Jorge Mario Bergoglio (Flores, Buenos Aires, 17 dicembre 1936) è divenuto papa Francesco il 13 marzo 2013, otto anni fa, duecentosessantaseiesimo papa, il primo proveniente dal continente americano. Pochi giorni fa, all’inizio di marzo 2021 si è svolto il suo storico faticosissimo viaggio in Medio Oriente, storico sul piano interreligioso (nessuno reciprocamente evangelizza altri che evangelizzano), storico sul piano politico (ci si è incontrati laddove si è pure sofferto, finora e per millenni, a causa di guerre, deportazioni, schiavitù fra umani, anche religiose). Faticoso per i ritmi accelerati, la biodiversità degli ecosistemi (non esattamente mediterranei), la varietà religiosa e culturale degli interlocutori.
Iraq will always remain in my heart. I ask all of you, dear brothers and sisters, to work together, united for a future of peace and prosperity that leaves no one behind and discriminates against no one. I assure you of my prayers for this beloved country. #ApostolicJourney
— Pope Francis (@Pontifex) March 8, 2021
Il viaggio apostolico in Iraq è durato dalla partenza all’alba di venerdì 5 marzo al ritorno nella tarda mattinata di lunedì 8 marzo. Papa Francesco ha dormito la prima notte a Baghdad, dopo un intenso pomeriggio di cerimonie, visite, incontri; sabato mattina ha raggiunto in aereo Najaf per una visita di cortesia allo Ayatollah Sayyid Ali Al-Husayni Al-Sistani(Islam sciita, maggioranza nel paese rispetto a quello sunnita), poi ancora in volo verso sud a Nassiriya per il grande appuntamento interreligioso presso la Piana di Ur (antica grande città sumera della Mesopotamia, all’originale foce di Tigri ed Eufrate, poi molto altro e patria di Abramo), tornando nel pomeriggio per poter celebrare la Santa Messa nella Cattedrale Caldea di “San Giuseppe” nella capitale; la domenica l’ha dedicata alla martoriata area del Kurdistan verso nord, partenza presto per Erbil (sede delle istituzioni regionali), poi spostamenti in elicottero a Mosul (il nome dato dagli arabi musulmani all'antica Ninive, capitale dell'impero assiro), successivamente a Qaraqosh, rientro in auto a Erbil, seconda messa e volo per Baghdad, dove ha dormito per la terza notte prima di ripartire. Sono luoghi noti agli studiosi e spesso richiamati nelle cronache italiane non solo per i travagli politici.
Già nel preventivo programma ufficiale della visita era prevista una “Conferenza Stampa del Santo Padre durante il volo di ritorno”. Lunedì 8 marzo sull’aereo da Baghdad per Ciampino vi è effettivamente stato un lungo colloquio del papa con i giornalisti, nel quale lo stanco determinato pontefice ha sintetizzato i punti importanti del viaggio con una prima valutazione a caldo. Tutti gli organi d’informazione ne hanno dato giustificato ampio risalto, non solo attraverso i pezzi di chi aveva viaggiato con il papa, pure con titoli in prima pagina, fondi di commento e altri articoli redazionali corredati di foto, mappe, carte e spiegazioni. In quei giorni abbiamo anche potuto vedere le dirette e i servizi televisivi con le immagini, nei giorni successivi vari programmi di cultura e approfondimento sono tornati sull’evento, il rilievo immediato e la portata storica sono stati colti dall’opinione pubblica di tutto il mondo, come pure dai protagonisti della geopolitica, nella prospettiva di relazioni un poco meno conflittuali e militari, lì e altrove, ora e in futuro, una speranza per il mondo intero. Vi torneremo sopra per anni. Risultano davvero tanti, fin dal principio, gli aspetti del pontificato che richiedono un apprezzamento culturale e un continuo aggiornamento sotto molteplici profili.
La visita di Papa Francesco in Iraq. Foto: Reuters
Può essere utile sottolineare subito un punto cruciale dei commenti finali del pontefice, che forse andrebbe colto e valutato dai governanti e dai cittadini ovunque esercitino il loro potere e la loro esistenza. Papa Francesco ha ricordato che, tornando in macchina domenica scorsa 7 marzo da Qaraqosh a Erbil, ha pensato alla vita travagliata dei cristiani e dei non cristiani che vedeva ai lati della strada, tanta gente, tanti giovani; si è chiesto quale potesse essere il loro futuro, dove potranno andare visto che in tanti dovranno inevitabilmente lasciare il Paese e ha tratto poi dai una dirompente indicazione di carattere generale: “La migrazione è un diritto doppio: diritto a non migrare, diritto a migrare. Questa gente non ha nessuno dei due, perché non possono non migrare, non sanno come farlo, e non possono migrare perché il mondo non ha ancora preso coscienza che la migrazione è un diritto umano. L’altra volta mi diceva un sociologo italiano parlando dell’inverno demografico in Italia: entro 40 anni dovremo importare stranieri perché lavorino e paghino le tasse delle nostre pensioni. Ma la migrazione la si vive come un’invasione. Ieri ho voluto ricevere, perché lui me lo ha chiesto, dopo la Messa, il papà di Alan Kurdi. Questo bambino è un simbolo che va oltre un bambino morto nella migrazione, è un simbolo di umanità, di civiltà che muoiono. Ci vuole urgente misura perché la gente abbia lavoro al suo posto e non abbia bisogno di migrare e anche misure per custodire il diritto di migrazione.” I corsivi sono miei, tutti gli organi di informazione del pomeriggio e del giorno dopo (cartacei) riportano le stesse frasi, più o meno esattamente negli stessi termini. Non c’era un testo scritto e non erano singole interviste.
“ La migrazione è un diritto doppio: diritto a non migrare, diritto a migrare
Potremmo sintetizzare così il concetto innovativo espresso dal papa, sapendo che allo stato attuale codesto principio della realtà non viene in sostanza accolto da nessuna disciplina scientifica, né gestito da nessuna amministrazione pubblica nazionale: diritto di restare e libertà di migrare sono i due poli differenti e necessari di un unitario fenomeno migratorio umano, asimmetrico e diacronico, riconosciuto come diritto “doppio”, in quanto entrambi i poli sono rintracciabili nella Dichiarazione Universale del 1948 e ora nei due distinti recenti Global Compact dell’Onu, ovunque in vigore! Il “diritto a non migrare” corrisponde al divieto di imporre movimenti (delocalizzazioni) ai nostri simili, al (teorico) divieto di migrazioni forzate; coincide dunque con l’insieme geolocalizzato dei diritti umani di un sapiens, ovunque collocato sul pianeta contemporaneo: alla vita, al cibo e all’acqua bevibile, all’istruzione e alla salute, alla casa e al lavoro, intesi pertanto come diritti a poter restare dove si è nati e cresciuti, quelli che mancano in parte dell’Iraq e del Medio Oriente, in alcuni stati soprattutto africani e latinoamericani, in fasce sociali non così ristrette pure di tanti paesi ricchi e opulenti. Noi abbiamo violato e violiamo tale “diritto a non migrare” non solo con guerre e deportazioni, discriminazioni e persecuzioni (per le quali si può chiedere asilo e c’è un’apposita convenzione, appunto sui “rifugiati”), bensì anche con molti altri comportamenti coloniali e con gli effetti dei cambiamenti climatici antropici globali (che sono stati provocati da attività umane in alcuni paesi emettitori e si verificano però prevalentemente altrove).
Autonoma e separata dal diritto di restare, esiste la libertà di movimento e di migrazione per ogni sapiens, ovunque collocato sullo stesso nostro pianeta. La maggior parte degli abitanti della Terra, in ogni epoca storica e in ogni ecosistema istituzionalizzato, non ha avuto e non ha proprio voglia di esercitare tale libertà; però, quale che sia la ragione per cui comunque a un certo punto possa decidere di tentare di trasferirsi da qualche altra parte, una volta che ne risulta capace e la esercita, la libertà esercitata diventa un diritto, quel “diritto a migrare”, quel “diritto di migrazione” di cui parla papa Francesco, previsto dalle norme internazionali, con un unico limite: la legislazione sull’immigrazione dei singoli Stati può imporre alcune condizionalità di tempi e di modalità, pur se non può (potrebbe) negare assolutamente il diritto dell’individuo in libero movimento, il diritto di tutti i migranti in corso d’opera. Giusto, in tal senso, definire Alan Kurdiun migrante, un povero ulteriore “morto nella migrazione”. Prima che si possa chiedere asilo bisogna salvare e assistere tutti, poi l’eventuale riconosciuto rifugiato ha uno status internazionale e un percorso, da parte sua il migrante ha le regole d’integrazione nel paese d’immigrazione. Alan era un bambino migrante di tre anni, di etnia curda, profugo dalla Siria con i genitori, in viaggio dalla Turchia verso la Grecia e l’Europa (con probabile destinazione in Canada), fin quando il suo corpo annegato è stato trovato senza più vita su una spiaggia.
Il diritto di non migrare è assoluto, la libertà di migrare è relativa alle libere valutazioni, ai gradi di libertà effettiva e alle capacità di ciascuno. Dentro questa relatività rientrano le questioni occupazionali, richiamate dal pontefice: se “la gente” non ha lavoro “al suo posto” e ha “bisogno di migrare” non si diventa rifugiati ma emigranti, che immigrano altrove per lavorare in modo giusto e mantenersi nel rispetto delle regole. La dialettica politica e le normative nazionali sull’immigrazione dovrebbe tenere bene in conto che gli immigrati già arrivati e inseriti fanno molto del bene al Paese che li visti arrivare, innanzitutto sul piano sociale e demografico, come ulteriormente ricorda papa Francesco in un altro passaggio delle sue illuminanti riflessioni. Abbiamo accennato più volte a questi aspetti, non solo per quanto riguarda l’Italia. Appare proprio sbagliato vivere gli arrivi come una presunta invasione, sia sul piano quantitativo che sul piano qualitativo. I numeri sono bassissimi, per esempio rispetto alle percentuali di emigranti italiani nei secoli e nei decenni scorsi. I pericoli di invadenza culturale sono sostanzialmente inesistenti, visto che quasi tutti gli studi segnalano piuttosto il dramma, psicologico e culturale, dello sradicamento e dell’assorbimento. Casomai, la dinamica da curare è quella di un meticciato ricco, nel quale non si perdano rilevanti biodiversità umane. Ma siamo meticci da millenni, la nostra è ormai una specie tutta meticcia, ovunque ci troviamo, qualunque siano i nostri genitori, nonni e bisnonni.