SOCIETÀ
Il Movimento Popolare per la Liberazione dell'Angola vince (di nuovo) le elezioni
Foto Xinhua/eyevine/contrasto
D’un soffio, ma l’Angola ha scelto di non cambiare strada. Di confermare la fiducia al Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (Mpla, centrosinistra), seppure con un risicato 51%, e al suo leader, João Lourenço, che resterà quindi Presidente del paese africano per altri 5 anni. Le elezioni della scorsa settimana sono state le più serrate della sua giovane storia, dal 1975 a oggi, da quando il paese ottenne l’indipendenza dal Portogallo. E da allora, anche attraverso 27 anni di guerra civile, è stato ininterrottamente guidato dall’Mpla, gran parte dei quali con il predecessore di Lourenço, José Eduardo dos Santos, morto lo scorso luglio.
Il partito storicamente rivale, l’Unione nazionale per l'indipendenza totale dell'Angola (Unita, centrodestra), ha ottenuto il 44%, il suo miglior risultato di sempre, ma non sufficiente per portare Adalberto Costa Júnior al palazzo presidenziale di Luanda. Mai così vicini, con un elettorato sempre più giovane (il 60% degli angolani ha meno di 24 anni) e sempre più sfiduciato (ha votato appena il 45% degli aventi diritto) che chiede a gran voce un cambiamento, che presto, fisiologicamente, potrebbe arrivare. Il partito Unita, peraltro, ha deciso di non riconoscere i risultati ufficiali diffusi dalla commissione elettorale dell’Angola, presentando una denuncia per frode, accusando i funzionari della Commissione nazionale elettorale di aver comunicato i risultati di molti seggi “a scatola chiusa”, senza rendere noti i dettagli dei voti. “Unita ribadisce che non riconoscerà i risultati annunciati dalla Commissione elettorale nazionale fino a quando non saranno risolte le denunce già in suo possesso”, ha scritto il partito di Costa Júnior in una nota. Se il ricorso scritto sarà respinto, il partito potrebbe decidere di rivolgersi alla Corte Costituzionale, che sulla base del regolamento elettorale dell'Angola avrà 72 ore di tempo per prendere una decisione. Anche le precedenti elezioni, nel 2017, erano terminate con un ricorso formale di Unita (poi respinto), anche se in quell’occasione il divario tra i due schieramenti era assai più ampio: 61% contro 28%. La polizia ha impedito con la forza che si tenesse una marcia di protesta a Luanda dei sostenitori di Unita, che da Largo da Independência volevano sfilare fino a raggiungere il Palazzo Presidenziale.
Le scorie della guerra civile
«È con grande orgoglio e soddisfazione che celebriamo oggi un’altra vittoria inequivocabile dell’Mpla», ha commentato a caldo Lourenço. «E abbiamo vinto legittimamente, non avremo bisogno di coalizioni. Il ricorso delle opposizioni? Ci sono istituzioni che risponderanno. Ma anche la comunità internazionale ha riconosciuto che queste elezioni sono state libere, eque e trasparenti». La Missione di osservazione elettorale dell’Unione africana, in un report pubblicato il 24 agosto, il giorno stesso delle elezioni (le quinte dall’indipendenza del paese), ha rilevato che «…sebbene ci siano state segnalazioni di irregolarità, le elezioni si sono generalmente svolte in modo pacifico». Anche il Dipartimento di Stato americano ha rilasciato una nota in merito, firmata dal vice portavoce Vedant Patel: «Gli Stati Uniti – ha scritto, nonostante la bassa affluenza - prendono atto dell’ampia partecipazione degli angolani alle elezioni del 24 agosto. Non vediamo l’ora di lavorare insieme su un percorso verso un'Angola più sicura e prospera per tutti. Continueremo a seguire da vicino il processo elettorale. Chiediamo a tutte le parti di esprimersi pacificamente e di risolvere eventuali reclami in conformità con i procedimenti legali applicabili ai sensi del diritto angolano».
La nota degli Stati Uniti non è marginale. Perché molti anni sono passati, ma l’Angola, fino alla conquista dell’indipendenza, fu teatro di una delle tante “guerre per procura” che Usa e Urss combatterono con altri eserciti in casa d’altri, nell’ambito della guerra fredda. Sia l’Mpla (sostenuto da Unione Sovietica e Cuba) sia Unita (appoggiata militarmente da Stati Uniti e Sudafrica) nascono come movimenti ribelli indipendentisti (soltanto in seguito si sono trasformati in partiti) che hanno a lungo combattuto contro il dominio coloniale portoghese. E nel 1975 fu proprio l’Mpla a salire al potere, con un governo di stampo marxista. Una miccia che immediatamente innescò la guerra civile, alla quale parteciparono anche truppe cubane e sudafricane. Un conflitto che in 27 anni (dal 1975 al 2002), attraverso varie fasi, con memorandum d’intesa spesso disattesi (come l’accordo tripartito di New York del 1988), fino alla tregua siglata con gli Accordi di Luena, è costato circa mezzo milione di vite. Quando la guerra civile terminò, i partiti avevano ormai cambiato pelle, a partire dall’Mpla: abbandonata l’ideologia marxista, la democrazia venne formalmente posta alla base del sistema politico del paese. Da allora cinque tornate elettorali, sempre vinte dallo stesso partito, compresa l’ultima.
Tra petrolio e shock climatici
L’Angola non è una nazione qualsiasi: le sue ricchezze fanno gola a molti. Negli ultimi vent’anni la sua produzione di petrolio è quadruplicata, al punto che ormai è considerata il maggior produttore del continente africano, seguita da Nigeria e Libia. E con enormi potenzialità legate alle sue risorse di gas naturale. Il monopolio per l’esplorazione e l’estrazione del greggio è nelle mani della compagnia petrolifera nazionale “Sonangol”, che opera però in collaborazione con le più importanti compagnie straniere (dall’italiana Eni alla britannica Bp, dall’anglo-olandese Shell alla francese Total, fino alle americane Chevron Texaco ed ExxonMobil), con le quali ha firmato numerosi accordi di co-produzione e joint venture. Anche la Cina ha stretto negli anni, con il governo angolano, importanti rapporti di ricerca e di produzione.
Eppure il paese, come spesso accade nel continente africano, resta segnato da profonde contraddizioni e disuguaglianze, con il 57% della popolazione (che sfiora i 33 milioni) che vive al di sotto della soglia di povertà, soprattutto nelle zone rurali, e con una crisi economica che dal 2014 a oggi (prima con il calo del prezzo del petrolio, poi con gli effetti della pandemia) continua a mordere, nonostante nel 2021 il Pil abbia dato un timido segnale di ripresa (+0,2%). Il Global Hunger Index, l’indice statistico che misura la fame nel mondo, colloca l’Angola al 97° posto su 116 paesi analizzati, con un livello definito “grave”. Il cambiamento climatico sta portando, soprattutto nel sud del paese, una gravissima siccità: cibo e acqua sono sempre più scarsi, il che sta spingendo migliaia di persone a lasciare le proprie e a cercare rifugio nella vicina Namibia. Il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (United Nations Development Programme - UNDP) colloca l’Angola al 160° posto nella classifica dell'indice di vulnerabilità climatica.
Amnesty denuncia: repressione dei diritti umani
Dunque un paese assai ricco (anche di diamanti: è il sesto produttore al mondo), ma tutt’altro che un’isola felice. Come ha scritto, il 16 agosto scorso, anche Amnesty International, con Deprose Muchena, direttore per l’Africa orientale e meridionale, che ha denunciato: «In Angola si registra un aumento delle brutali repressioni dei diritti umani, inclusa qualsiasi forma di dissenso: e i manifestanti, compresi i giovani che chiedono responsabilità e diritti socio-economici, non sono stati risparmiati». Una “repressione senza precedenti” secondo Amnesty, compresi omicidi e arresti arbitrari in vista delle elezioni del 24 agosto. La denuncia è dettagliata: «Al culmine della pandemia di Covid-19 nel 2020 – è scritto nel rapporto - le forze di sicurezza responsabili del rispetto delle restrizioni hanno ucciso almeno sette ragazzi con un uso eccessivo e letale della forza. Nel gennaio 2021, la polizia ha sparato e ucciso dozzine di attivisti che stavano protestando pacificamente contro l’alto costo della vita nella città mineraria di Cafunfo, nella provincia di Lunda Norte. Le forze di sicurezza hanno anche inseguito i manifestanti nei quartieri e nelle foreste circostanti. Mentre il numero esatto delle vittime e dei feriti rimane sconosciuto, i corpi abbandonati sono stati trovati nel vicino fiume Cuango».
Le zone d’ombra restano dunque enormi. Ma la Banca Mondiale, in un focus pubblicato pochi mesi fa, vede comunque segnali positivi: «Le prospettive per il 2022 sono favorevoli, soprattutto a causa del continuo aumento dei prezzi del petrolio e di un temporaneo aumento dei livelli di produzione. Il settore petrolifero continuerà a svolgere un ruolo importante durante il periodo di transizione, ma i continui sforzi del governo per diversificare l’economia hanno stimolato la crescita del settore non petrolifero». Un punto a favore del governo uscente. Ed è proprio questa la sfida di fronte al presidente João Lourenço, che in qualche modo dovrà tentare di riconquistare la fiducia dei più giovani. In campagna elettorale ha promesso una profonda lotta alla corruzione e alle disuguaglianze, rincorrendo un “miracolo economico” che potrebbe migliorare la vita a milioni di angolani. Più o meno quel che si era ripromesso nel 2017, ma poi la pandemia ha contribuito a complicare le cose. Lo slogan di oggi è “non solo petrolio”: quello c’è e ci sarà. Ma è indispensabile investire sempre di più nella diversificazione dell’economia e nella creazione di posti di lavoro, nella modernizzazione del sistema educativo e nell’espansione dei servizi sanitari. Questa volta non basteranno le parole: serviranno riforme, idee e soluzioni concrete. E il governo dovrà trovare la “misura” per fronteggiare inevitabili proteste. «Il nostro obiettivo – ha spiegato Lourenço - è rendere l’Angola un paese più ricco, più sviluppato e più innovativo». Per lui, visti i risultati non proprio “larghi” ottenuti in queste elezioni, potrebbe essere davvero l’ultima chance per dimostrarsi affidabile, evitando di scivolare verso la deriva dell’autoritarismo.