SCIENZA E RICERCA
Il preoccupante destino delle piattaforme di ghiaccio antartiche
Nansen Ice Shelf, Antartide. Foto su gentile concessione del dottor Valerio Olivetti.
Uno studio pubblicato di recente su Nature e condotto da un gruppo di ricercatori della Columbia University guidati da Ching-Yao Lai ha rivelato, attraverso un efficace sistema di mappature, le piattaforme di ghiaccio antartiche maggiormente a rischio frattura. L'indagine mostra, grazie all'impiego di tecniche quali ad esempio l'utilizzo di sofisticati calcolatori e dell’intelligenza artificiale applicata alle immagini satellitari, le zone più vulnerabili dove nei prossimi anni si potrebbero creare delle grandi fratture. Queste, inizialmente dei crepacci, diventano poi rotture più profonde, tali da provocare il distaccamento di blocchi di ghiaccio di dimensioni più che notevoli. Ne abbiamo parlato con Valerio Olivetti, ricercatore del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova.
Che le piattaforme di ghiaccio si disgreghino rappresenta un fenomeno del tutto naturale: è il sistema che esse impiegano per perdere volume. "Quando queste, con l'accumularsi di ghiaccio, arrivano a occupare un'area di mare molto vasta" spiega Olivetti "a un certo punto si rompono perdendo così volume. Il fenomeno in sé è naturale, quello che è innaturale è la frequenza di questi distacchi e la velocità con cui avvengono. Il rischio di simili fenomeni è quello di accelerare lo scioglimento della calotta antartica".
A differenza dell’Artide, l’Antartide è un continente molto vasto, con una superficie di poco inferiore a quelle di Australia ed Europa messe insieme ed è coperto per circa il 90% dai ghiacci della calotta antartica. Si tratta quindi di ghiaccio che poggia su terra emersa. "Tale ghiaccio per sua natura fluisce dalle zone più rilevate fino al mare, come se fosse un grande e lento fiume. Quando raggiunge l'acqua marina, il ghiaccio continentale, a seconda della morfologia della costa e del fondo marino, tende a unirsi e formare delle piattaforme". Dunque non si tratta di acqua di mare congelata, bensì di ghiaccio proveniente da un'area continentale a monte.Le piattaforme possiedono alcune caratteristiche: uno spessore notevole e una superficie che può estendersi anche per diversi chilometri. "Sono strutture molto stabili da un punto di vista fisico e perciò si spostano poco; la velocità di movimento verso il mare è abbastanza lenta e le parti più soggette a frantumarsi sono quelle frontali". Infatti, è nella parte frontale che la piattaforma diventa più sottile ed è proprio in queste zone che l’influsso delle maree e di altri fenomeni può indurre grandi fratture.
Tuttavia, l'ipotesi poco rassicurante formulata nello studio identifica la possibilità che si creino profonde rotture anche in zone molto più lontane dalle pareti frontali, ovvero non a livello del mare dove la piattaforma termina. Di conseguenza, queste potrebbero provocare il distaccamento di superfici e volumi veramente molto significativi che, una volta staccati dalla massa principale unita al continente, vengono portati e spostati dalle correnti e dai venti, sciogliendosi molto più rapidamente. "Penso che le piattaforme più vulnerabili siano quelle di dimensione ridotta e con morfologie della costa e del fondo marino più adatte a innescare fratture anche in zone interne vicine al continente. Tuttavia, il fenomeno può verificarsi anche in aree più stabili, come la piattaforma di Ross. Si tratta della più grande massa glaciale galleggiante dell'Antartide ed è situata in una zona vicino alla base italiana "Mario Zucchelli". Nonostante sia raramente soggetta a episodi di distacchi di ghiaccio da zone distanti dal fronte, qualche anno fa si è però staccato proprio in quest'area un iceberg enorme, grande quanto il Piemonte".
Negli ultimi 20 anni queste strutture sono state studiate in maniera più approfondita, dato che rappresentano uno degli elementi più importanti nel bilancio del contributo che il ghiaccio antartico può dare all'innalzamento dei mari a livello globale. Poiché sono a contatto diretto con l’acqua marina, si è sempre pensato che anche una minima variazione della temperatura dell'acqua potesse innescare dei processi di scioglimento molto veloci e quindi si riteneva che questo fosse il fattore determinante nella rapidità di scioglimento dei ghiacci. Invece, la novità introdotta dallo studio di Lai e degli altri ricercatori sposta l'attenzione sul fatto che l'elemento principale da considerare sarebbe una variazione della temperatura atmosferica del pianeta che potrebbe influire direttamente su un'accelerazione della perdita di massa delle piattaforme e, di conseguenza, anche della calotta stessa.
Risiederebbe proprio in questa scoperta il dato significativo della ricerca condotta, visto che l'Antartide rappresenta un ecosistema a sé e quindi dovrebbe risentire meno dei cambiamenti climatici che si stanno verificando su larga scala. "Questo continente" conclude Olivetti "ha un'inerzia maggiore rispetto alle zone di clima temperato nel senso che, almeno in questi anni, sta risentendo meno delle variazioni di temperatura del pianeta rispetto alle nostre latitudini perché è un sistema molto isolato, grande e forse anche per questo è più difficile da monitorare. Dunque, quello che lo studio ipotizza e prospetta ci mette una volta di più in allarme e ci fornisce un elemento ulteriore a conferma del fatto che dobbiamo cambiare la nostra politica di vita su questo pianeta".