SOCIETÀ

Le parole sono importanti!

Se le sono dette di santa ragione Nancy Pelosi e Donald Trump. Sentite: la presidentessa del Congresso ha dato del «patologicamente obeso» al presidente degli Stati Uniti. E lui, Donald Trump, ha risposto con un gentile: «Quella donna ha problemi mentali».

A tutti appare evidente che non è un bel modo di parlare quello scelto da due tra le più alte cariche istituzionali di una delle nazioni più potenti e culturalmente influenti del mondo. No, le loro parole non sono state all’altezza del ruolo. Anzi, sono tutt’altro che commendevoli a prescindere dal ruolo. Sono brutte in assoluto. Appartengono a un linguaggio che tende a offendere invece che a dialogare e a concentrarsi sui contenuti.

Sono un esempio di un cattivo linguaggio.

Ma il linguaggio non è neutro. Le parole producono effetti, non restano a fluttuare nell’aria. Il linguaggio può escludere invece che includere, come ci spiega molto bene Laura Nota nell’intervista qui accanto.

«Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!», ammoniva Nanni Moretti in uno dei suoi indimenticabili film: Palombella rossa.

Ora le parole così poco commendevoli di Nancy Pelosi e di Donald Trump erano intenzionali. Volevano offendere. Ma noi tutti – giornalisti e scienziati compresi – usiamo spesso un linguaggio stereotipato senza un’intenzione precisa. Per abitudine. In automatico.

Prendiamo il caso delle persone che svolgono la funzione di badante. Anche il nostro governo nelle sue informative sui mass media parla tranquillamente “delle badanti”. Dando per scontato che chi svolge quella funzione sia una donna. Mentre ci sono anche badanti di sesso maschile. Ma questa è considerata un’anomalia. Il linguaggio, persino quello istituzionale, tende a confermare l’idea che la funzione di badante sia naturaliter esclusiva delle donne. Con un sottinteso: è un lavoro di bassa qualificazione.  

Il linguaggio stereotipato appartiene anche ad alcuni ambiti scientifici. Per esempio nella tassonomia del vivente il nostro genere è indicato come Homo, che in latino vuol dire uomo. Si dirà, questo è un retaggio congelato: questo nome è stato scelto in passato quando la disuguaglianza di genere (nel senso di maschi e femmine) era la norma. Ma non è così. Ancora oggi la gran parte dei libri scritti dagli antropologi e ancor più degli articoli scritti dai giornalisti che trattano della storia di Homo sapiens parlano tranquillamente di “evoluzione dell’uomo”, accreditando implicitamente e persino non intenzionalmente l’idea che l’evoluzione riguardi soprattutto quella della componente maschile della specie. Va da sé che sarebbe corretto – anzi, necessario – parlare di evoluzione dell’umanità: delle femmine e dei maschi della specie sapiens.

Il linguaggio stereotipato appartiene anche ad alcuni ambiti scientifici

Certo, non c’è un’intenzione esplicita di cancellare le donne dalla storia umana. Ma l’uso della parola “uomo” al posto della parola “umanità” ha degli effetti (discriminatori) evidenti.

Questo dunque è il punto, come ci invitano a considerare tanto Laura Nota quanto la Linguistic Society of America: «Il linguaggio stereotipato non è spesso questione di un’intenzione ma piuttosto di effetti».

E gli effetti del linguaggio stereotipato – anche quando non è intenzionale – tendono a escludere invece che includere. A dividere invece che unire. A idealizzare invece che ad analizzare.

Se dico, per esempio, «i neri vanno aiutati» ho una finalità positiva, ma dò per scontato che tutte le persone con la pelle più scura siano poveri e/o incapaci. Ovviamente si tratta di uno stereotipo. Non tutte le persone con la pelle un po’ più scura sono bisognose d’aiuto e non tutte le persone bisognose d’aiuto hanno la pelle scura. Vi è anche il caso (peraltro frequentissimo) di persone con la pelle più scura che aiutano persone bisognose con la pelle più chiara. Un esempio su tutti, Barack H. Obama, persona dalla pelle un po’ più scura che ha messo in campo politiche sociali volte a migliorare la condizione di tutte le persone del suo paese, a prescindere dal colore della pelle.

Il linguaggio stereotipato non è spesso questione di un’intenzione ma piuttosto di effetti

Già, la persona. Come spiega molto bene Laura Nota, è questo il punto: il nostro linguaggio deve diventare più attento e lo può fare solo se mette al centro la persona. Se si mette nella prospettiva che siamo 7,7 miliardi di persone in questo momento sulla Terra e tutte portatrici di una propria individualità che trascende il genere, il conto in banca, la religione e anche il colore della pelle.

Da questa premessa nasce la necessità di un “linguaggio inclusivo”. Di un linguaggio che rispetta le persone.

Ma allora perché anche noi che siamo animati da questi giusti propositi spesso incorriamo in errore. Perché, per esempio, anche noi giornalisti anche quando siamo animati da buoni propositi continuiamo a parlare di “handicappati” o di “portatori di handicap” o di “sordomuti”?

Si potrebbe dire, per abitudine.        

Ma non basta. Questa abitudine è l’epifenomeno di qualcosa di più profondo: non abbiamo ancora maturato fino in fondo la cultura del rispetto della persona. Del riconoscimento dell’altro. Tendiamo ancora a catalogare l’umanità con etichette stereotipate. Perché è più semplice. Consente di cementare una nostra (falsa) identità: di italiani, di europei, di bianchi o anche di persone che si percepiscono come normodotate.

Ma facendo così non ci accorgiamo che, al di là delle nostre intenzioni, le parole hanno degli effetti tangibili. Che discriminano le persone con un certo colore della pelle, con un certo grado di disabilità, con un certo credo religioso, con una certa visione del mondo.

Dobbiamo, dunque, maturare una cultura del rispetto per la persona. Il che significa anche usare le giuste parole e riflettere sui meccanismi automatici che ci inducono a usare quelle sbagliate. Un cambio di paradigma culturale non si effettua a comando. C’è bisogno di tempo. Ma c’è bisogno anche di luoghi dove accelerare il processo: la scuola, l’università, i mass media. Anche noi giornalisti dobbiamo fare la nostra parte. Lo dobbiamo a chi viene discriminato dal nostro linguaggio. Ma anche noi stessi. Perché ha ragione Nanni Moretti: «Chi parla male, pensa male e vive male».

Ecco, dunque il nostro impegno: «Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!».

Per quanto riguarda Il Bo Live possiamo dire che noi ci impegneremo sempre più nel cercare «le parole giuste». E quando sbaglieremo (può capitare) saremo grati a quei lettori che ce lo segnaleranno.

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