SCIENZA E RICERCA
New data for new challenges. Cosa ci dice la paleodemografia sul nostro passato
Pochi dati, sparsi e non sempre affidabili perché il campione è davvero molto piccolo. E un lavoro certosino di ricostruzione che unisce indizi geologici, chimici, biologici da integrare con nozioni storiche, documenti e molto altro. Quello di Isabel Séguy, paleodemografa all’Istitut National d’Etudes Démographiques a Aubervilliers, appena fuori Parigi, non è un mestiere semplice. E soprattutto, in un certo senso come ci dice lei sorridendo, sembra a molti un po’ inquietante.
Isabel Séguy apre la seconda sessione della Conferenza “New data for the new challenges of population and society” organizzata dal dipartimento di Scienze Statistiche dell’università di Padova il 22-24 Settembre. E lo fa raccontando di dati raccolti su popolazioni che datano dall’epoca romana al XVIII secolo. Il punto, spiega Séguy, è che si tratta sempre di pochi dati, particolari, che non consentono di dire molto sull’epoca cui si riferiscono. Permettono solo di trarre conclusioni sulla durata della vita delle persone ed eventualmente sull’impatto di alcuni grandi eventi sulle popolazioni di un certo luogo.
Pur utilizzando metodi che oggi sono molto più sofisticati di quelli disponibili in passato, la ricostruzione è ancora molto episodica perché manca una solidità e consistenza del campione e non è sempre possibile sapere se gli individui analizzati fossero o meno rappresentativi della popolazione di quel territorio in un certo periodo storico. “È un lavoro in cui bisogna essere molto onesti e umili” dice Séguy, perché appunto non è sempre possibile trarre conclusioni generali. Però i dati raccolti permettono di vedere che ad esempio eventi tragici come le pandemie e le guerre del passato difficilmente si manifestano da soli e spesso sono invece legati, e si sviluppano dunque in cicli. A un evento climatico può far seguito una carestia, una epidemia e poi una migrazione, ad esempio. E quindi i segni di questi eventi rimangono molto ben presenti anche per secoli, in termini di durata della vita. Questo, ci dice Séguy, ci ricorda che mentre viviamo un momento di crisi seria, come ad esempio la pandemia attuale, ovviamente ci preoccupiamo di più delle conseguenze immediate ma in realtà ci sono conseguenze a lungo termine che non vediamo ma che saranno molto visibili a chi studierà i nostri resti nei prossimi secoli.
Recentemente, Séguy ha avviato un nuovo progetto di ricerca in collaborazione con antropologi e demografi messicani per valutare l’impatto della colonizzazione sulle popolazioni native. Anche lì si sono trovati di fronte a un doppio problema. La scarsità di campioni, che rimane il tema principale, ma anche la differente unità di misura adottata dai ricercatori messicani per valutare l’età degli scheletri. In un caso, quello francese, l’indicatore biologico utilizzato è la chiusura della sutura craniale, mentre in quello messicano misurano la deformazione del cranio nel senso della lunghezza. Si tratta di misure differenti su crani di forma anche molto diversificata e dunque vanno in qualche modo confrontate e armonizzate. Ma la prospettiva di poter valutare gli effetti demografici su popolazioni diverse di eventi di portata e impatto così importante rimane una sfida davvero affascinante.
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