Puntuale come sempre, la National Science Foundation (NSF), l’Agenzia federale degli Stati Uniti che finanzia la ricerca scientifica non di carattere biomedico, ha pubblicato il rapporto Science&Engineering Indicators 2020. Si tratta di un’analisi, biennale, sullo stato della ricerca negli USA che, però, ha anche un sostanzioso capitolo sullo stato della ricerca nel mondo.
Ve ne proponiamo una sintesi perché è di estremo interesse.
La Tabella 1 propone un’analisi comparativa tra i primi 5 grandi player della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico mondiale. L’Unione Europea (che nel 2017 comprende ancora il Regno Unito) figura terza in termini assoluti come capacità di finanziamento (430 miliardi di dollari in un anno), superata dalla Cina (496 miliardi di dollari) e dagli Stati Uniti che sono ancora primi (549 miliardi di dollari). Usiamo l’avverbio ancora, perché secondo molti analisti la Cina nel giro di pochi anni supererà gli USA in termini di investimenti assoluti.
La tabella mostra come l’Unione Europea sia ultima per intensità di investimenti: meno del 2% di spesa in ricerca rispetto al prodotto interno lordo, superata di poco dalla Cina (2,15%), nettamente dagli USA (2,81%), e drammaticamente da Giappone (3,21%) e dalla Corea del Sud, prima al mondo col suo 4,55%.
I paesi e le aree di antica industrializzazione mostrano una minore dinamica rispetto a quelli di nuova industrializzazione. In Cina gli investimenti in R&S tra il 2000 e il 2017 sono aumentati al ritmo del 17,3% annuo e in Corea del Sud del 9,8% annuo, contro il 5,1% dell’Unione Europea, il 4,3% degli USA e il 3,3% del Giappone. Ciò è correlato alla crescita economica, attraverso percorsi che non indaghiamo in questa sede.
La Tabella 2 mostra come la disponibilità verso la ricerca in Europa (Russia esclusa) non sia affatto omogenea. Abbiamo diviso l’Europa in quattro grandi aree geografiche relativamente omogenee tra loro. La prima area, battezzata come “teutonica” perché ruota intorno alla Germania mostra una grande propensione alla ricerca scientifica. L’intensità degli investimenti supera, salvo due eccezioni, il 3,0% e si colloca, dunque, sopra USA e Cina e appena sotto il Giappone. Forse non è un caso che questa è l’area più ricca e innovativa del continente.
La seconda area, che abbiamo definito “atlantica”, perché tutto sommato ha il suo baricentro nella Manica, ha un’intensità di investimenti che è inferiore di un terzo in media a quella "teutonica”. È una “terra di mezzo”, che fatica a tenere il passo con il mondo più avanzato in termini di “economia della conoscenza”.
La terza area l’abbiamo definita Mediterranea e vi abbiamo incluso per motivi culturali il Portogallo che non affaccia sul “mare nostrum”. L’Italia appartiene a quest’area che investe poco più dell’1% in ricerca rispetto alla ricchezza che produce. Forse non è un caso che in quest’area la ricchezza prodotta sia, in media, inferiore a quella delle due aree precedenti.
C’è, infine, una quarta area che possiamo definire “ex comunista”, perché composta da paesi che, appunto, appartenevano all’orbita dell’Unione Sovietica. È piuttosto variegata al suo interno, ma ha come dato comune il fatto che gli investimenti in R&S si collocano intorno all’1% del prodotto interno lordo, con l’unica eccezione della Cechia che ha buon chance di agganciare, nei prossimi anni, l’”area teutonica”. Anche in questo caso c’è una correlazione evidente tra scarsi investimenti in R&S e crescita economica.
“ L'Unione Europea ha investito in ricerca appena il 3,0% della spesa complessiva dei 28 paesi che l’hanno composta
Più volte Il Bo Live si è occupato della ricerca nell’ambito dell’Unione Europea. L’analisi della NSF conferma la frammentazione dell’Unione. Con uno dei quattro frammenti che regge benissimo il passo del mondo più avanzato in termini di “economia della conoscenza” e altri tre che, sia pure con un gradiente diverso, invece stentano o ne sono ancora molto lontani.
Molti auspicano una maggiore integrazione. Ma c’è un ostacolo. L’Unione Europea come tale (ovvero la Commissione di Bruxelles) ha investito in ricerca ogni anno in media 13 miliardi di dollari, all’incirca. Appena il 3,0% della spesa complessiva dei 28 paesi che l’hanno composta (il regno Unito entra ancora in quest’ambito). Il che significa che il 97% degli investimenti europei sono avvenuti a opera di 28 diversi paesi con altrettante politiche della ricerca e politiche economiche.
USA, Cina, Giappone e corea del Sud – gli altri quattro top player della ricerca mondiale – hanno invece un unico centro decisionale, pur all’interno di una dialettica tra stato e imprese private e della loro reciproca autonomia. Dialettica che, tuttavia, esiste anche nei 27+1 paesi dell’Unione Europea. Ne deriva che, alla gara della ricerca e dell’economia della conoscenza i paesi dell’Unione vanno in ordine sparso, mentre gli altri si presentano compatti. C’è da capire se questa è una condizione in cui i vantaggi superano gli svantaggi. Ma è probabile che siano invece gli svantaggi a prevalere.