Le bandiere di alcuni dei Paesi membri della NATO. Foto: Reuters
Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, lo ripete da giorni: «Gli obiettivi del Cremlino non si fermano all’Ucraina». Dando sostanza a un timore condiviso da un numero sempre più consistente di analisti: lo scenario di guerra potrebbe presto diventare assai più ampio di quello osservato finora. Una parziale conferma è arrivata nei giorni scorsi da Minsk, dove il presidente bielorusso Lukashenko, fedelissimo di Putin, è apparso in un video nel quale mostra ai membri del Consiglio di Sicurezza una mappa dell’Ucraina divisa in quattro aree che lascerebbe immaginare le future mosse dell’esercito russo. Una di queste aree comprende anche la Transnistria, regione formalmente appartenente alla Moldavia, al confine occidentale ucraino, che dal 1990 si è autoproclamata indipendente (con il nome di “Repubblica Moldava di Pridnestrovia”), con un proprio governo, guidato da separatisti filo-russi e foraggiato dal Cremlino (uno schema assai simile a quel che è accaduto nel Donbass). Un’indipendenza mai riconosciuta dalla comunità internazionale. Il piano di battaglia mostrato da Lukashenko indica un possibile sbarco dell’esercito russo nel porto di Odessa e da lì l’attacco al confine moldavo, fino a raggiungere la piccola enclave filorussa, dove stabilmente stazionano circa duemila soldati russi.
Chi rischia, chi trema
Il video non è stato diffuso per sbaglio: l’obiettivo è fare pressione, minacciare, intimorire. Far credere che le forze russe-bielorusse siano “sul punto di”. E non c’è soltanto la Moldavia a temere l’arrivo dei russi: ci sono le Repubbliche baltiche (Lituania, Lettonia, Estonia), c’è la Georgia, dove già nel 2008 Putin ha attaccato, favorendo con le armi l’indipendenza delle due regioni russofone Ossezia del Sud e Abkhazia: un antipasto dell’annessione della Crimea del 2014 (e nei giorni scorsi in migliaia hanno protestato a Tbilisi contro il premier Irakli Garibashvili, accusato di non aver risposto con fermezza all’invasione russa in Ucraina). Ma ci sono perfino Finlandia e Svezia, paesi che appartengono all’Unione Europea, ma non alla Nato: e la loro presenza agli ultimi summit dell’Alleanza Atlantica (l’ossessione di Putin per l’espansione della Nato sta spingendo anche i paesi neutrali a prendere posizione) hanno mandato su tutte le furie il Cremlino. E c’è la Polonia, che con l’Ucraina divide oltre 500 km di confine. Il primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki, l’ha detto chiaramente: «Putin vuole sviluppare la sua politica aggressiva, la sua invasione. Ha cominciato in Georgia, ora in Ucraina. Il prossimo obiettivo potrebbero essere i paesi baltici, la Polonia, la Finlandia o altri paesi sul versante orientale. Questo è un test per l’Occidente. Il modo in cui reagiremo a questo test determinerà il nostro futuro, non per anni ma per decenni».
L’eventuale sconfinamento dei soldati russi in territorio polacco non sarebbe indolore. La Polonia fa parte della Nato: e l’articolo 5 del trattato, sulla difesa collettiva degli Stati membri, prevede che “un attacco armato contro uno o più degli alleati sarà considerato un attacco contro tutti loro”. Quindi guerra aperta, con tutti i rischi (soprattutto nucleari) che questo scenario comporterebbe. Anche se finora, da Occidente, prevale la prudenza. Ancora pochi giorni fa Stoltenberg ripeteva: «L’alleanza non si sposterà in Ucraina, né con forze di terra, né nello spazio aereo». Aiuti al Kiev sì, presidio militare alle frontiere della Nato sì, ma nessun intervento diretto. Come dire: troppo rischioso uno scontro in campo aperto. Il presidente francese è arrivato a scrivere un messaggio alle sue forze armate (oggi presenti in Polonia, Estonia e Romania) per chiedere “massima vigilanza e autocontrollo” nell’eventualità di un contatto con l’esercito russo: «Non rispondete alle provocazioni», ha chiesto Macron. Intanto, lo stesso giorno dell’invasione russa, 8 nazioni che fanno parte della Nato (Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania e Slovacchia) hanno invocato l’articolo 4 (attivabile quando si ritiene minacciata l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di un paese), il che ha portato all’immediata convocazione del Consiglio Nord Atlantico, il principale organo decisionale dell’Alleanza.
Il progetto di Putin non era un segreto
Difficile prevedere oggi le strategie di Putin, costretto com’è a mantenere un equilibrio tra i suoi deliri d’espansione e la sostenibilità non soltanto diplomatica, ma anche economica e logistica, di un’operazione militare a lunga durata, e a lunga estensione. Ma non c’è alcun dubbio che il suo piano originario, da anni, fosse quello di riportare la Russia alle dimensioni di “grande potenza” e di sottrarre i paesi orientali all’influenza della Nato (riportando il calendario al 1997), oltre a puntare al disarmo dei paesi baltici, della Polonia e della Romania. Un piano tutt’altro che segreto, che semmai è stato sottovalutato dalla Nato. Al proposito è utile rileggere un interessante rapporto del DGAP, il Consiglio tedesco per le relazioni estere, pubblicato il 7 gennaio del 2021 (quindi in tempi non sospetti e quando non si parlava d’altro che di pandemia): «Non possiamo escludere che la leadership russa, che sta affrontando una triplice crisi, che combina bassi prezzi del petrolio, un processo costituzionale in stallo e difficoltà socio-economiche, possa nuovamente guardare all'avventurismo di politica estera per creare un nuovo effetto "raduno intorno alla bandiera". Le azioni di Mosca nella politica estera, di sicurezza e di difesa sono state progettate per ripristinare lo status di grande potenza della Russia e allo stesso tempo ristabilire il cordone sanitario di cui godeva fino alla fine della Guerra Fredda. In particolare, vuole riprendere il controllo del "vicino estero" della Russia, chiedendo una "zona di interesse privilegiato" storicamente giustificata. Ciò avverrebbe a spese della sovranità e della sicurezza degli Stati vicini». E ancora: «A ostacolare le ambizioni espansionistiche della Russia ci sono l’UE e la Nato, e soprattutto la presenza militare statunitense in Europa. Ma se l'unità della Nato fosse sufficientemente minata, la sua capacità decisionale paralizzata, la sua capacità di difendersi indebolita, l'organizzazione stessa potrebbe crollare. Se ciò accadesse, la Russia otterrebbe il controllo su un campo aperto; l'espansione del controllo russo sull'Europa sarebbe quasi automatica». Dunque, era già tutto previsto. Lo schema del Cremlino è chiaro. L’incognita a questo punto è: quanto riuscirà Putin a prolungare la guerra? Fin dove si spingerà? E a quale prezzo? E la Nato, quando deciderà d’intervenire? Quale sarà, per l’Occidente, il “confine” del tollerabile”? E la Cina? Continuerà a coprire le spalle al responsabile del massacro di migliaia di civili?
Domande che oggi fanno paura, anche alla luce della minaccia nucleare (secondo la Federation of American Scientists, la Russia ha 5.977 testate nucleari, circa 4.500 delle quali attive). Ne sanno qualcosa i paesi del “vicino estero” che più concretamente vedono avvicinarsi la minaccia dell’invasione. A partire dai tre paesi baltici, Estonia, Lituania e Lettonia, occupati e annessi senza alcuna cortesia da Stalin durante la seconda guerra mondiale, fino all’indipendenza, riconquistata nel 1991, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il loro ingresso nella Nato, nel 2004, è il segno di una scelta non più negoziabile. Il presidente della Lituania, Gitanas Nausėda, ha dichiarato lo stato d’emergenza, sostenendo che «nessun Paese in Europa può sentirsi al sicuro quando si parla di Putin» e proponendo un inasprimento delle sanzioni. Gli ha fatto eco il ministro degli esteri, Gabrielius Landsbergis: «La battaglia per l’Ucraina è una battaglia per l’Europa. Se Putin non si ferma lì, andrà oltre». Ieri l’ha ribadito lo stesso presidente ucraino, Zelensky: «Se l’Ucraina cade, la Russia si prenderà i paesi baltici». Dalla Lettonia è il premier Arturs Krišjānis Kariņš a parlare: «Il mondo democratico oggi dice un chiaro "no" all’imperialismo del presidente russo». Mentre Baltic News riporta la notizia che si stanno intensificando le esercitazioni militari in prospettiva di un’invasione. La premier dell’Estonia, Kaja Kallas, non nasconde la preoccupazione: «L’appetito di Putin aumenta a ogni morso dato all’Ucraina». Kallas ha poi invitato gli stati della Nato a potenziare urgentemente le difese dei paesi balcanici con una presenza permanente di truppe e aerei sul loro territorio. L’Estonia ha già annunciato che aumenterà la spesa per la difesa al 2,3% del Pil il prossimo anno, mentre l’aumento per Lettonia e Lituania sarà al 2,5% del Pil. E ieri una nave cargo di proprietà estone è affondata dopo un’esplosione al largo di Odessa, la più grande città portuale dell’Ucraina, sul mar Nero, che potrebbe diventare nelle prossime ore uno degli snodi cruciali del conflitto.
La minaccia ai paesi scandinavi
Ma i timori più concreti arrivano in queste ore fino alla penisola scandinava, con lo sconfinamento di quattro jet russi nello spazio aereo svedese, a est dell'isola di Gotland, nel Mar Baltico. Una violazione di breve durata, ma severamente commentata dal ministro della difesa svedese, Peter Hultqvist, che l’ha definita “inaccettabile”. La Svezia ha chiuso il suo spazio aereo ai voli russi lo scorso 28 febbraio. Il comandante dell’aeronautica svedese, Carl-Johan Edström, ha dichiarato: «Alla luce della situazione attuale, prendiamo l’incidente molto sul serio. Si tratta di un'azione non professionale e irresponsabile da parte della Russia». Per dire del livello di preoccupazione: la Svezia ha deciso di inviare aiuti militari all’Ucraina (così come la Finlandia) rompendo una prassi consolidata da oltre 80 anni. Stando ai sondaggi effettuati questa settimana nei due paesi scandinavi, oltre la metà delle popolazioni sono favorevoli a un’adesione alla Nato.
Il rischio, oggi, è che sia troppo tardi. Che Unione Europea e Stati Uniti, per timore delle reazioni del Cremlino, abbia concesso a Putin troppo spazio (anche economico-commerciale) per mettere a terra i suoi piani d’espansione. Ora la risposta è arrivata, compatta. Ma non saranno le sanzioni a fermare la criminale avanzata di Putin. Scrive Robin Wright, editorialista del New Yorker: «Guardando indietro, il difetto centrale nella strategia dell'Occidente è stato il timore che qualsiasi azione preventiva - fornendo armi più potenti al Kiev o imponendo prima sanzioni economiche ai mediatori russi del potere - sarebbe stata usata da Putin come giustificazione per attaccare l’Ucraina. L’Occidente ha anche cercato di evitare di emanare sanzioni economiche che avrebbero interrotto il flusso delle forniture energetiche mondiali e le loro stesse economie. Ora è chiaro che il leader russo intendeva invadere, qualunque cosa avesse deciso di fare l’Occidente».