SOCIETÀ

Morti di disperazione e il futuro del capitalismo

Il capitalismo ha i secoli contati, ama dire tra il serio e il faceto l’economista (socialista) ed ex ministro Giorgio Ruffolo. Di parere un po’ diverso sono altri due economisti di scuola liberale – l’americana Anne Case e l’inglese Angus Deaton, premio Nobel nel 2015 – che di recente hanno scritto un libro in cui si interrogano e ci interrogano sul futuro proprio del capitalismo. Giungendo alla conclusione che la sua fine potrebbe essere più vicina di quanto si pensi, viste le forme – selvagge – che ha assunto nel paese principe di questo modello di sviluppo economico: gli Stati Uniti d’America. 

L’analisi precede la crisi del coronavirus nella quale viviamo. Non vogliamo interpretare il loro pensiero, ma è probabile che la fluttuazione causata dal SARS-CoV-2 possa essere un catalizzatore di una necessaria riforma profonda di questo «sistema economico in cui il capitale è di proprietà privata», come lo definisce la Treccani.

L’analisi di Anne Case e Angus Deaton è contenuta in un libro pubblicato di recente dalla Princeton University Press: Deaths of despair and the future of capitalism (Morti di disperazione e il futuro del capitalismo). L’analisi, che riguarda soprattutto gli Stati Uniti d’America, è spietata. Per certi versi sorprendente. Ma tanto più significativa perché proposta da due studiosi che non odiano il capitalismo, ma al contrario lo ritengono il più valido dei modelli economici.

 Per descriverne in sintesi il contenuto ci conviene ricorrere a un fatto di cronaca (uno dei tanti) e alcuni dati (clamorosi) emersi dall’indagine scientifica condotta da Case e Deaton. Il fatto e i dati sembrano scorrelati, ma i due economisti di scuola liberale li connettono. Tra poco vedremo come.

Il fatto, dunque. Lo scorso 30 agosto 2019 quando un giudice in Oklahoma (Stati Uniti) ha condannato una società farmaceutica, la Johnson & Johnson, a pagare allo stato 572 milioni di dollari per aver intenzionalmente minimizzato i danni e magnificato i benefici dei suoi oppioidi (farmaci analgesici derivati dall’oppio). 

E ora i dati. Gli americani in età lavorativa, compresa tra 24 e 65 anni sono 171 milioni. Di questi il 62% sono bianchi non ispanici (106 milioni). Di questi ancora il 62% non ha una laurea (65,7 milioni). Intendiamo per laurea il cosiddetto baccalariato, che in Italia ha un equivalente nella laurea breve. In pratica, i bianchi non ispanici che non hanno almeno una laurea breve sono il 38,4% dell’intera popolazione lavorativa.

Ebbene, è questa fascia della popolazione che ha visto peggiorare più di ogni altra la propria condizione. Basti pensare che tra il 1979 e il 2017 il loro reddito al netto dell’inflazione è diminuito, in media, del 13%, mentre il prodotto interno loro pro-capite (la ricchezza media degli americani) è aumentata dell’85%, a parità di potere d’acquisto della moneta. Non sono i bianchi non ispanici senza laurea la fascia della popolazione USA che si trova in assoluto nelle peggiori condizioni. Ma è quella che ha avuto la derivata più negativa, il che significa che ha visto peggiorare più di ogni altra il proprio status. L’economia americana li sta mettendo ai margini. Basti pensare che a partire dal 2010, dopo la grande recessione iniziata nel 2007 e proseguita nel 2008, negli Stati Uniti sono stati creati 16 milioni di posti di lavoro. Ma solo 3 milioni (il 19%) sono stati offerti a persone senza una laurea. Tra questi solo 55.000 sono i posti di lavoro offerti a persone che hanno solo un diploma di high school, di scuola media superiore.

Ora cerchiamo di trarre una lezione da questi dati e dal fatto di cronaca. O meglio, cerchiamo di trarre la lezione che Case e Deaton ricavano da tutto ciò. 

Nel 2013, uno dei due autori, Angus Deaton, aveva scritto un altro libro, The Great Escape (la grande fuga), in cui aveva sì analizzato l’origine delle disuguaglianze che caratterizzano la nostra epoca, ma aveva proposto una narrazione assolutamente positiva – di progresso – degli ultimi 250 anni. Il capitalismo, sosteneva allora il premio Nobel, ci ha regalato un inimmaginabile progresso materiale, il declino vistoso della povertà e delle deprivazioni (almeno in occidente) e un non meno vistoso allungamento della vita media. Tutto questo è stato possibile grazie alle applicazioni utili, le tecnologie, delle conoscenze prodotte dalla scienza. «una stella di questo show – confermano Case e Deaton – è stato il capitalismo … aiutato dalle forze della globalizzazione».   

I due autori del nuovo libro pubblicato dalla Princeton University Press qualche mese prima che scoppiasse la crisi indotta dal coronavirus SARS-CoV-2 non sono dunque critici apriori del capitalismo, anche nella forma assunta con la nuova globalizzazione. Al contrario, ne sono entusiastici apologeti. «Noi restiamo ottimisti. Crediamo nel capitalismo e continuiamo a credere che la globalizzazione e il cambiamento tecnologico possono essere utilizzati per un beneficio generale».

Ma ora devono constatare che c’è qualcosa che non va. 

Ad attrarre l’attenzione di Case e Deaton è il tasso di mortalità di alcune fasce della popolazione americana. Tra gli afro-americani, notoriamente la parte più povera della società americana, il tasso di mortalità è diminuito tra il 1970 e il 2000 ed è stato letteralmente abbattuto nei primi quindici anni del XXI secolo. La vita media degli afro-americani nell’ultimo mezzo secolo si è allungata. Al contrario e alquanto inaspettatamente il tasso di mortalità dei bianchi non ispanici in età da lavoro è aumentato. In altri termini per una parte dei bianchi non ispanici la vita media è diminuita.

Da bravi ricercatori, Case e Deaton si sono chiesti perché (e per chi). Hanno così indagato più a fondo la condizione non delle minoranze che conoscono da tempo il disagio (gli afro-americani o gli ispanici), ma proprio i bianchi non ispanici.  

Rilevando due sorprese. Primo: negli Stati Uniti sono in deciso aumento nella popolazione bianca non ispanica i “morti della disperazione”, che vuol dire i decessi per tre cause in particolare: suicidi, overdose da stupefacenti e malattie del fegato causate da alcol. 

Secondo: quasi tutte le “morti di disperazione” sono tra persone che non hanno conseguito almeno un baccalariato, che, come abbiamo detto, in Italia potremmo chiamare una laurea breve. I non laureati si sposano meno, molti non conoscono neppure i propri figli naturali. Hanno lavori di basso livello pagati sempre meno. Sentono che la società li ha sempre meno in considerazione. Certo gli afro-americani stanno peggio in assoluto, ma la loro condizione tende a migliorare. Mentre quella dei bianchi non ispanici senza una laurea si sta deteriorando. È questo che crea la percezione che porta alla depressione. D’altra parte già la storica Carol Anderson aveva notato che chi è stato (o si è sentito) da sempre un privilegiato considera la condizione di uguaglianza come un’insopportabile oppressione. 

                  

Non è solo una percezione (e non sarebbe poco). È una realtà tangibile. Come scrivono Case e Deaton: le persone che non hanno almeno una laurea breve «sono svalutati e persino disprezzati, sono incoraggiati a pensarsi come perdenti, e potrebbero sentire che il sistema è fatto apposta per andare contro di loro».

Hanno meno lavoro in assoluto. E quando lavorano passano da un impiego migliori a uno peggiore. Con salari sempre più bassi. Con una qualità del lavoro sempre più deteriorata. Con una difficoltà a trovare protezione da parte dei sindacati, a loro volta sempre più emarginati. Di qui la difficoltà a sposarsi e a mettere su famiglia. In più i bianchi non ispanici vedono che anche per loro i servizi peggiorano: scuole, parchi, librerie. E, soprattutto, sanità. «Noi crediamo che il sistema sanitario è una calamità senza pari per gli americani e sta indebolendo la loro vita», dicono senza mezzi termini Case e Deaton. Un’affermazione che probabilmente potrebbero rafforzare alla luce di quando sta avvenendo negli USA in fatto di contrasto alla pandemia Covid-19. Questa loro condizione li rende sempre meno integrati e sempre più a disagio. Questa loro condizione li avvicina alla tentazione di suicidio, alle droghe, all’alcol.

Le cause che Case e Deaton individuano riguardano l’attuale sviluppo capitalistico negli Stati Uniti. L’economia finanziaria, ma non solo. Anche le aziende hi-tech della comunicazione sono nel mirino: perché porta poche imprese a offrire sempre meno lavoro e a rastrellare la gran parte dei guadagni. I due economisti usano una metafora: tutto funziona come se a guidare l’economia fosse lo Sceriffo di Nottingham: che toglie ai poveri per dare ai ricchi. 

Questo è il frutto, dicono Case e Deaton, di una distorsione insostenibile del capitalismo. O, se volete, il suo regresso, il suo ritorno al tempo in cui esordiva la rivoluzione industriale, quando la ricchezza delle nazioni aumentava a ritmi senza precedenti, ma a vantaggio di pochissimi, mentre la condizione di vita dei nuovi lavoratori urbani, gli operai, peggiorava, anche rispetto a quella dei loro padri e dei loro fratelli rimasti in campagna a coltivare la terra.

Questo processo non trova alcuno ostacolo nella politica. Che anzi si dimostra del tutto subalterna e lo favorisce, con poche differenze tra repubblicani e democratici. La causa del peggioramento di una classe che una volta era definita media, non va cercata nella delocalizzazione (in Messico, in Cina) di molte imprese. Altri paesi ricchi hanno subito il medesimo processo ma, soprattutto in Europa, non sono incorsi nella medesima crisi. Il sistema di protezione sociale nel Vecchio Continente, pur con i suoi limiti, ha funzionato molto meglio che negli Stati Uniti.

Ora torniamo al fatto di cronaca. Cosa ha a che fare con tutto questo la condanna in Oklahoma della Johnson&Johnson? Case e Deaton hanno passato al microscopio il sistema sanitario americano, fondato sul sistema assicurativo, i cui costi esorbitanti arricchiscono pochi e si traducono in un’enorme minaccia per la salute e il benessere degli americani, come sembra aver rilevato anche il tribunale dell’Oklahoma. Se il governo non interviene a regolare il mercato della salute – come fanno altri paesi, in Europa soprattutto – le tragedie sono inevitabili. «I morti della disperazione hanno molto a che fare con il fallimento – un fallimento unico – dell’America nell’apprendere questa lezione». 

Questa situazione è insostenibile e pericolosa. Non solo per il capitalismo ma anche per la democrazia. La classe lavoratrice bianca, infatti, non pensa che la soluzione dei suoi problemi sia la democrazia. Nel 2016 oltre i due terzi di questo gruppo sociale ha dichiarato di credere che le elezioni siano controllate dai ricchi e dalle grandi corporation. D’altra parte una così grande disuguaglianza, come sostiene Woodrow Wilson, membro della Corte Suprema, è incompatibile con la salvaguardia del sistema democratico. 

Non bisogna indulgere al pessimismo, dicono gli autori, ma è palese che questo regresso va fermato e l’odierno capitalismo va quanto meno riformato. «Il capitalismo non deve funzionare come fa oggi in America […] Il futuro del capitalismo deve essere un futuro di speranza, non di disperazione», scrivono Case e Deaton.

La soluzione non sta (solo) nell’aumentare il numero dei laureati. È bene che un maggior numero di persone consegue un titolo di studio superiore. Ma non è detto che chi non si laurea debba essere considerato un reietto e trattato come tale

In Europa non è così. Non ancora, almeno.

Né c’è bisogno (solo) di un Robin Hood che combatta lo sceriffo di Nottingham e tolga ai pochi ricchi e dia ai numerosissimi poveri, magari con un regime fiscale più equo. Non si tratta (solo) di redistribuire la ricchezza, sostengono i due economisti liberali. Si tratta di cambiare il sistema. 

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