SOCIETÀ

Ponte Morandi: opera geniale massacrata dall'incuria

“Morandi era un progettista geniale, anche se alcuni oggi ne parlano male; lui stesso però nelle sue pubblicazioni scriveva che le sue opere dovevano essere seguite e soggette a costante manutenzione, non abbandonate all’incuria!”. Da quel 14 agosto Carmelo Maiorana, ingegnere con decenni di esperienza in Italia e all’estero, nonché docente di scienza delle costruzioni all’università di Padova, non smette di pensare al crollo del viadotto di Genova. “All’inizio mi rifiutavo di credere che potesse essere dovuto al cedimento per mancanza di manutenzione di uno strallo (ipotesi al momento particolarmente accreditata, ndr), da un punto di vista teorico e direi quasi etico – continua il professore –. In un struttura complessa come il Ponte Morandi, dove la protezione degli stralli era affidata appunto al calcestruzzo, soluzione oggi non più adottata, e dove soprattutto gli stralli erano in numero minimo, era chiaro che se solo uno avesse ceduto sarebbe venuto giù tutto”. Oggi comunque, al di là delle cause e delle responsabilità da accertare, ci si interroga anche  sulle infrastrutture in Italia, molte delle quali costruite tra gli anni ’50 e ’60.

Molti si domandano: qual è lo stato della sicurezza sui nostri ponti e le nostre strade?

Per certi versi la questione è analoga a quella dei terremoti: finché non ci sono tante vittime c'è disinteresse. Anche le strutture in calcestruzzo armato sono soggette all'usura del tempo: non ci si accorge che i ponti devono essere sistemati e seguiti, esattamente come gli edifici. E se non si fa un’adeguata manutenzione è evidente che prima o poi se ne pagano conseguenze. In Italia ci sono tante strutture con lunghezze e luci diverse che hanno la loro età e che sono costruite in calcestruzzo, e potrebbero essere quindi state sottoposte per lungo tempo a corrosione e a fatica.

In un struttura del genere era chiaro che se avesse ceduto anche solo uno strallo sarebbe venuto giù tutto

Fatica? Ci spiega di cosa si tratta?

In senso tecnico si parla di fatica quando una struttura è sottoposta a una sollecitazione che si dice ciclica, cioè che va da un massimo a un minimo, o addirittura a un valore negativo. Pensi al fil di ferro: se lo pieghiamo alternativamente verso l'alto e verso il basso dopo un certo numero di cicli si spezza. Questa è la rottura per fatica: se si sollecita una struttura in un certo modo la resistenza, in questo caso a flessione, viene via via a decadere finché si azzera. Chiaramente nelle costruzioni si parla di milioni di cicli: si potrebbe pensare a un numero elevatissimo ma non è vero, perché in realtà con l’aumentare del traffico si riescono ad accumulare molto facilmente. La resistenza inoltre si abbassa ancora di più se alla fatica si accoppia la corrosione: la causa chimica, sovrapposta a quella fisica, accorcia ancora di più la vita del manufatto. Infine ad aggravare il fenomeno ci sono le vibrazioni.

Ma quando queste strutture in calcestruzzo sono state costruite avevano già una “data di scadenza”?

Quando si è cominciato a costruirle si diceva che la durata di vita di queste strutture era di 50-60 anni, e fino a 100 con una corretta manutenzione. Ad esempio proteggendo le superfici per evitare la carbonatazione del calcestruzzo, l’attacco dei cloruri – in particolare i sali marini – e quello dei solfati. L'importante in questi casi è che l'agente chimico non penetri e arrivi all'armatura: in questo modo la durata della struttura si allunga, purché ci sia qualcuno che negli anni la segua e la sottoponga a cure continue.

Cosa si può fare oggi per la sicurezza?

Ci vorrebbe ad esempio un monitoraggio simile a quello che si fa dopo un terremoto: non solo tramite le apparecchiature ma anche con squadre di esperti che verifichino personalmente lo stato dei ponti e anche degli edifici, redigendo una scheda tecnica e una proposta di intervento, che deve essere anche ragionevole nei tempi e nei mezzi. Perché tutto questo chiaramente si tira dietro costi che sono impressionanti. Questi controlli possono essere fatti dagli enti locali in collaborazione con l’università, anche tramite l’istituzione di borse di studio o assegni di ricerca, e  con studi privati. Un lavoro che comunque deve essere affidato a gente competente: ci vogliono occhi in grado di vedere i fenomeni, come ad esempio il distacco e il degrado dei materiali.

Queste infrastrutture hanno un ciclo di 50-60 anni, fino a 100 con una corretta manutenzione

E le nuove strutture sono più sicure?

Certamente. È migliorata la qualità dei materiali, sia a livello di acciaio che di calcestruzzo. C’è ad esempio l’Hpc (High Performance Concrete), che ha una resistenza a compressione che va dal doppio fino al triplo o anche più rispetto ai calcestruzzi normali. Per capirci se a casa sua una colonna ha una resistenza a compressione di 30 megapascal, circa 300 kg al centimetro quadrato, gli Hpc vanno dai 70 fino addirittura ai 120 megapascal. Questi compositi sono inoltre meno porosi e quindi meno aggredibili dagli agenti atmosferici, quindi anche più durevoli. Lo stesso si può dire per i nuovi tipi di acciai, che oggi offrono una maggiore resistenza anche in chiave antisismica. Poi ci sono le fibre, come ad esempio quella di carbonio, che conferiscono al complesso della struttura una resistenza ancora maggiore.

Eppure c’è addirittura chi rimpiange i sistemi di costruzione dei romani…

Loro però lavoravano sulla compressione e non sulla flessione, e con quel sistema la luce massima è quella di un arco: appena qualche metro. Non si può certo utilizzare per le strade moderne, i grandi ponti e le coperture enormi come quelle necessarie per gli hangar. Oggi abbiamo esigenze e tecnologie completamente diverse: è un paragone insomma che non regge proprio!

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