Sidney Poitier e Spencer Tracy in "Indovina chi viene a cena?"
“In questo Paese cento milioni di persone si sentiranno scioccati, offesi e sconvolti da voi due”. Matt Drayton, il benestante, illuminato padre di famiglia interpretato da Spencer Tracy, sta per concludere il monologo finale di Indovina chi viene a cena?. Il film di Stanley Kramer, uscito negli Usa poco prima del Natale 1967, si basa su un tema che per l’epoca era urticante. Una coppia di californiani bianchi upper class, intellettuali progressisti, è chiamata, nello spazio di poche ore, a passare dall’astratta fede nei valori dell’uguaglianza e del rispetto delle minoranze alla necessità di applicarli sulla propria pelle. La figlia Joanna, cresciuta a pane e valori democratici, si è coerentemente innamorata di un medico nero (Sidney Poitier) e vuole sposarlo. Prima che termini una cena familiare, i coniugi Drayton dovranno decidere se dare il loro consenso, facile da predicare ai party e nei salotti, un po’ meno se riguarda la propria famiglia.
La frase di Drayton non era, nel ’67, una boutade. Fino a pochi mesi prima che il film uscisse (titolo originale Guess Who’s Coming to Dinner, che nella versione italiana guadagna inspiegabilmente un punto di domanda) in un terzo del territorio americano erano ancora in vigore leggi che vietavano i matrimoni interetnici: la spallata definitiva avvenne, nel giugno di quell’anno, con la sentenza della Corte Suprema Loving contro Virginia, che provocò la decadenza delle norme discriminatorie nei singoli Stati. Ma il trionfo del film (tra i maggiori incassi dell’anno, dieci nomination, Oscar a Katharine Hepburn e allo sceneggiatore William Rose), al di là dell’ovvio happy end e del fatto che Poitier interpretasse un personaggio tediosamente privo del più piccolo difetto, fu un segno di tempi che stavano, pur lentamente, cambiando, e mandava un messaggio potente: troppo semplice pensare che il razzismo sia esclusiva di ambienti rurali, degradati e poco scolarizzati, quando le élite metropolitane che dovrebbero promuovere le grandi innovazioni sociali mascherano le proprie contraddizioni con chiacchiere da benpensanti.
Quanto ha contribuito Indovina chi viene a cena? a sradicare i pregiudizi razziali? Difficile dirlo, ma certo è un ottimo esempio di come un’opera hollywoodiana di forte impatto commerciale, confezione perfetta, con attori eccezionali, potesse conciliare passione civile e box office: un obiettivo non certo agevole (Kramer dovette fronteggiare sia le perplessità della produzione che il precario stato di salute di Spencer Tracy, che morì pochi giorni dopo la fine delle riprese). Fa una certa impressione, quindi, pensare che tra qualche anno un film come questo potrebbe non essere candidabile all’Oscar più importante, quello per il miglior film, perché non abbastanza impegnato contro le discriminazioni. Pochi giorni fa, l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences ha pubblicato i nuovi criteri obbligatori perché una pellicola possa ottenere la nomination nella massima categoria (Best Picture). I parametri, che entreranno in vigore a partire dall’edizione 2024, intendono promuovere la rappresentatività delle minoranze (etniche, sessuali o relative a disabilità) all’interno dell’industria cinematografica, obbligando i produttori ad osservarli per concorrere al premio più ambito del mondo.
I requisiti sono di quattro tipi, dei quali almeno due dovranno essere rispettati. Il primo riguarda aspetti strettamente correlati ai contenuti e al cast: le minoranze dovranno essere rappresentate nel soggetto del film, oppure da uno degli attori protagonisti, o da una consistente quota dei non protagonisti. Le altre tre categorie riguardano il “dietro le quinte”: dovranno appartenere a una minoranza alcuni componenti dello staff creativo e tecnico di vertice (come il direttore della fotografia, del montaggio o della scenografia) e di quello non di vertice; a giovani esponenti di minoranze andranno garantite opportunità di tirocini e formazione; infine, rappresentanti delle minoranze faranno parte del team di marketing, pubblicità e distribuzione. Come si accennava, i gruppi tutelati dalle nuove norme sono di diversa natura: etnica, sessuale (intendendo come minoranze sia le donne che la comunità LGBTQ+) fino alle persone con disabilità cognitive o fisiche.
I cambiamenti nella politica per gli Oscar si inseriscono nella nuova strategia dell’Academy, finita al centro delle proteste alcuni anni fa per la scarsa differenziazione etnica nell’attribuzione delle candidature al premio e nella scelta degli stessi componenti dell’Accademia. E certo anche nell’industria cinematografica le discriminazioni non mancano, in termini di opportunità lavorative ed economiche. Ma come conciliare la tutela delle minoranze con l’assoluta libertà creativa che deve, necessariamente, presiedere all’attività artistica? Se Indovina chi viene a cena? fosse stato escluso dalla massima candidatura perché non rispettava un numero sufficiente di parametri dell’Academy, sarebbe davvero stato un buon servizio alla causa antirazzista? Ma, soprattutto, era proprio necessario stabilire una griglia così rigida di parametri per assicurare il sostanziale rispetto delle minoranze nel mondo del cinema? Il Washington Post ha voluto verificarlo, passando al vaglio i film che nelle ultime quindici edizioni degli Oscar hanno vinto proprio il massimo riconoscimento, quello per il miglior film. Ne è risultato che quasi i tre quarti delle opere considerate (undici su quindici) si attenevano già ai parametri minimi (almeno due su quattro), mentre per i rimanenti quattro film l’esclusione sarebbe tutta da discutere (i criteri sono passibili di interpretazioni divergenti).
Certo, questo non basta per sostenere che nel mondo del cinema non vi siano lobby che controllano il sistema produttivo e la selezione di chi ne fa parte: ma, a quanto pare, non sarà la griglia dell’Academy a cambiare le cose, se non accompagnata da azioni meno simboliche e più incisive. Ed è, in ogni caso, inaccettabile qualunque vincolo sugli aspetti direttamente correlati ai contenuti dell’opera e alla creatività degli autori, perché produttori e registi devono essere liberi di immaginare trame e personaggi come diavolo desiderano; se si vuole promuovere l’inclusione nelle tematiche (e di conseguenza nei cast) delle opere cinematografiche, ha senso piuttosto estendere premi ad hoc, bandi, finanziamenti per pellicole meritorie nel mettere in luce minoranze e tematiche sociali.
Quanto ai criteri di rappresentatività per gli aspetti tecnici e minori, possiamo pensare a inserire meccanismi di tutela per attori secondari (in piccola quota), staff tecnico e commerciale, tirocinanti, ma in questo caso il problema non concerne tanto quell’infinitesima frazione di opere che arrivano alla nomination per l’Oscar, ma il sistema produttivo nel suo complesso. L’idea di ingabbiare in un elenco di adempimenti e requisiti le scelte di fondo di un artista, quelle che riguardano direttamente che cosa raccontare e come farlo, pur con le migliori intenzioni rischia di farci imboccare un sentiero molto pericoloso. Diamo spazio a chi è penalizzato, ma evitiamo l’obbligo di condire un gangster movie giapponese con il 30% di attori indios, o una commedia intimistica su un gruppo di amiche libanesi con una quota standard di maschi caraibici. No, non è il caso che i politici rubino il mestiere agli sceneggiatori.