Quando il re persiano Dario convocò alla sua corte Greci e Indiani Callati fece loro un’insolita proposta: che i due popoli si scambiassero i riti funebri. Mentre infatti i Greci avevano l’abitudine di bruciare i cadaveri, i Callati se ne cibavano. Davanti alla provocazione di Dario, entrambe le delegazioni dei popoli convocati inorridirono al solo pensiero. Per i Callati non ci sarebbe stato niente di più inaccettabile che dare in pasto al fuoco i corpi senza vita delle persone che avevano amato, mentre i Greci non volevano neanche sentir parlare di cannibalismo rituale. Il rispetto dei morti, che per entrambi i popoli rappresentava un principio sacro e indiscutibile, si traduceva in pratiche e comportamenti completamente differenti, assolutamente inconciliabili.
Questo celebre episodio tratto dalle Storie di Erodoto (Libro III, par. 38) viene solitamente citato per spiegare il concetto di relativismo etico, una posizione filosofica ricorrente nella storia del pensiero umano, secondo la quale i principi morali (tutti o parte di essi) non hanno valore di per sé. Secondo questa teoria, i concetti, i giudizi e i comportamenti morali sono tali per convenzione e quindi possono variare nel corso del tempo e, soprattutto, a seconda del contesto culturale di riferimento.
L’indagine degli specifici valori che costituiscono l’orientamento morale complessivo di una società avviene principalmente nell’ambito di studio dell’antropologia morale che, come spiega il professor Fabio Dei, docente di antropologia culturale all’università di Pisa, può essere considerata come lo studio di ciò che gli autori classici chiamavano ethos.
“Con il termine ethos si intende il complesso dei valori e degli orientamenti di una società nei confronti del mondo o, in parole più semplici, l’insieme delle cose che stanno a cuore ai membri di quella società”, spiega Dei. “L’indagine antropologica dell’ethos emerge fin dai lavori dell’antropologo Evans-Pritchard, considerato uno degli autori fondamentali della prima metà del Novecento. Egli studiava le società africane e si domandava a cosa fossero interessate le persone che ne facevano parte, quale fosse lo scopo della loro vita e quali principi e valori guidassero il loro comportamento sociale.
Il dibattito sull’universalità o la relatività dei valori accompagna l’intera storia di questa disciplina. Fin dall’antropologia classica è diffusa infatti la tesi secondo la quale la morale non è altro che un insieme di criteri che mutano a seconda della cultura di riferimento. D’altro canto, non ogni forma di relativismo nega necessariamente l’esistenza di alcuni valori comuni a ogni cultura umana.
Un momento emblematico nella storia di questo dibattito risale al 1947, periodo in cui la Dichiarazione universale dei diritti umani si trovava in fase di elaborazione. In quell’occasione, alcuni membri dell’American Anthropological Association proposero di inserire nel documento un principio che tutelasse il relativismo culturale. Secondo questo principio, ogni individuo avrebbe avuto il diritto inalienabile di vivere seguendo i criteri morali della propria società. La proposta fu rifiutata perché, formulata in questi termini, avrebbe minato l’universalità stessa dei diritti e avrebbe paradossalmente giustificato comportamenti razzisti e situazioni di disuguaglianza.
Nonostante questo, ancora oggi il dibattito sui diritti umani si scontra con problemi di questo tipo. Spesso ci si ritrova a domandarsi, ad esempio, se quelli che consideriamo universali non siano in realtà valori solamente occidentali e non applicabili in toto ad altre culture. Questo dà vita a numerose dispute riguardo a problemi specifici come, ad esempio, l’età in cui un essere umano non viene più considerato un bambino, bensì un adulto. Infatti, per quanto l’Unicef stabilisca che un bambino è un qualsiasi essere umano sotto i 18 anni, nel continente africano, dove la composizione demografica è molto diversa da quella del mondo occidentale, si diventa adulti agli occhi della società attorno ai 14 anni”.
“Esiste poi un altro filone dell’antropologia morale che non si occupa di indagare quei valori morali espliciti che, come abbiamo detto, costituiscono una parte fondamentale della cultura, bensì i presupposti morali dei comportamenti quotidiani”, continua il professore. “Ci riferiamo a quelle piccole abitudini quotidiane (che si avvicinano vagamente al concetto di “etichetta”, ndr.) che diamo per scontate quando ad esempio interagiamo con le altre persone per strada o nei luoghi pubblici e che in realtà sottendono principi morali fondamentali. Si tratta di quelli che l’antropologo Erving Goffman chiamava micro-rituali della società e che compongono una morale invisibile, non esplicitamente formulata. In questo tipo di ricerche, l’obiettivo degli antropologi non è tanto quello di confrontare le abitudini morali di società o culture differenti, bensì cercare di far emergere questi presupposti impliciti nella costruzione del nostro stesso mondo e della nostra vita quotidiana tramite il metodo etnografico dell’osservazione diretta del comportamento quotidiano”.
La ricerca di valori universali e relativi tramite il confronto tra diverse società resta comunque uno dei fondamentali aspetti dell’indagine antropologica della morale per quanto, come sottolinea il professor Dei, è difficile affermare di poter riscontrare determinati principi morali dappertutto, specialmente quando si studiano le cosiddette società tradizionali, ovvero quelle popolazioni che vivono in condizioni preindustriali. “Nelle società tradizionali non esistono solitamente degli imperativi categorici che codificano esplicitamente un contenuto morale”, spiega il professore. “Tali contenuti vengono piuttosto inferiti dagli antropologi che ne studiano la cultura e le abitudini. Si può osservare, comunque, che un tratto universale che sembra accomunare tutte le culture umane sia l’elaborazione di sistemi morali legati ai tre grandi momenti chiave dell’esistenza che in ogni società vengono regolati da specifiche istituzioni: la nascita, la morte e il matrimonio. Questi sistemi morali si basano, ad esempio, su diverse forme di rispetto per la vita umana”.
Il discorso si complica ulteriormente se proviamo a spostarci dalla morale all’etica, e quindi ai motivi per cui determinati valori, giudizi e comportamenti morali vengono considerati tali (in altre parole, mentre la morale si domanda se un comportamento sia giusto o sbagliato, l’etica si occupa anche di stabilire perché quel determinato comportamento sia giusto o sbagliato).
Come riflette il professor Dei, in antropologia morale non è sempre semplice risalire alle giustificazioni che i gruppi umani adducono per spiegare i principi, i giudizi e i comportamenti morali, a prescindere dal contenuto di questi ultimi. “Analogamente a quanto osservato prima, con riferimento ai precetti morali espliciti, la riflessione etica intesa come giustificazione dei principi di comportamento appartiene soprattutto al mondo occidentale e, in particolare, al lavoro filosofico”, afferma il professore. “Non esistono considerazioni analoghe nelle società tradizionali senza scrittura che costituiscono l’oggetto classico dell’indagine antropologica. Queste popolazioni non producono sistematiche spiegazioni dei precetti morali. Le motivazioni incorporate nei loro giudizi morali vanno piuttosto ricercate tramite l’osservazione diretta del loro comportamento oppure nei corpora di sapere locale e mitologici.
Nelle società tradizionali non esiste quindi una filosofia naturalista e razionalista a giustificazione di certi concetti morali come quella che invece la tradizione occidentale ha affermato come un suo tratto caratteristico. Di fronte alla domanda “perché fate così?” o “perché vi comportate in questo modo?” c’è quasi sempre, in risposta, il richiamo a una tradizione che non implica una giustificazione morale razionale e che talvolta può essere supportato da racconti esemplari, in primis i miti. Se ci pensiamo, si tratta del grande problema posto da Erodoto quando racconta della proposta dello scambio dei riti funebri avanzata da Dario. Entrambi i popoli apparivano sconvolti e indignati dalle usanze degli altri e non sarebbero mai stati disposti a scambiare le loro pratiche, pur senza saperne dare una giustificazione razionale”.
“Il discorso invece cambia se ci rivolgiamo alla contemporaneità e andiamo a considerare, ad esempio, la figura del terrorista suicida di stampo islamista che, specialmente nel secondo decennio degli anni Duemila, ha rappresentato per l’occidente l’immagine del male e dell’alterità per eccellenza”, prosegue il professore. “Il terrorista è un attore morale incomprensibile perché in lui convivono due caratteristiche apparentemente contraddittorie: un altruismo totale nei confronti dell’ideale in cui crede e per il quale è disposto ad abbandonare ogni istinto di autoconservazione, sacrificando la sua stessa vita, e allo stesso tempo una crudeltà inaudita che lo porta a uccidere persone innocenti. Dal punto di vista dell’antropologia morale è interessante domandarsi come spiegare questa cultura, e, soprattutto, che motivazione ha il terrorista suicida che, ricordiamolo, è un agente razionale ben consapevole di quello che fa e che considera il suo gesto come un atto di moralità. Si tratta, per certi versi, dello stesso interrogativo antropologico fondamentale che si sono posti gli storici che hanno cercato di comprendere le motivazioni della shoah.
In casi come questi, esiste certamente un discorso razionale elaborato per giustificare la correttezza dei comportamenti. I terroristi che praticano l’attacco suicida hanno ben chiare le giustificazioni che motivano i loro atti, le quali sono solitamente di ordine politico o religioso e, ai loro occhi, hanno anche carattere morale. In un certo senso potremmo ipotizzare che un tratto universale della morale umana consista nel bisogno di riconoscere il bene negli atti che compiamo e di giustificare positivamente i nostri comportamenti all’interno della nostra visione del mondo.
Una grande sfida per l’indagine antropologica consiste proprio nel tentativo di considerare queste persone come portatrici di una morale specifica – per quanto mostruosa – e nella volontà di approfondire quali contesti di vita, percorsi educativi e scelte quotidiane possono portare al consolidamento di nuovi criteri morali che si sostituiscono progressivamente a quelli più comuni”.