SOCIETÀ

Il presidente Draghi e le tasse da cambiare

Presentando il nuovo Governo alle due Camere per il voto di fiducia il neo presidente del Consiglio Mario Draghi verso le conclusioni, prima delle parti su giustizia e politiche internazionali, ha dedicato attenzione alle politiche fiscali, inserite fra le riforme strutturali urgenti da promuovere. Nell’ultima parte del testo del Programma il presidente si è concentrato sulla dimensione “strategica” della futura azione del suo governo e, dopo aver indicato gli obiettivi, ha indicato le riforme che devono accompagnarli: “Negli anni recenti i nostri tentativi di riformare il paese non sono stati del tutto assenti, ma i loro effetti concreti sono stati limitati. Il problema sta forse nel modo in cui spesso abbiamo disegnato le riforme: con interventi parziali dettati dall’urgenza del momento, senza una visione a tutto campo che richiede tempo e competenza.” Si tratta dell’unico avverbio “forse” riscontrabile nell’intero discorso, è significativo anche questo. Draghi si è concentrato sulle due riforme prioritarie: fisco e pubblica amministrazione. Ben si sa che il sistema tributario è un articolato impasto di tributi: imposte generali, indivisibili e senza corrispettivo (dipendono soprattutto da quel che si ha), dirette e indirette; graduate tasse con particolare corrispettivo (dipendono soprattutto da quel che si chiede); specifici coattivi contributi per servizi pubblici; sempre in connessione con i lavori svolti (fissa e automatica se dipendenti), con le proprietà godute, con l’effettiva rilevazione pubblica della solidale capacità contributiva e con l’efficienza o inefficienza amministrativa nazionale e locale.

Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta.

Rileggiamo Draghi con precisione: “Nel caso del fisco, per fare un esempio, non bisogna dimenticare che il sistema tributario è un meccanismo complesso, le cui parti si legano una all’altra. Non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta. Un intervento complessivo rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli. Inoltre, le esperienze di altri paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta. Ad esempio la Danimarca, nel 2008, nominò una Commissione di esperti in materia fiscale. La Commissione incontrò i partiti politici e le parti sociali e solo dopo presentò la sua relazione al Parlamento. Il progetto prevedeva un taglio della pressione fiscale pari a 2 punti di Pil. L’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta, mentre la soglia di esenzione veniva alzata. Un metodo simile fu seguito in Italia all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso quando il governo affidò ad una commissione di esperti, fra i quali Bruno Visentini e Cesare Cosciani, il compito di ridisegnare il nostro sistema tributario, che non era stato più modificato dai tempi della riforma Vanoni del 1951. Si deve a quella commissione l’introduzione dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e del sostituto d’imposta per i redditi da lavoro dipendente.”

Nella citata premessa metodologica si annunciano, dunque, la necessità sia di tempi lunghi che di un progetto organico, oltre l’orizzonte dalla legislatura sembrerebbe, avviando forse da subito una commissione di esperti. La comparazione con un solo altro paese europeo, la Danimarca, è certo rilevante, tanto più che anche i sistemi fiscali nazionali hanno ormai una imprescindibile ampia cornice europea, in qualche caso molto dettagliata e pervasiva. Ancor più significativa potrebbe rivelarsi la comparazione storica con l’evoluzione nel nostro stesso paese. È vero: dopo la normativa del 1951 il passaggio riformatore più profondo e organico va riferito agli effetti normativi nel 1971 delle commissioni insediate negli anni sessanta in conseguenza della parziale attuazione del dettato costituzionale, che delinearono un nuovo sistema fiscale coerente con le interazioni tra redditi, patrimoni e scambi. Va ricordato peraltro che quelle commissioni lavorarono per ben oltre cinque anni, ci vorrebbe per intero anche la prossima legislatura. Allora non fu certo una riflessione istituzionale tranquilla e condivisa, lo sarebbe probabilmente ancor meno nel 2021.

La riforma del sistema tributario degli anni '70

La Commissione di riforma tributaria fu istituita nel 1962 dal ministro delle Finanze, aveva come vicepresidente formale e presidente effettivo l’economista Cesare Cosciani (1908-1985), docente di scienza delle finanze e diritto finanziario, evidenziò subito i limiti e i ritardi della legislazione precedente. Così, sempre Cosciani ebbe affidato nel settembre 1964 il compito di coordinare un nuovo Comitato per la predisposizione di una riforma organica della fiscalità, incarico che poco dopo, causa disaccordo sui tempi e su altri sostanziali aspetti, declinò e che fu assunto dal giugno 1966 dall’avvocato, imprenditore e docente di diritto commerciale Bruno Visentini (1914-1995). Occorre tener presente che sia Cosciani che Visentini erano presenti già nell’analoga commissione Vanoni del 1948 e le loro posizioni erano da sempre divergenti, non coincidenti. Prevalse l’impostazione di Visentini, i lavori della Commissione confluirono quindi in principi e indirizzi della legge delega 875/1971, che sostituiva il caos precedente con un più ordinato e circoscritto pacchetto di tributi. Visentini entrò poi in parlamento e al governo, proprio alle Finanze, diretto esecutore di molti dei provvedimenti suggeriti dalla commissione, inoltre parlamentare italiano ed europeo o ministro sempre fra il 1972 e il 1994.

Nel 1972, dopo l’esame parlamentare della delega, furono pubblicati diciannove decreti, tutti il 26 ottobre, che introdussero l’imposta sul valore aggiunto e l’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili, modificarono le imposte di registro, successioni, ipotecarie e catastali, bollo, contenzioso tributario, l’imposta comunale sulla pubblicità e diritti sulle pubbliche affissioni, l’imposta sugli spettacoli e la tassa sulle concessioni governative. Tali provvedimenti entrarono in vigore tra inizio 1973 e inizio 1974, insieme alle disposizioni sulle imposte dirette, con la sostituzione delle vecchie imposte reali (ricchezza mobile, fabbricati, terreni, redditi agrari) e personali (complementare sul reddito, imposta di famiglia), con le nuove imposte sul reddito delle persone fisiche (una IRPEF puntigliosamente progressiva) e delle persone giuridiche (IRPEG) nonché con l’imposta locale sui redditi (ILOR). Appositi atti e decreti delegati raccolsero le norme comuni in materia di accertamento delle imposte sul reddito, le linee fondamentali delle agevolazioni tributarie, la riscossione delle imposte dirette e i servizi relativi, le disposizioni sulla revisione degli estimi e del classamento del catasto terreni e fabbricati. Fu creata, infine, l’Anagrafe tributaria. Un Testo Unico arriverà solo nel 1986. Purtroppo, fin da subito altri provvedimenti cominciarono a smontare il sistema tributario appena riformato, introducendo nuove esenzioni e le più diverse erosioni delle basi imponibili. A esempio, già nel 1974 (in occasione dell’istituzione della Consob), pare con grande disapprovazione dello stesso Visentini, venne introdotta la cedolare secca sugli utili di impresa, nell’illusione di far rientrare in Italia i capitali fuggiti all’estero.

Una riforma fiscale segna in ogni Paese un passaggio decisivo. Indica priorità, dà certezze, offre opportunità, è l’architrave della politica di bilancio.

Dalla metà degli anni settanta in avanti un’inarrestabile torrentizia legislazione ha reso omaggio a esigenze momentanee di politica economica o, più spesso, a micro interessi politici ed elettorali, anche e soprattutto nel rapporto (in teoria generale e astratto) fra singolo cittadino e contributo tributario. Ne ha fatto le spese, fra l’altro, una effettiva progressività fiscale (prevista dalla Costituzione). Emersero pure, dal contesto applicativo ed europeo, specifici indispensabili aggiornamenti e correzioni, sicché certamente ora sarebbe davvero utile una nuova e organica riforma tributaria, considerato poi lo stesso avvenuto ribaltamento dell’originaria concezione (sia di Cosciani che di Visentini), che attribuiva in via esclusiva la responsabilità impositiva allo Stato centrale. C’è una vastissima letteratura scientifica e politica a riguardo, nessuna riforma potrà essere neutra sul piano dei valori e degli interessi, occorre vedere chi contribuisce di più o di meno, perché quanto come.

Il paragrafo sul fisco del discorso programmatico di Draghi si conclude necessariamente con alcuni indirizzi di merito:Una riforma fiscale segna in ogni Paese un passaggio decisivo. Indica priorità, dà certezze, offre opportunità, è l’architrave della politica di bilancio. In questa prospettiva va studiata una revisione profonda dell’Irpef con il duplice obiettivo di semplificare e razionalizzare la struttura del prelievo, riducendo gradualmente il carico fiscale e preservando la progressività. Funzionale al perseguimento di questi ambiziosi obiettivi sarà anche un rinnovato e rafforzato impegno nell’azione di contrasto all’evasione fiscale.” La Commissione da istituire dovrebbe pertanto avere almeno tre paletti: semplificazione razionale, riduzione graduale del carico, mantenimento della progressività. Che siano discriminanti fra di loro facilmente e consensualmente componibili apparirebbe implicito; eppure, probabilmente, è esplicito e divisivo esattamente il contrario.

Va detto subito che l’emergenza sanitaria impone urgenti misure, straordinarie e contingenti, anche di carattere tributario, per contenerne gli effetti sociali e occupazionali, su quelle giustamente ci si sta concentrando. Sembrano in via di definizione la discutibile completa cancellazione delle cartelle esattoriali 2000-2015 fino a cinquemila euro e una definizione “agevolata” per i debiti fiscali 2017-2019. Saranno spostate in avanti anche nel 2021, come nel 2020, alcune scadenze fiscali. E potrà essere in qualche modo affrontata la connessione con la transizione ecologica e la necessità di disincentivare combustibili fossili e merci inquinanti e la stessa questione delle cosiddette tasse universitarie.

Per approfondire potete leggere qui:

Insomma, anche il comparto tributario non può che far parte dell’insieme di misure per contributi e sostegni, ristori e indennizzi rispetto agli impoverimenti diffusi provocati dal blocco di molte attività economiche. C’è chi chiede anche sanatorie e condoni e sarà perciò difficile evitare conflitti di interessi e garantire equità sociale. Del resto, la credibilità di misure e riforme si misura innanzitutto dalla capacità di ridurre evasione ed elusione, due enormi mali cronici della situazione italiana, fattori ulteriori di diseguaglianze. Nel nostro paese, di fatto, nell’ultimo trentennio il meccanismo di redistribuzione della ricchezza (espresso dagli articoli 3 e 53 della Costituzione) è stato inceppato: la progressività fiscale, circoscritta all’Irpef (con scaglioni via via ridotti), ulteriormente sminuita dal contorto sistema di esenzioni e detrazioni, è stata pressoché azzerata. I ricchi diventano di meno e sempre più ricchi, pagando sempre meno tasse; i poveri di più e sempre più poveri, pagando spesso troppe tasse. È un problema diffuso, come abbiamo già visto anche su queste pagine.

Elogio delle tasse

Uno studioso torinese ha recentemente ricostruito i rapporti del cittadino con le tasse sul piano costituzionale e l’evoluzione tributaria dell’Italia repubblicana: Francesco Pallante, Elogio delle tasse, Edizioni GruppoAbele Torino 2021. L’autore sottolinea innanzitutto come secoli fa sia stato inventato un popolare aforisma che riduce a due le sciagure supreme e certe dell’umana esistenza, la morte (alla fine) e le tasse (durante). Esiste in varie versioni e in varie lingue, ancora oggi appare come una convinzione introiettata, tanto da singoli individui quanto nel vivere sociale: sarebbero i rischi da evitare, quanto più possibile. La morte è un dato biologico, ognuno ha i propri modi sociali e sanitari per confrontarcisi, almeno finché non è provocata direttamente da altri umani. Le tasse sono una presenza istituzionale, per farvi fronte ci sono uno strumento formale, il sistema fiscale, e un interlocutore obbligato, il potere pubblico. Chi considera le tasse un’unica intera iattura tende inevitabilmente ad avversare le forme e i sistemi di quel potere, le leggi e i governanti, in pratica e in teoria. Nella realtà, al di là delle ironie degli umoristi, è sbagliatissimo assimilare le tasse alla morte.

Altro che legame con la morte: le tasse si legano alla vita! E, negli ordinamenti democratici, alla vita libera!

Le tasse (o, meglio, i tributi) sono un’indispensabile libera regola se viviamo associati, altrimenti saremmo solo in preda all’arbitrio di chi può, nessuno sarebbe certo delle proprie libertà e dei propri diritti in mezzo agli altri individui della nostra stessa specie e della comunità. Le tasse rappresentano lo strumento essenziale attraverso cui l’esistenza umana, altrimenti rimessa alle dinamiche della forza bruta, può essere condotta secondo le logiche, pur plurali e conflittuali, della ragione sapiente. I sistemi tributario e fiscale consentono la possibilità stessa della pace civile. Solo i tributi mettono lo Stato nelle condizioni di assolvere proprio alle sue due funzioni essenziali, entrambe assai costose: la prima è la pace, interna e internazionale, istituzionale e finanziaria; la seconda è l’attuazione dei diritti e delle libertà costituzionali, civili politici sociali. Altro che legame con la morte: le tasse si legano alla vita! E, negli ordinamenti democratici, alla vita libera! Meglio non scordarlo mai e documentarsi a riguardo, sia noi cittadini che loro governanti. Aiuta a pagarle e a farle pagare con più consapevolezza e minor fastidio, il dovuto.

In un volume agile e chiaro il costituzionalista Francesco Pallante (Torino, 1972) ha ricostruito il significato delle tasse, spiegando efficacemente perché è indispensabile che ne esistano e come dovrebbero essere organizzate per funzionare meglio. Nei capitoli della prima parte elenca le realizzazioni pratiche e le originarie elaborazioni teoriche che hanno favorito modi di vedere opposti sulle tasse (molto evidenti se si analizzano i conflitti sociali e politici negli Stati Uniti), affidandosi a una sintesi positiva derivante dal coniugato disposto delle riflessioni di Hobbes e Weber e dall’avversione per l’interessata ferocia dei paladini della lotta per la presunta libertà dalle tasse (totale in Rothbard, massima in Locke e Nozick). Seguono i capitoli sulle ragioni collettive della raccolta di risorse attraverso il sistema tributario, in specifico sulla teoria economica dell’utilità marginale della ricchezza e sull’equo sano principio giuridico della progressività fiscale.

L’autore passa poi all’Italia, descrive il dibattito all’Assemblea Costituente (contrassegnato più dalla Dc che dal Pci, comunque dalla loro alleanza) e il conseguente significato “einaudiano” della nostra Costituzione, infine ricostruendo le fasi storiche delle normative nazionali sui tributi da settant’anni a questa parte. Il volume non difende ogni singola tassa qualunque ne sia l’entità e la platea, ne elogia piuttosto il senso indispensabile e il valore sostanziale per tutti (di qui il titolo) e si conclude con le misure che sarebbero necessarie per ridare vitalità e progressività al progetto costituente (non certo la flat tax, pure incostituzionale), dal punto di vista del diritto e della giurisprudenza, nell’ambito di una teoria dei diritti incentrata sull’effettiva attuazione (con spunti soprattutto da Holmes-Sunstein, da Rawls e da Piketty). Alla fine di ognuno dei tredici capitoli vi sono lunghe dettagliate discorsive note bibliografiche.

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