SOCIETÀ
Myanmar, la condanna internazionale contro le esecuzioni della giunta militare
Cittadini del Myanmar protestano, in Thailandia, contro il regime militare e le esecuzioni. Foto: Reuters
Per la giunta militare, che con la forza è salita al potere in Myanmar nel febbraio dello scorso anno, erano pericolosi terroristi: «Hanno dato direttive, preso accordi e commesso cospirazioni per compiere atti brutali e disumani». Perciò i quattro attivisti pro-democrazia sono stati “giustiziati”, anche se non si sa quando né dove, né come: l’annuncio è stato dato lunedì scorso. Tra loro Phyo Zayar Thaw, 41 anni, un ex parlamentare molto vicino ad Aung San Suu Kyi, la leader politica birmana finita agli arresti domiciliari subito dopo il colpo di stato, e tuttora accusata di crimini che potrebbero procurarle una condanna a decine di anni di carcere. E lo scrittore Kyaw Min Yu, conosciuto anche come Ko Jimmy, 53 anni, veterano dell’88 Generation Students Group, un movimento pro-democrazia nato proprio per contrastare i militari durante le rivolte studentesche del 1988. Il portavoce della giunta militare, Zaw Min Tun, ha precisato che erano “coinvolti in atti terroristici come attacchi esplosivi e uccisioni di civili”. Gli altri due attivisti eliminati, Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw, erano accusati di aver assassinato una donna che era un’informatrice della giunta. I quattro erano stati processati dai tribunali militari, in procedimenti chiusi al pubblico, dunque senza alcuna possibilità “terza” di valutare l’attendibilità delle prove. La condanna a morte era stata emessa lo scorso gennaio. I loro appelli erano stati tutti respinti, lo scorso giugno. I militari non hanno nemmeno consegnato i corpi ai familiari. Secondo Human Rights Watch, 114 persone sono state condannate a morte (compresi due adolescenti) in Myanmar da quando i militari hanno preso il potere. Sempre dal febbraio 2021, stando al report quotidiano stilato dall’Associazione di assistenza ai prigionieri politici della Birmania, quasi 15.000 dissidenti sono stati arrestati e più di duemila assassinati dai militari. L’ultima esecuzione di una condanna a morte in Myanmar, che allora si chiamava ancora Birmania, risaliva al 1988.
La notizia ha suscitato un’ondata d’indignazione internazionale. Dal segretario di Stato americano Antony Blinken («Tali riprovevoli atti di violenza e repressione non possono essere tollerati. Rimaniamo impegnati nei confronti del popolo birmano e dei suoi sforzi per ripristinare il percorso della Birmania verso la democrazia») al relatore speciale per le Nazioni Unite sui diritti umani in Myanmar, Tom Andrews («Sono indignato e devastato: questi atti depravati devono essere un punto di svolta per la comunità internazionale»). L’Unione Europea ha firmato una dichiarazione congiunta di condanna, assieme a Gran Bretagna, Australia, Canada, Giappone, Nuova Zelanda, Norvegia e Corea del Sud. Ma le condanne questa volta arrivano anche dai paesi vicini. L’ASEAN (Associazione delle nazioni del sud-est asiatico, di cui fa parte anche il Myanmar), attraverso il presidente della Cambogia, ha diffuso una nota nella quale si dichiara «estremamente turbata e profondamente rattristata dalle esecuzioni». La direttrice asiatica di Human Rights Watch, Elaine Pearson, ha definito le esecuzioni «un atto di assoluta crudeltà in conseguenza di processi militari grossolanamente ingiusti e con motivazioni politiche. Una barbarie che punta a terrorizzare il movimento di protesta nato contro il colpo di stato». Sulla stessa linea il direttore regionale di Amnesty International, Erwin Van der Borght: «La comunità internazionale deve agire immediatamente: oltre 100 persone si trovano attualmente nel braccio della morte dopo essere stato condannate in procedimenti segreti e profondamente iniqui». In un video, girato a Yangon, la più grande città del paese, si vedono alcuni manifestanti mascherati esporre uno striscione con su scritto “Non saremo mai spaventati”.
Un regime disperato
Ma c’è chi legge, nella decisione di alzare così platealmente il livello dello scontro (per essere considerati “terroristi” o “traditori” ormai basta manifestare suonando clacson o battendo pentole e padelle), un segnale di profonda debolezza da parte della giunta militare al potere. Come spiega Christina Fink, docente di Practice of International Affairs per la Elliott School of International Affairs: «Le esecuzioni riflettono la disperazione del regime militare, che dopo aver preso il potere nel febbraio 2021 non si aspettavano di dover affrontare una resistenza così lunga e diffusa. Stanno usando varie forme di violenza estrema per incutere paura nei cuori delle persone, in modo che collaborino con il regime anche se non lo sostengono. Un regime sempre più disperato perché l’economia sta crollando. Le società straniere si sono ritirate a causa dell’instabilità politica, della difficoltà di fare affari oggi in Myanmar e del rischio reputazionale. E il valore della valuta locale (il kyat birmano) sta crollando».
La situazione in Myanmar è oggettivamente complessa. Perché i militari, agli ordini del generale Min Aung Hlaing, hanno sì preso il potere con il golpe dell’1 febbraio 2021, quando la premio Nobel Aung San Suu Kyi, il presidente Win Myint e diversi altri leader della Lega Nazionale per la Democrazia, il partito che aveva vinto nettamente le elezioni del novembre 2020 (i militari sostenevano l’opposizione), furono arrestati e condotti in carcere. E con loro migliaia di politici eletti e di attivisti pro-democrazia, giornalisti compresi. Ma ancora oggi non sono riusciti a vincere la tenace resistenza delle milizie etniche locali, al punto che il conflitto viene ormai identificato a livello internazionale come “guerra civile”. Scriveva il Washington Post, in un reportage superato dagli eventi, ma pubblicato appena la scorsa settimana: «Sono passati quasi 18 mesi da quando la giunta birmana ha soffocato la nascente democrazia del suo paese. Ma le truppe della giunta si ritrovano ancora impegnate in battaglie con una serie di milizie etniche, come i circa 60.000 combattenti della People's Defence Force (PDF), gruppi armati affiliati al governo di unità nazionale di opposizione clandestina. Gli analisti ritengono che il regime del golpe sia sotto costrizione, a corto di nuove reclute e incapace di sedare la ribellione iniziata dopo aver interrotto così bruscamente la transizione democratica del paese lo scorso anno». Del resto i militari hanno usato fin dal primo giorno la violenza e il terrore come strumento per soffocare qualsiasi desiderio di democrazia: hanno ucciso civili, torturato bambini, distrutto interi villaggi, incarcerato con processi farsa le più autorevoli voci democratiche. Quindi la protesta pacifica, un tempo teorizzata e sostenuta da Aung San Suu Kyi, è stata superata: ora è guerra, con tutto quel che ne consegue. Le milizie armate locali combattono apertamente contro il regime militare. E il Paese, che sta scontando comunque una gravissima crisi economica (inflazione, carenza di cibo e di carburanti, blackout sempre più frequenti, mancanza di lavoro, metà della popolazione che vive sotto la soglia di povertà) sta scivolando verso una crisi di cui non si vede la fine.
La miniera d’oro delle miniere (e della droga)
Ed è per questo che gli Stati Uniti stanno tentando di coinvolgere la Cina, proprio per aumentare la pressione internazionale sulla giunta militare: «Probabilmente, nessun paese ha il potenziale per influenzare la traiettoria dei prossimi passi della Birmania più della Repubblica popolare cinese», ha dichiarato lunedì scorso il portavoce del dipartimento di Stato americano, Ned Price. «Esortiamo tutti i paesi a vietare la vendita di equipaggiamento militare alla Birmania, ad astenersi dal prestare al regime qualsiasi grado di credibilità internazionale». Anche dall’Australia (finora eccessivamente prudente) e dall’ASEAN (che l’anno scorso aveva proposto un piano di pace, disatteso dai militari) si attende un impegno più energico, come il riconoscimento internazionale del “governo-ombra”, che rappresenta il parlamento democraticamente eletto e coloro che si oppongono al colpo di stato.
Restano da recidere, ma non sarà semplice, i floridi canali che sostengono le finanze su cui la giunta militare può contare. A partire da quello diplomatico con Mosca (il 12 luglio scorso il capo della giunta militare birmana Min Aung Hlaing è andato al Cremlino, in visita privata, dove ha incontrato funzionari delle agenzie spaziali e nucleari della Russia), che esattamente un anno fa aveva consegnato al Myanmar sei caccia Sukhoi Su-30 (costo circa 400 milioni di dollari). Ma poi ci sono gli affari sporchi, soprattutto quello della droga. Il Myanmar è il più grande produttore di droghe sintetiche al mondo, e il secondo, dopo l’Afghanistan, per la produzione di eroina. Un enorme business illegale (che diverse ong stimano in 40 miliardi di dollari l’anno) gestito da gruppi etnici, alcuni dei quali fedeli ai militari al potere. E quello delle miniere, spesso insanguinate, di giada e di rubini, di zaffiri e d’oro. A Hpakant, nel nord del paese, c’è il più grande giacimento del mondo di giada, dove imperano corruzione, schiavismo e violenze mai documentate. E dove frequenti sono le tragedie: aprile 2019, crollo di una miniera, 54 morti; luglio 2020, una frana dovuta alle forti piogge ha ucciso circa 200 persone. Secondo l’ong britannica Global Witness, il settore è controllato fin dagli anni novanta dai militari oggi al potere e vale, secondo una stima della stessa ong, 26 miliardi di dollari l’anno. Nel giugno dello scorso anno l’Unione europea ha deciso sanzioni contro la Myanmar Gems Enterprise, l’azienda pubblica birmana ora controllata dall’esercito. Secondo Campaign Group Progressive Voice la giunta militare sta saccheggiando le risorse naturali del Myanmar: «Il colpo di stato ha aperto le porte allo sfruttamento insostenibile delle risorse naturali, con effetti devastanti sull'ambiente, in particolare negli Stati di Kachin e Shan». La giunta sta inoltre incassando centinaia di milioni di dollari dall'industria del petrolio e del gas attraverso la compagnia statale Myanma Oil and Gas Enterprise (MOGE). Il mese scorso centinaia di organizzazioni di diritti umani del Myanmar e della società civile internazionale hanno chiesto al presidente Macron e al governo francese di sospendere, sulla base delle sanzioni imposte dall’Unione Europea, il pagamento di 250 milioni di dollari a favore del MOGE (che finirebbero dunque nella disponibilità dei militari). La compagnia TotalEnergies ha appena deciso di sospendere tutte le sue attività in Myanmar. Anche il governo americano non ha ancora emesso sanzioni per il MOGE, ma sono previste dal Burma Bill, che è stato appena approvato alla Camera dei Rappresentanti e attende ora il voto del Senato.