CULTURA

Neandertal e altri accidenti: nemmeno il Paleolitico è lineare

A luglio 2022 è uscito uno splendido noir scozzese ambientato a Glasgow nel 1972, Oscuri resti (Feltrinelli, originale inglese 2021, traduzione di Alfredo Colitto), iniziato dal grande William McIlvanney (1936-2015) e completato dal grande Ian Rankin (1960). A pagina 223 un capoclan chiede ai suoi “ragazzi” di trovare nuova manovalanza in vista di probabili tempi duri e violenti: “Voglio che mio portiate un po’ di sangue fresco. Datemi i nomi migliori che avete e fateli sedere intorno a un tavolo. Mi servono intelligenti, capaci di mettere paura, ma senza essere uomini di Neanderthal” (corsivo mio). A luglio 2022 è uscito un ottimo thriller americano ambientato a San Francisco di questi tempi, La mappa nera (Rizzoli, originale americano 2021, traduzione di Sandro Ristori), scritto dal famoso Jeffery Deaver (1950). A pagina 123 il protagonista Colter Shaw cerca di capire perché una donna lo sta seguendo da varie ore, riuscendo a evitare i suoi inseguimenti disvelatori con vari escamotages: “Una cosa era sicura. Era una tipa sveglia, e infatti era riuscita a fermarlo. Quella volta che aveva gettato i chiodi a terra. E poi usando i due Neanderthal nel Tenderloin” (un quartiere, corsivo mio).

Aldilà della traduzione (necessariamente non improvvisabile) e della grafia (andrebbe bene anche Neandertal), il secondo termine della specifica classificazione linnea del genere Homo viene usata come metafora per descrivere una tipologia umana (sapiens) immediatamente individuabile, ben conosciuta nell’immaginario collettivo: individui buzzurri, magari un poco pure intelligenti, ma soprattutto nerboruti e capaci di mettere paura. Non è certo una novità, né scientifica né letteraria. Anzi, è proprio una vecchia storia, che risale addirittura alla scoperta di quella specie e alle rappresentazioni visive fin dall’inizio offerte al pubblico, oltre che alla discutibile convinzione introiettata che la storia delle specie umane abbia un andamento lineare, dal meno al più, dal peggio al meglio. Nulla si può imputare in particolare ai bravi autori di genere citati, ovviamente: sono notoriamente acculturati e capaci, i loro volumi recenti sono fra i venti più venduti in Italia della fiction straniera di quest’estate, tanti altri esempi potrebbero essere fatti.

Ha spiegato Rebecca Wragg Sykes, una delle maggiori conoscitrici del mondo dei Neandertal. “In genere le persone hanno un’idea approssimativa dei Neandertal, con pochi dettagli scientifici. Nella maggior parte dei casi li collocano su uno sfondo di ghiaccio e mammut. Ma a di là degli stereotipi duri a morire – figure tremanti e sfinite su lande ghiacciate, sopravvissute a fatica fino all’arrivo di Homo sapiens per poi crollare a terra esalando l’ultimo respiro – c’era un intero mondo, del tutto diverso”, di immensa estensione nel tempo (finora sono durati per più centinaia di migliaia di anni della nostra specie) e nello spazio (dal Galles ai confini della Cina, a sud ai margini dei deserti arabi), con enormi varietà culturale, complessità ed evoluzione (anche degli stereotipi, come abbiamo visto). “Ma davvero tutti i Neandertal mangiavano le stesse cose, sempre e ovunque?” Ecco il punto. La quantità enorme di reperti e siti (pur ancora incommensurabilmente distante dalla “totalità” delle vite vere) consente ormai di ragionare sulla specie come un insieme articolato di abitudini e di incarnati, di esperienze manifatturiere o artistiche e di forme associate o sociali. La novità del libro di Rebecca Wragg Sykes, Neandertal. Vita, arte, amore e morte, tradotto da Francesca Pe’ (Bollati Boringhieri Torino, 2021, ed. orig. 2020, pag. 441) sta proprio nella valutazione globale sui Neandertal, un po’ come quella che tentiamo di continuo sulla nostra di specie, sapiente, nella nostra evoluzione geografica e storica.

Vissero dall’Europa atlantica all’Asia (ben oltre il Mar Caspio), da oltre 400.000 a circa 40.000 anni fa (quando siamo rimasti soli). I Neandertal interessano tutti, da sempre. Nessun’altra specie umana estinta possiede in Europa il loro fascino popolare. Purtroppo i siti web sanno che i Neandertaliani sono potenti acchiappaclic e adescano i lettori con notizie gonfiate che accentuano una costante alterazione della realtà. Eppure, oggi possiamo ormai contemplare con lo sguardo l’immensa distesa del mondo neandertaliano, che abbraccia migliaia di chilometri e oltre 350.000 anni. Il patrimonio archeologico statico diventa dinamico: vediamo come gli utensili si muovono nei siti e vengono portati via distribuendosi nel paesaggio. Possiamo addirittura compiere il percorso inverso, risalendo alla roccia originaria. E sappiamo ricavare informazioni incredibilmente dettagliate anche dai corpi, dai reperti ossei mineralizzati (fossilizzati), ritrovati quasi per intero o in parte, da quasi un secolo e mezzo a ora.

Enormi database digitali consentono di studiare gli incroci tra geologia, ambiente e azione degli ominini, tenendo bene in conto le diverse velocità di decomposizione delle varie strutture anatomiche e gli altri predatori. Diversificati e flessibili, i Neandertaliani sopravvissero in mondi scomparsi, dove ghiacciai con spessore di chilometri incontravano la tundra, ma anche in foreste temperate, deserti, regioni costiere e montuose. Non costituiscono un gruppo di sempliciotti buoni a nulla su un ramo avvizzito dell’albero genealogico, ma antichi parenti dotati di un’enorme capacità di adattarsi e persino di prosperare. Non sono relegati a un passato remoto e a un vicolo cieco, appartengono a tutti noi.

La nota brillante archeologa inglese Rebecca Wragg Sykes ci presenta con meticoloso garbo i nostri fratelli estinti (presenti nel DNA di miliardi di sapiens contemporanei, soprattutto qui in Europa). Molto opportunamente parte da due figure in bianco e nero, ognuna su due pagine. La mappa dei siti colloca fra la costa atlantica degli attuali Spagna e Portogallo e i picchi montuosi Altaj in Siberia i ben novanta luoghi dove sono state finora rinvenute tracce studiate dei Neandertal, ovviamente più concentrate a ovest che a est, segnalando in grigio chiaro l’estensione maggiore delle terre emerse nei periodi glaciali di abbassamento del mare (per esempio senza Manica e Mare del Nord, con la linea dell’Adriatico fra Gargano e Albania attuali). I siti non erano semplici mete, ma intersezioni, nodi di reti che si estendevano per centinaia di chilometri migrabili.

La successiva riproduzione nel testo del ramo della specie da settecentomila anni (i precursori neandersoviani) a quarantamila (con tante diramazioni per evoluzione in ecosistemi diversi e incroci con altre specie umane) evidenzia la buona lunga convivenza di più specie del genere Homo, sottolineando quanto scientificamente provato, le probabili ibridazioni, le tante verifiche ancora da compiere. La genetica ha aperto un mondo in cui Neandertal di lignaggi diversi si spostavano su interi continenti. Seguono diciotto accurati capitoli (con un disegno e un prologo poetico) che trattano praticamente tutti i reperti e comparano, nel tempo e nello spazio, i vari aspetti della vita biologica e sociale dei Neandertal. Siamo abituati a ragionare sugli ultimi settantamila anni dei sapiens alla conquista di ogni continente del pianeta o su popoli e civiltà che coprono poche migliaia di anni del recente Neolitico. Qui trovate la storia di ecosistemi intercontinentali e di quasi quattrocentomila anni, meno della metà in nostra compresenza geografica, una meraviglia. Al centro un inserto di disegni e foto a colori, in fondo brevi note.

Bene ha fatto, dunque, la versione nazionale del mensile National Geographic a dedicare la copertina e un aggiornato servizio (soprattutto fotografico) del numero di luglio 2022 alle più recenti scoperte e indagini presso alcuni siti neandertaliani italiani, soprattutto alla Grotta Guattari al Circeo in provincia di Latina nel Lazio e alla Grotta Lama lunga sull’Alta Murgia in provincia di Bari (la notoria foto d’impatto riguarda proprio l’Uomo di Altamura nella riproduzione realizzata dai fratelli paleoartisti olandesi Kennis). Ricordiamoci sempre che sono tasselli: Wragg Sykes inserisce in mappa oltre una decina di siti italiani (Liguria, Veneto, Toscana, Campania, oltre ai molteplici in Veneto, Lazio, Puglia). Ognuno spesso risulta diacronico rispetto all’altro, è come se si mettessero accanto etruschi e nuragici. Probabilmente i cari Neandertal vissero da altre parti fra le nostre Alpi e i nostri mari, non molto è stato ancora scavato e repertato, non tutto di quel che si sa e si intuisce è stato approfondito. E, definitivamente, loro non ci sono più da decine di migliaia di anni, mai sapremo tutte le residenze, gli spostamenti, gli intrecci; restano nel nostro DNA, come in quello di gran parte delle popolazioni euroasiatiche.

Come ha scritto Telmo Pievani nell’ultimo editoriale, a proposito dell’altra specie del genere Homo, che chiamiamo Denisova (ancora senza nome latino), anch’essa con una distribuzione geografica vastissima e con una adattabilità notevole in ambienti diversi: “…mi colpisce molto sapere che fino a poche decine di migliaia di anni fa su questo pianeta abitavano due, tre, forse quattro o addirittura cinque specie umane: una pletora di forme umane fino a tempi recentissimi. E apre molti interrogativi: perché siamo rimasti l’unica specie umana sulla Terra, perché le altre si sono tutte estinte? L’avventura antropologica continua e chissà cosa riusciremo ancora a scoprire sul nostro passato”. Il “nostro” passato: di specie, di genere, di famiglia, di regno animale, di esseri viventi. Un passato che si riverbera, ovviamente, nel presente e nel futuro. Le altre specie umane sono vissute solo nel Paleolitico, i sapiens soprattutto nel Paleolitico ma anche nel Neolitico e siamo abituati a sottolineare la svolta dell’agricoltura e dell’allevamento, rischiando poi spesso di vedere i millenni successivi come un teorico “progresso” quantitativo e qualitativo della nostra specie. Scientificamente questa linearità non è confermata ed è fuorviante.

Lo stesso lungo Paleolitico (quasi tre milioni di anni) non fu lineare, questo ormai è più evidente e introiettato, nello spazio e nel tempo. Il fenomeno che dovrebbe più aiutarci a capire, se studiato scientificamente, è quello migratorio. Non possiamo definire genericamente “nomade” ogni gruppo umano di qualsiasi specie da quando camminiamo bipedi. Il nomadismo è una modalità di vita e un’arte manifatturiera affinatisi attraverso centinaia di generazioni, riferibili soprattutto a dopo la residenzialità maggioritaria del Neolitico (quando acquista caratteri storici tipici). Il nomade in linea di massima sa dove bisogna andare, cosa si deve portare e ci si può aspettare, come sopravvivere e adattarsi e riprodursi, perché possa risultare vantaggioso sostare un poco o quando ripartire (in quale stagione o clima). Fuggire non è essere nomadi, e molto nel Paleolitico si è fuggito da cambiamenti climatici o altri animali predatori. Incuriosirsi del mondo oltre lo sguardo non è essere nomadi, e molto nel Paleolitico si è scoperto camminando e vagando, alla ricerca pure di altro (meno noto) cibo o riparo o benessere. Emigrare e immigrare, tecnicamente, presuppone stanzialità, eppure ci si spostava in “altri” luoghi anche nel Paleolitico, senza essere necessariamente nomadi, fra grotte e ripari, un poco più lontano da ghiacci e deserti oppure, oltre che per le cento altre dinamiche del vivere e comunicare in gruppi.

Il fenomeno migratorio dovrebbe essere considerato diacronico e asimmetrico per definizione: mai lineare; sempre dirimente per comprendere la vita e le vite, stanziali o meno; fattore di autonoma peculiare pressione selettiva. E andrebbe studiato unitariamente per tutta la lunga fase delle molte specie umani bipedi compresenti sul pianeta, nell’insieme dei camminatori e per ciascuna specie camminante (magari sottolineandone le andature diverse oltre che i manufatti diversi). Nemmeno Wragg Sykes lo fa per i Neandertal, pur citando spesso loro migrazioni. L’asimmetria indica una mancanza di corrispondenza o di proporzione fra due o più parti di una stessa configurazione o distribuzione, di uno stesso fenomeno.Il fenomeno migratorio è asimmetrico, in sostanza, perché implica un duplice (almeno) fattore luogo, consiste di una pluralità di eventi migratori differenti e connessi, l’emigrazione da un ecosistema o un luogo umano «confinato» e l’immigrazione in un differente ecosistema o in un altro luogo umano «confinato», regolati da motivazioni e gradi di libertà differenti che impattano asimmetricamente anche sugli ecosistemi (origini, transito, destinazione casuale o scelta).

La diacronia in linguistica indica il fattore tempo, che nell’esistenza di una lingua permette a questa di variare continuamente e di farsi attuale in una serie indefinita di espressioni linguistiche; è divenuto autonomo metodo di studio che considera la lingua e altri fenomeni in una prospettiva storica plurale, individuandone i mutamenti e i modi dell’alterazione. Il fenomeno migratorio è diacronico, in sostanza, non solo perché (come gran parte dei fenomeni fisici) ha cause ed effetti sfalsati nel tempo ma soprattutto perché fra quando inizia e quando provvisoriamente finisce pure un singolo unidirezionale cambio di residenza può accadere di tutto, è un’avventura (sociale) ben prima che diventi davvero emigrazione e a prescindere che termini con un’immigrazione.

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