Foto: Sofia Belardinelli
Gli anni Venti sono il Decennio per il Ripristino degli Ecosistemi, indetto e patrocinato dall’ONU. Di tutelare e ripristinare gli ecosistemi, in effetti, vi è un disperato bisogno: crisi ecologica, cambiamento climatico, attività umane hanno gravemente degradato molti dei biomi del pianeta, i quali perdono le proprie funzionalità ecosistemiche e non sono più in grado di fornire a noi umani quei fondamentali servizi dai quali le nostre società dipendono in modo essenziale, seppur spesso inconsapevolmente.
Concentrando l’attenzione soltanto sugli ecosistemi terrestri, ci si accorge tuttavia che, quando si parla di ripristino, molti di essi sono spesso trascurati. Grande considerazione è riservata, ad esempio, agli ecosistemi forestali, tanto che una delle più note e acclamate nature-based solutions è proprio l’afforestazione, cioè la creazione di coperture boschive e forestali su aree più o meno estese, precedentemente degradate.
Tra gli ecosistemi più negletti in ambito conservazionistico vi sono, invece, gli ambienti prativi. Tale disattenzione non è certo dovuta a, per così dire, scarsa rappresentanza: escluse Groenlandia e Antartide, infatti, prati e praterie occupano circa il 40% della superficie terrestre.
La rivista Science ha recentemente dedicato a questi ecosistemi un ampio approfondimento, mettendone in luce l’importanza non solo dal punto di vista evoluzionistico (la biodiversità che compone prati e praterie è ricchissima, e si compone di sinergie complesse e, in alcuni casi, antichissime), ma anche rispetto alla conservazione della biodiversità (tema particolarmente attuale sull’orlo della Sesta estinzione di massa), nonché per la mitigazione e l’adattamento a un clima in rapido mutamento su scala globale.
Grasses tend to be undervalued but have influenced the trajectory of human history through their domestication as food staples, as well as natural ecosystems worldwide.
— Science Magazine (@ScienceMagazine) August 4, 2022
A new special issue of Science explores the unrecognized value of grass: https://t.co/rfOlxt0wXj pic.twitter.com/thxdbtf9Oz
Erbe antiche
I prati popolano il pianeta da tempi molto lontani. Le piante erbacee compaiono circa 100 milioni di anni fa, ma la loro evoluzione è relativamente lenta: diventano, infatti, ecologicamente dominanti solo a partire da circa 70 milioni di anni fa, verso la fine del Cenozoico. Da quel momento, tuttavia, hanno sempre mantenuto un ruolo centrale per gli equilibri ecosistemici della biosfera. Un primo aspetto interessante della conquista ‘erbacea’ della Terra è proprio la complessa traiettoria evolutiva seguita da questi organismi: come affermano le ricercatrici Caroline Strömberg e Carla Staver in uno degli articoli di Science dedicati al tema, «da quando le piante erbacee iniziarono a diffondersi sul pianeta, la loro conquista fu asincrona, e seguì traiettorie diverse nei vari continenti», suggerendo che i fattori coinvolti nel loro successo adattativo siano stati numerosi e variabili in base al contesto.
Oggi, i biomi prativi sono largamente diffusi in tutti i continenti (ad eccezione della regione antartica) e presentano variazioni e adattamenti in risposta alle condizioni climatiche più diverse. Ripercorrere la storia evolutiva di prati e praterie consente di riconoscere l’antichità di questi complessi ecosistemi, nonché la loro importanza nella regolazione di fattori di disturbo come i regimi di incendi e la densità di pascolo. Inoltre, come accennavamo, gli ecosistemi erbosi sono un elemento potenzialmente centrale nella mitigazione del cambiamento climatico innescato dalle attività umane: si calcola, infatti, che almeno il 17% della biomassa globale di carbonio (ma, affermano le studiose, è certamente una stima conservativa) sia immagazzinato proprio nelle piante erbacee, soprattutto sottoterra.
Eppure proprio questi ecosistemi, così diffusi e rilevanti, sono oggi tra i più minacciati: a mettere in pericolo la loro conservazione è in primo luogo la crisi ecologica in atto, che altera le condizioni necessarie alla loro sopravvivenza – dai tassi di umidità e di precipitazioni alla quantità di CO2 in atmosfera – e, in modo non secondario, il cambiamento dell’uso dei suoli dovuto alle attività umane. Gli ecosistemi erbosi, infatti, sono quasi sempre la prima scelta quando si tratta di destinare nuovi terreni all’uso agricolo o alla creazione di pascoli per l’allevamento; inoltre, ironicamente, in molti casi i progetti di afforestazione vengono realizzati proprio in aree prative, distruggendo così – spesso per ignoranza – ecosistemi antichi, che impiegherebbero, qualora si volessero intraprendere interventi di ripristino, centinaia di anni per tornare all’originaria complessità di componenti e funzionalità.
Immagazzinare carbonio sottoterra
Mettere in pratica attività di tutela e ripristino dei biomi erbosi porta con sé diversi benefici, e può essere considerata una nature-based solution a tutti gli effetti. Questi ecosistemi, infatti, trattengono circa il 34% di tutto il carbonio terrestre, il 90% del quale è immagazzinato al di sotto della superficie come biomassa radicale e carbonio organico del suolo. Un simile servizio ecosistemico è garantito quando l’ecosistema locale gode di buona salute: tra i fattori che migliorano la capacità di stoccaggio del carbonio nei prati vi sono la biodiversità vegetale, la biodiversità dei microrganismi (soprattutto funghi e batteri) che vivono nel suolo, e l’assenza di elementi di disturbo.
Grasslands store roughly one-third of global terrestrial carbon stocks.
— Science Magazine (@ScienceMagazine) August 9, 2022
According to a new #ScienceReview, improved grassland management can provide low-cost and/or high carbon gain options for natural climate mitigation solutions. https://t.co/KHytCvk5sq pic.twitter.com/sPwDiWPRYh
Il clima influisce su questi elementi, modificando ad esempio l’attività metabolica dei microrganismi e la diversità delle popolazioni presenti. Come affermano Yongfei Bai e Maria Francesca Cotrufo, autori di un’altra ricerca contenuta nello Special Issue di Science, «la capacità di sequestrare carbonio nella maggior parte dei prati è estremamente sensibile ai cambiamenti climatici, che possono provocare forti e variegati impatti sull’accumulo e sulla stabilità del carbonio organico nel suolo agendo su meccanismi che coinvolgono le piante e i microbi». Le anomalie nei pattern di precipitazioni e i prolungati periodi di siccità che le proiezioni climatiche segnalano per i prossimi anni, nonché l’alterazione dei regimi degli incendi, che saranno sempre più frequenti per via dei cambiamenti climatici, avranno ripercussioni dirette sulla diversità vegetale e microbica, modificando la capacità di immagazzinamento del carbonio organico dei suoli da parte dei biomi erbosi nel medio e nel lungo periodo.
Anche l’alterazione della naturale pressione di pascolo – ancora una volta dovuta alle perturbazioni di origine antropica – ha effetti diretti sulla capacità di stoccaggio del carbonio organico da parte dei prati. La destinazione d’uso più diffusa per i prati è il pascolo di animali d’allevamento, ma è noto che «il pascolamento continuo riduce la copertura vegetale, la diversità e la produttività, e di conseguenza anche gli apporti radicali e la formazione di carbonio organico nei suoli mediata dalle piante e dai microbi, intensificando al tempo stesso le perdite dovute al ricambio microbico e all’erosione causata da una maggiore compattazione e da una riduzione della copertura del suolo». È stato calcolato che, in media, le aree destinate a pascolo presentano una riduzione nella capacità di stoccaggio del carbonio di circa il 15%.
Come per gli ecosistemi forestali, il ripristino è un percorso lungo e complesso, in cui la possibilità di fallimento è concreta e il completo recupero delle condizioni originarie è incerto. Tuttavia, i benefici conseguibili meritano lo sforzo. Riconvertire terreni agricoli e pascoli a praterie è un primo passo essenziale, che contribuisce a ridurre gli elementi di disturbo e a migliorare l’apporto radicale di carbonio al suolo. È importante anche che, negli ambienti degradati, venga ristabilita la biodiversità vegetale, che incrementa la produzione di piante e la riproduzione microbica. Vi sono anche attività umane che possono avere effetti benefici, come una gestione controllata dell’intensità del pascolo e la coltivazione di legumi, i quali contribuiscono alla fissazione dell’azoto nei suoli e migliorano così la capacità di stoccaggio di carbonio organico.
Su scala globale, tali interventi potrebbero contribuire a immagazzinare nel terreno centinaia di milioni di tonnellate di carbonio ogni anno, contribuendo così alla mitigazione del cambiamento climatico. Come enfatizza un gruppo internazionale di studiosi in un terzo articolo inserito nella raccolta, le esigenze sono chiare; si tratta di tradurle in pratica: «Chiediamo che le iniziative di conservazione impediscano la distruzione delle praterie secolari in favore della piantumazione di alberi o dell’agricoltura, che tutelino le nostre antiche praterie ricche in biodiversità con regimi di disturbo appropriati, e che valorizzino il recupero a lungo termine delle praterie nell’ambito degli sforzi per ripristinare la biodiversità della Terra».