Mille miliardi. Questo sarebbe il numero di alberi da piantare per contrastare il riscaldamento globale e, di conseguenza, il cambiamento climatico.
È così che dicono, quando si tratta di dare delle cifre, le numerose campagne per la salvaguardia del clima che vedono nell’azione di piantare alberi su larga scala la soluzione giusta: per citarne un paio, la Tree Trillion Campaign e Plant-for-the-Planet. In questa direzione, pur senza dare un numero preciso di alberi da piantare ma limitandosi a un impegno per bloccare la deforestazione entro il decennio attuale, va l’accordo siglato nei primi giorni della COP26 a Glasgow. Ancora, così suggeriscono i ricercatori e divulgatori scientifici, come Stefano Mancuso, che ha più volte rilasciato dichiarazioni in questo senso, o come Thomas Crowther e il suo gruppo di ricerca che in un articolo pubblicato su Science nel 2019 affermano: “La reintegrazione degli alberi rimane una delle più efficaci strategie per attenuare il riscaldamento globale.” Il dibattito pubblico, grazie anche all’impatto che hanno avuto le campagne per la piantumazione di nuovi alberi, ha messo in risalto solamente gli aspetti positivi di questa pratica.
Ma siamo sicuri che piantare alberi e basta sia la miglior via da percorrere? Per Giorgio Vacchiano, ricercatore in gestione e pianificazione forestale all’Università Statale di Milano, la risposta non è così semplice. L’azione di piantare in sé, da sola, non sarebbe sufficiente. Innanzitutto è essenziale individuare dei criteri che forniscano dei binari-guida sui quali organizzare e far progredire l’intervento di rimboschimento. Per Vacchiano, tre sono i principali: le aree dove effettuare tale azione, il tipo di foresta che si vuole far nascere e, infine, le cure successive al momento della piantumazione. In primo luogo, “bisogna riconoscere le aree dove la foresta non è in grado di tornare in tempi utili a noi – spiega il ricercatore - oppure quelle dove non possiamo permetterci di aspettare neanche uno o due anni come, per esempio, i pendii a rischio di dissesto idrogeologico”.
È poi importante tener conto del tipo di foresta alla quale si vuole dar vita. Per far questo, bisogna prendere in considerazione fattori come le tipologie di specie di alberi da piantare e la distribuzione nello spazio degli stessi, facendo attenzione a creare un paesaggio eterogeneo. In tal senso è bene sottolineare il ruolo che gioca “la mescolanza di specie che usiamo, che più sono meglio è - ricorda Vacchiano - dal momento che le monoculture creano problemi quando si verificano disastri ambientali, mentre i boschi eterogenei hanno più carte da giocare in casi di disastri ambientali”. Infine, in una foresta giovane c’è da aspettarsi un alto tasso di mortalità, soprattutto nelle prime fasi di vita. È per questa ragione che cure come sostituire le piante che muoiono o irrigarle se dovesse arrivare una siccità sono importanti fra i 5-7 anni successivi alla piantumazione. “Quando creiamo un bosco artificiale non facciamo mai un lavoro efficace come quello che fa la natura selezionando già in partenza le piante che dovranno sopravvivere in un certo luogo, che sono le più adatte”, aggiunge il ricercatore.
Tornando alla campagna mille miliardi di alberi, un'altra importante considerazione che Vacchiano invita a tener presente è che tale cifra non è da raggiungere solamente attraverso un intervento di forestazione, ma anche favorendo la capacità di riproduzione naturale che ogni foresta possiede. “Piantare un numero così grande di alberi sarebbe molto difficile e molto costoso - spiega Vacchiano - gli alberi sanno benissimo riprodursi da soli. È compreso perciò in questo conteggio un favorire le capacità della foresta di rinnovarsi per via naturale attraverso i propri semi”.
Questa capacità di autorigenerazione è un importante fattore da tenere in considerazione per un’efficace gestione forestale. Oggi tale capacità naturale è messa in seria difficoltà, anche in regioni dove prima non lo era, a causa del cambiamento climatico. Quanto le foreste saranno in grado di rinnovarsi naturalmente in tale contesto? Uno studio pubblicato nel mese di settembre di quest’anno su Global Ecology and Biogeography ha svolto un’analisi di questo tipo con dati raccolti nelle foreste europee dal 1986 al 2018. Il risultato mostra che il 70% delle foreste riesce a rigenerarsi nell’intervallo di tempo che intercorre tra due eventi danneggianti. Si parla invece di foreste a scarsa resilienza climatica per quelle dove i disturbi forestali si verificano troppo velocemente rispetto alla capacità riproduttiva naturale del bosco. In questi casi può succedere che l’ecosistema vegetale transiti da foresta a un altro bioma proprio in ragione dei mutamenti climatici. Tale situazione non è certo resa più facile dalle attività antropiche che vanno ad intaccare l’ecosistema delle foreste, una per tutte: la deforestazione. “Una ragione per cui può essere impossibile far tornare una foresta è proprio la sinergia tra deforestazione, o degrado, e cambiamento climatico, in particolare la siccità - spiega Vacchiano – e questo perché la germinazione dei semi avviene in un momento preciso e grazie a un aumento di umidità. Ma se arriva una siccità, o più siccità ripetute, i semi rischiano di non riuscire ad aprirsi o per lo meno di non farlo in tempo per battere la concorrenza di un altro tipo di vegetazione: le erbe, i rovi, gli arbusti”. La conseguenza è vedere il paesaggio trasformarsi in una prateria, in una savana o in un arbusteto. Un esempio concreto di quanto detto può essere proprio il caso dell’Amazzonia che da molti anni è oggetto di un’azione di deforestazione. “Ad oggi – aggiunge Vacchiano - il bacino amazzonico ha già raggiunto il 17% di deforestazione. Secondo alcuni studi se raggiungesse tra il 25% e il 40% si creerebbe quel punto di non ritorno per cui tutta l’Amazzonia rischia di transitare ad una savana”.
Questi scenari interessano anche l’Europa. Nello studio pubblicato su Global Ecology and Biogeography, vengono individuate foreste a scarsa resilienza climatica nelle aree della penisola iberica, in particolare in Portogallo. I dati della ricerca, però, si riferiscono al 2018 e da quella data a oggi la situazione è cambiata. Un esempio? L’intensa stagione di incendi boschivi della scorsa estate: “Lo vediamo anche da noi, in Italia – conclude Vacchiano - dopo gli incendi della scorsa estate, si è parlato molto di piani straordinari di rimboschimento ma stiamo parlando di aree che continueranno a essere a rischio incendi, dove la siccità continuerà a colpire e dove perciò, periodicamente, avremo stagioni in cui ogni piccola scintilla si potrà diffondere molto velocemente nella vegetazione”. Incendi frequenti e siccità ricorrenti sono alcuni dei prodotti del riscaldamento globale rispetto al quale il ruolo di contrasto giocato dalle foreste è quello di sequestro di CO₂, funzione-chiave compromessa dalla crisi climatica stessa: “Il cambiamento climatico mette sotto pressione le foreste e rischia di vanificare il lavoro di sequestro di carbonio che gli alberi hanno fatto” spiega Vacchiano. Si tratta di un circolo vizioso. Che può essere spezzato anche grazie a una gestione forestale che consenta al tempo stesso di attenuare i rischi dovuti al riscaldamento globale e di aumentare l’impatto delle foreste come serbatoio di CO₂ per contrastare la crisi climatica.