Xh3J
— Ministero della Salute (@MinisteroSalute) October 19, 2020
I test rapidi antigenici
Se di un piano per aumentare il numero dei tamponi molecolari non si è più parlato esplicitamente, nelle scorse settimane è stata approvata la possibilità di effettuare test rapidi antigenici per attività di screening nelle scuole e dai medici di base, dopo che già erano entrati nei porti e negli aeroporti.
“Il test rapido – sottolinea Crisanti – ha una bassa sensibilità, in genere nelle prime fasi dell’infezione, e quando è il momento di identificare i contatti se ne perdono 4 su 10. Usato una volta sola, dunque, non è adatto per fare sorveglianza attiva e prevenzione, è adatto però a fare screening”. Si pensi a una scuola: se i test rapidi individuano dei positivi, significa che in quel contesto c’è trasmissione del virus e, secondo il docente, per bloccare la trasmissione, sarà necessario sottoporre tutti i bambini al tampone ad alta sensibilità. Oppure, effettuare nuovamente il test rapido dopo due o tre giorni. Esportare questo approccio a livello territoriale di sorveglianza creerebbe, invece, una situazione di grande incertezza. Senza contare che i test rapidi hanno sensibilità diverse. “Io penso che per combattere una epidemia sia necessario usare uno strumento che sia uguale per tutti e ad alta efficienza”.
E conclude: “Penso che dovremmo usare il tampone rapido per fare studi di screening, invece il tampone ad alta sensibilità per fare prevenzione e sorveglianza”. Altrimenti sul lungo periodo potrebbero sorgere difficoltà, secondo il docente: “Persone che sono state sottoposte al test rapido potrebbero pensare di non essere infette e magari sono invece solo nella fase iniziale dell’infezione e possono alimentare la trasmissione in modo significativo”.
Nell’ottica di Crisanti non esiste uno strumento adatto a tutte le situazioni. Ci si deve chiedere innanzitutto quale sia l’obiettivo che si intende raggiungere. “Vogliamo conoscere quanto si trasmette il virus in una comunità? Il tampone rapido antigenico è eccezionale. Vogliamo estirpare l’infezione da un focolaio? Il tampone rapido non è la misura giusta, a meno che non si ripeta a tutta la comunità ogni due giorni, per una settimana. Chiaramente, questo è molto più complicato. Senza contare che questi test costano. Inoltre bisognerebbe mettere i medici di base in grado di comunicare con il sistema di sorveglianza e tracciamento e non credo che questa infrastruttura esista”.