SOCIETÀ
Polinesia, vincono i separatisti. La Francia teme uno scossone politico ed economico
Il presidente francese Macron. Foto: Reuters
Uno scossone politico a quindicimila chilometri di distanza sta facendo tremare Parigi, e in particolar modo il presidente Macron, che vede potenzialmente a rischio uno dei suoi principali asset strategici in politica estera. Le elezioni territoriali che si sono appena tenute nella Polinesia francese, possedimento d’oltremare della République nell’Oceano Pacifico meridionale, a nord-est della Nuova Zelanda, 280mila abitanti sparsi in un centinaio di isole di incomparabile bellezza, hanno visto l’affermazione netta del partito “blu” separatista Tavini Huira’atira, guidato dall’ex presidente della Polinesia, Oscar Temaru, che aveva incentrato l’intera campagna elettorale sulla promessa, in caso di vittoria, di istituire al più presto un referendum sull’autodeterminazione. Con il 44,3% dei voti, Temaru si è assicurato la maggioranza assoluta all’Assemblea regionale (38 seggi su 57 totali).
Mercoledì prossimo, 10 maggio, sarà nominato il nuovo capo del governo, Moetai Brotherson, 53 anni, che appena chiusi i seggi si è comunque affrettato a raffreddare gli eccessi d’entusiasmo: «Non saremo indipendenti domani, né la prossima settimana. Ora siamo pronti a lavorare con il governo francese». Al ministro dell’Interno francese, Gerald Darmanin, che sovrintende ai territori d'oltremare, non è rimasto altro che riconoscere, a denti stretti, l’esito delle elezioni: «I polinesiani hanno votato per il cambiamento: la loro è una scelta democratica».
La preoccupazione dell’Eliseo nasce non tanto, o non soltanto, dal consolidarsi del (legittimo) sentimento indipendentista tra i polinesiani, quanto per il “prezzo”, strategico e militare, che un simile passaggio potrebbe comportare. Un prezzo davvero enorme: la Francia possiede attualmente un’immensa ZEE (Zona Economica Esclusiva), vale a dire quello specchio di mare che si estende fino a 200 miglia marine (circa 370 km) dalla costa. La ZEE, secondo quanto stabilisce la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, consente al paese “proprietario”, e a lui soltanto, il diritto di esplorare e sfruttare a suo piacimento quel tratto di mare. Complessivamente la Zona Economica Esclusiva di competenza francese si estende per oltre 11 milioni di chilometri quadrati, ed è la seconda al mondo dopo quella degli Stati Uniti. Circa la metà, 4,5 milioni di kmq, si trova in Polinesia (che a tutti gli effetti fa parte dell’Unione Europea). Mentre la Nuova Caledonia, altro territorio d’oltremare francese, eredità del periodo del colonialismo (possedimento francese dal 1853 ed ex colonia penale), più vicino alle coste dell’Australia, dispone di 1,5 milioni di kmq di ZEE. Queste porzioni di “sovranità” non sono simboliche: oltre al possibile sfruttamento delle risorse materiali (la Nuova Caledonia è ricchissima di nichel, la Polinesia avrebbe giacimenti di platino e di cobalto ancora da esplorare), consentono alla Francia di far parte delle potenze mondiali in grado di determinare le strategie politiche nell’area dell’Indo-Pacifico. Un ruolo da protagonista, come nessun’altra nazione europea può vantare: da un punto di vista diplomatico, militare, economico e culturale. E la linea politica di Parigi è ben definita: costruire un argine per contenere l’espansionismo della Cina nell’area. Con il sostegno, a vario titolo e con differenti intensità, di Stati Uniti, Australia, Giappone, India, Nuova Zelanda e Unione Europea.
Il fantasma di Pechino
Perciò Parigi è stata ed è ben disposta a concedere “autonomia amministrativa” (di cui entrambi i possedimenti godono da decenni), ma non l’indipendenza: che toglierebbe alla Francia qualsiasi legittimità per operare, in prima persona, su quello scenario geopolitico. In Nuova Caledonia per tre volte si sono tenuti referendum indipendentisti (l’ultimo nel 2021) e sono stati sempre respinti dalla popolazione locale, in modo anche assai netto. In Polinesia no, non si è mai votato: perché la Francia si è finora sempre opposta con forza a qualsiasi ipotesi di consultazione popolare, nonostante la Polinesia francese sia dal 2013 sulla “lista di decolonizzazione” delle Nazioni Unite. L’esito delle ultime elezioni potrebbe tuttavia aver dato una prima spallata decisiva a questa “resistenza” dell’Eliseo. In passato i partiti indipendentisti erano già saliti al potere, ma sempre costretti a stringere fragili alleanze. Ora, per la prima volta, avranno la maggioranza assoluta.
Il timore che si agita, nemmeno troppo velatamente, nei peggiori incubi dell’Eliseo (e di tutti gli attori direttamente interessati, a partire dagli Stati Uniti) è che dietro questo ritorno di fiamma dell’indipendentismo polinesiano ci sia lo zampino del presidente cinese Xi Jin Ping. Perché l’enorme territorio, anche marittimo. che la Francia si trova ad amministrare rappresenta un formidabile asset strategico per il predominio nell’area (basti pensare alla possibilità di avere basi militari o di posare cavi sottomarini). Un asset che fa gola, e molto, a Pechino, impegnata in una complessa partita che si gioca contemporaneamente su più tavoli, assai interessata agli stati del Pacifico, sempre facendo leva sugli accordi bilaterali che pian piano si trasformano in insediamenti, prima commerciali, poi militari. «Se guardi al largo dalle coste della Cina, la prima cosa che vedi è una catena di isole che ti bloccano, dal Giappone alle Filippine a Taiwan», spiegava lo scorso anno a Le Monde la ricercatrice canadese Cleo Paskal. «Lo spazio può sembrare vasto, ma se vuoi schierare sottomarini e aerei, o accedere all’alto mare, non puoi farlo. Per raggiungere l’Indo-Pacifico, ma anche l’Artico, la Cina deve rompere questa catena e, per questo, prendere Taiwan. Da Taiwan, sarà in grado di proiettare il suo potere, creare una zona di controllo, e quella zona include anche le isole del Pacifico». La stessa Paskal, a proposito delle elezioni in Polinesia, ha poi precisato: «Sappiamo che in altri luoghi la Cina ha fornito aiuti ai separatisti, anche sostenendo finanziariamente i movimenti secessionisti nella Federazione degli Stati della Micronesia. Di certo una Francia indebolita nel Pacifico gioverebbe molto a Pechino, perché potrebbe neutralizzare la proiezione di assetti militari basati in Nuova Caledonia e aumentare l’accesso della Cina all’hub polinesiano, strategicamente cruciale per il trasporto marittimo».
Il presidente sconfitto: «Saranno 5 anni complicati»
Ma davvero c’è la Cina dietro il successo degli indipendentisti polinesiani? La risposta è no, almeno stando a quanto riportano i media francesi, secondo i quali l’intelligence francese non avrebbe osservato alcuna interferenza di Pechino nel processo elettorale. Ma il sospetto resta lì, sospeso, in attesa di capire quale piega prenderà la politica polinesiana. Il presidente uscente, Édouard Fritch, leader del partito autonomista Tapura, che si è fermato al 38,5% dei consensi, ha commentato così la vittoria dei separatisti: «Saranno cinque anni complicati per la Polinesia. Dovremo essere vigili e reattivi». La questione geopolitica, che tanto a cuore sta alla Francia, non è naturalmente l’unico tema che orienta le scelte dei polinesiani. C’è l’inflazione elevata (8,5% nel 2022), ci sono le tasse, compresa l’ultima aliquota decisa dal presidente uscente per continuare a garantire il mantenimento della previdenza sociale. L’elettorato, sempre più polarizzato tra autonomisti e separatisti (più che nella classica dicotomia destra-sinistra), evidentemente non ha gradito e ha preferito spostare la fiducia sul partito Tavini. Il candidato alla presidenza, Moetai Brotherson, ha già annunciato che la sua squadra di ministri sarà composta in maggioranza da donne. Mentre il fondatore di Tavini, Oscar Temaru, ha salutato la vittoria con parole che hanno acceso la fantasia dei secessionisti: «Il popolo Ma’ohi è oggi consapevole del suo diritto alla sovranità. È consapevole di avere il diritto di proprietà su tutte le risorse del paese. Sono passati anni da quando è stato imbrogliato, ma quel tempo è finito».
Test nucleari e referendum
Il cerino, per così dire, è ora nelle mani di Macron. Del dialogo che vorrà o saprà costruire con la nuova maggioranza dell’Assemblea polinesiana. Certamente dovrà fare concessioni, magari trovando il coraggio di affrontare concretamente quella pagina scura del passato che riguarda gli esperimenti atomici: 193 test nucleari dal 1966 al 1996 negli atolli di Moruroa e Fangataufa, inclusi 41 test atmosferici fino al 1974 che hanno esposto la popolazione locale ad altissimi livelli di radiazioni (qui la testimonianza di un’attivista antinucleare). Soprattutto dopo la diffusione di un rapporto, redatto nel 2021 dal team di giornalismo investigativo Disclose, dal collettivo di ricerca sulla giustizia ambientale Interprt e dal Program on Science & Global Security dell'Università di Princeton, su migliaia di documenti nel frattempo declassificati dal ministero della Difesa francese, denominati “Mururoa files”, dai quali si comprende quanto la Francia abbia sottovalutato l’impatto dei test nucleari. «Leucemia, linfoma, cancro della tiroide, polmone, seno, stomaco... In Polinesia, l’esperienza dei test nucleari francesi è scritta nella carne e nel sangue degli abitanti», si legge nel rapporto. «Secondo i nostri calcoli circa 110.000 persone sono state infettate, quasi l’intera popolazione polinesiana all’epoca. Sveliamo anche come le autorità francesi abbiano nascosto il vero impatto dei test nucleari sulla salute dei polinesiani per più di cinquant’anni». Geoffrey Livolsi, caporedattore di Disclose, dichiarò al Guardian: «Lo stato (francese) ha cercato in tutti i modi di seppellire l’eredità tossica di questi test. Questo è il primo tentativo scientifico veramente indipendente di misurare l’entità del danno e di riconoscere le migliaia di vittime dell’esperimento nucleare francese nel Pacifico». Dunque la palla passa ora al presidente francese, che nel luglio 2021, durante la sua ultima visita a Tahiti e all’arcipelago delle Tuamotu, aveva riconosciuto che «la nazione ha un debito con la Polinesia» per aver effettuato i test nucleari, pur ribadendo che «le scelte fatte all'epoca dal generale de Gaulle per dotare la Francia di energia nucleare e di deterrenza siano state scelte forti, utili alla nazione e che ci servono ancora oggi». Macron dovrà trovare il modo di arginare il risentimento dei polinesiani, tenendo bene e a mente due facce della stessa medaglia. La prima: i polinesiani non si considerano francesi. La seconda: non tutti i polinesiani sono separatisti. Vale a dire che un eventuale referendum non avrebbe un esito scontato. Consultazione che, comunque, sarebbe pericolosissima per la Francia: perché ne va della sicurezza nazionale. L’impressione è che ci vorrà tempo prima che qualcuno, all’Eliseo, decida di correre un rischio del genere.