Primo Levi nel 1979 durante la cerimonia del Premio Strega
«Incominciammo a studiare fisica insieme, e Sandro fu stupito quando cercai di spiegargli alcune delle idee che a quel tempo confusamente coltivavo. Che la nobiltà dell’Uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era consistita nel farsi signore della materia, e che io mi ero iscritto a Chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele. Che vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi: e che quindi il Sistema Periodico di Mendeleev, che proprio in quelle settimane imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite in liceo: a pensarci bene, aveva perfino le rime!» [Il sistema periodico, Ferro, p. 40].
Il 31 luglio 1919, cento anni fa, nasceva a Torino Primo Levi, chimico e dunque scrittore. Sì, certo è limitativo definire in questo modo la ricca e complessa personalità che ha descritto come nessun altro la tragedia oscena di Auschwitz. Ma, Primo Levi è stato definito il più grande scrittore di scienza di ogni tempo e di ogni paese. E, poi, per singolare coincidenza, quest’anno cade anche il centocinquantesimo anniversario della proposta di sistema periodico degli elementi da parte di Dmitrij Ivanovič Mendeleev. E allora, se non puoi scrivere un libro, quale scelta migliore di parlare di Primo Levi chimico e, dunque, scrittore e del suo Il sistema periodico pubblicato con Einaudi nel 1975? O meglio, di come Primo Levi parla della chimica nel libro che è stato definito, a sua volta, la più straordinaria opera di letteratura scientifica?
Prima, però, qualche nota di contesto. Stanno per finire gli anni ’50, quando un altro chimico scrittore, l’inglese Charles Percy Snow, getta il sasso nello stagno e, con un libro destinato a fare storia, denuncia un fatto a suo dire molto grave: l’avvenuta separazione tra «le due culture», quella scientifica e quella umanistica. Più che un sasso, la tesi di Snow è un macigno. L’accusa è a senso unico: se molti scienziati naturali, sostiene Snow, sono disponibili a utilizzare quelle che in Italia Leonardo Sinisgalli chiama “le lime del pensiero” e a confrontarsi con le scienze umane, sempre più umanisti rifiutano il confronto. È per questo che le due culture tendono a divergere. Anzi, si sono già separate.
Molti intellettuali in tutta Europa sono colpiti dalla provocazione, ma non tutti si lasciano sommergere dalle onde sollevate dal macigno lanciato da Snow. Alcuni reagiscono. In Italia, tra gli altri, interviene qualche anno dopo un altro chimico e scrittore: Primo Levi. Che scrive:
Sovente ho messo piede sui ponti che uniscono (o dovrebbero unire) la cultura scientifica con quella letteraria scavalcando un crepaccio che mi è sempre sembrato assurdo». E poi aggiunge: questa separazione tra cultura scientifica e cultura umanistica, se c’è, è «una schisi innaturale, non necessaria, nociva, frutto di lontani tabù e della controriforma, quando non risalga addirittura a una interpretazione meschina del divieto biblico di mangiare un certo frutto. Non la conoscevano Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile.
Primo Levi è uno dei più grandi scrittori d’Italia e del mondo. È uno scrittore testimone del suo tempo. Con Se questo è un uomo, che ha iniziato a scrivere nel dicembre 1945 e pubblicato nel 1947, racconta dell’indicibile cui ha assistito: il più grande peccato che l’umanità abbia mai commesso. L’Olocausto. Levi racconta quello che ha vissuto in prima persona, all’interno del campo di Auschwitz dove è stato deportato in quanto ebreo. È uno dei pochi sopravvissuti a quel campo di sterminio. Grazie alla chimica.
La chimica, per la verità, attraversa tutte le quattro fasi della sua vita da giovane e poi da adulto. Prima della guerra, da studente. Durante la guerra è un chimico che lavora nell’industria, quasi da clandestino: è sì un chimico valente, ma è un ebreo. Con la deportazione è un chimico in un luogo particolare: in un lager. Anzi, nel più infame dei lager: Auschwitz. Finita la guerra, scampato alla morte, divenuto scrittore, il chimico ritorna nelle sue opere.
La principale è certo Il sistema periodico che, pubblicato nel 1975, è eletto nell’ottobre 2006 a “più bel libro di scienza mai scritto” dalla Royal Institution di Londra. Mentre lui, Primo Levi, come abbiamo detto viene definito il miglior scrittore di scienza di ogni tempo, battendo l’etologo Konrad Lorenz che, con L’anello di Re Salomone, deve accontentarsi del secondo posto.
Primo Levi rientra, dunque, in quel novero ristretto (ma non ristrettissimo) di scrittori che alimentano, per dirla con Italo Calvino, la «vocazione profonda della letteratura italiana», perché nelle sue opere – proprio come in quelle dello stesso Calvino, oltre che di Dante, di Galileo e di Leopardi – si consuma il menage a trois tra letteratura, filosofia e scienza.
C’è una differenza tra lo scrittore nato a Sanremo e quello nato a Torino. Calvino è uno scrittore “cosmico e lunare” (per usare una definizione che lo scrittore sanremese usa proprio a proposito di Dante, Galileo e Leopardi oltre che di Ariosto), Primo Levi è uno scrittore “chimico e molecolare”, attento più che al tutto armoniosamente ordinato dei Greci (il cosmo appunto), alle sue singole e cangianti parti materiali. D’altra parte è lui stesso a riconoscerlo: «Scrivo proprio perché sono un chimico, si può dire che il mio vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo».
Chimico e, dunque, scrittore, appunto.
Già, ma cosa significa mettere «piede sui ponti che uniscono la cultura scientifica con quella letteraria» da chimico?
Proviamo a indagare.
La Chimica, secondo Primo Levi
«Avevo in un cassetto una pergamena miniata, con su scritto in eleganti caratteri che a Primo Levi, di razza ebraica, veniva conferita la laurea in Chimica con 110 e lode: era dunque un documento ancipite, mezzo gloria e mezzo scherno, mezzo assoluzione e mezzo condanna. Stava in quel cassetto dal luglio 1941, ed era finito novembre; il mondo precipitava alla catastrofe, ed intorno a me non capitava nulla [Il sistema periodico, Nichel].
Cinque righe, cinque righe appena per raccontare il passaggio tra la prima fase della sua vita da chimico (quella dello studente) a quella successiva. Una transizione segnata dalla gloria (il 110 e lode della laurea) e insieme dallo scherno: lui era sì un chimico, valente, ma di razza ebraica. E, dunque, senza un lavoro. Senza prospettive. Siamo nel 1941, Il governo di Mussolini ha varato tre anni prima le leggi razziali, Primo in quanto ebreo è soggetto a inaccettabili discriminazioni. L’Italia è entrata in guerra e il mondo precipita verso la catastrofe. Decisamente non è il momento più adatto per un giovane ebreo che vuole svolgere la professione di chimico.
D’altra parte non ha scelta. Non può fare il ricercatore ed entrare nell’università. Per quanto bravo, lui è un ebreo e per legge – per le famose e tragiche leggi razziali – non ne ha la possibilità.
L’attività da chimico sul campo per Primo Levi era iniziata molti anni prima, da ragazzino. Quando, tutto emozionato, si accinge a entrare per la prima volta in un laboratorio. Un laboratorio chimico, per quanto non ortodosso. Il laboratorio privato del fratello del suo amico, Enrico. «Il fratello di Enrico, misterioso e collerico personaggio di cui Enrico non parlava volentieri, era studente in chimica, e aveva installato un laboratorio in fondo a un cortile, in un curioso vicolo stretto e storto che si diparte da piazza della Crocetta, e spicca nella ossessiva geometria torinese come un organo rudimentale intrappolato nella struttura evoluta di un mammifero. Anche il laboratorio era rudimentale: non nel senso di residuo atavico, bensì in quello di estrema povertà. C’era un bancone piastrellato, poca vetreria, una ventina di bocce con reattivi, molta polvere, molte ragnatele, poca luce e un gran freddo. Lungo tutta la strada avevamo discusso su quello che avremmo fatto, ora che saremmo “entrati in laboratorio”, ma avevamo idee confuse» [Il sistema periodico, Idrogeno]
È una chimica di lotta, più che di governo, quella che immaginano Primo ed Enrico. «Saremmo stati chimici, Enrico ed io. Avremmo dragato il ventre del mistero con le nostre forze, col nostro ingegno: avremmo stretto Proteo alla gola, avremmo troncato le sue metamorfosi inconcludenti, da Platone ad Agostino, da Agostino a Tommaso, da Tommaso a Hegel, da Hegel a Croce. Lo avremmo costretto a parlare» [Il sistema periodico, Idrogeno].
Una visione della chimica ben diversa da quella che ne ha l’amico Enrico. «Non avevamo dubbi: saremmo stati chimici, ma le nostre aspettazioni e speranze erano diverse. Enrico chiedeva alla chimica, ragionevolmente, gli strumenti per il guadagno e per una vita sicura. Io chiedevo tutt’altro: per me la chimica rappresentava una nuvola indefinita di potenze future, che avvolgeva il mio avvenire in nere volute lacerate da bagliori di fuoco, simile a quella che occultava il monte Sinai. Come Mosè, da quella nuvola attendevo la mia legge, l’ordine in me, attorno a me e nel mondo» [Il sistema periodico, Idrogeno].
La chimica, dunque, come Weltbild, come visione del mondo. Come filosofia o, se si vuole, come anti-filosofia. «Pensavo di trovare nella chimica la risposta agli interrogativi che la filosofia lascia irrisolti. Cercavo un’immagine del mondo piuttosto che un mestiere», ricorderà più tardi [Conversazioni e interviste].
La Chimica per conquistare l’universo (e se stesso), ma anche come arma (di difesa) politica. Primo Levi inizia a pensarlo già da giovanissimo, ancora studente, mentre fuori e persino dentro le aule impera, ormai, la falsa visione fascista del mondo. Ed ecco cosa dice di Sandro, compagno d’università con cui lega parecchio: «lui, ragazzo onesto ed aperto, non sentiva il puzzo delle verità fasciste che ammorbava il cielo, non percepiva come un’ignominia che ad un uomo pensante venisse richiesto di credere senza pensare? [...] Lo provava: ed allora [...] come poteva ignorare che la chimica e la fisica di cui ci nutrivamo, oltre che alimenti di per sé vitali, erano l’antidoto al fascismo che lui ed io cercavamo, perché erano chiare e distinte e ad ogni passo verificabili, e non tessuti di menzogne e di vanità, come la radio e i giornali?”» [Il sistema periodico, Ferro].
La Chimica come arma di difesa politica mentre il mondo è in fiamme? Non è facile da brandire. Non un punto di vista pratico. Ma soprattutto non da un punto di vista psicologico. «Non inforcai il nuovo gigantesco ippogrifo che l’Assistente mi offriva. In quei mesi i tedeschi distruggevano Belgrado, spezzavano la resistenza greca, invadevano Creta dall’aria: era quello il Vero, quella la Realtà. Non c’erano scappatoie, o non per me. Meglio rimanere sulla Terra, giocare coi dipoli in mancanza di meglio, purificare il benzene e prepararsi per un futuro sconosciuto, ma imminente e certamente tragico. Purificare il benzene, poi, nelle condizioni in cui la guerra ed i bombardamenti avevano ridotto l’Istituto, non era un’impresa da poco» [Il sistema periodico, Potassio].
L’ambiente universitario lo aiuta, in questa difesa inane, ma non del tutto passiva. Le prime lezioni magari non sono entusiasmanti dal punto di vista filosofico. Ma dal punto di vista politico… «Avevamo assistito per cinque mesi, pigiati come sardine e reverenti, alle lezioni di Chimica Generale ed Inorganica del Professor P., riportandone sensazioni varie, ma tutte eccitanti e nuove. No, la chimica di P. non era il motore dell’Universo né la chiave del Vero: P. era un vecchio scettico ed ironico, nemico di tutte le retoriche (per questo, e solo per questo, era anche antifascista), intelligente, ostinato, ed arguto di una sua arguzia trista» [Il sistema periodico, Zinco].
La vita in istituto presenta situazioni nuove, ma non troppo. In fondo il laboratorio in facoltà aveva qualche assonanza con il laboratorio del fratello di Enrico. Magari sul piano della sicurezza personale. «Nessuno aveva speso molte parole per insegnarci a difenderci dagli acidi, dai caustici, dagli incendi e dalle esplosioni: sembrava che, secondo la rude morale dell’Istituto, si contasse sull’opera della selezione naturale per eleggere fra di noi i più adatti alla sopravvivenza fisica e professionale» [Il sistema periodico, Ferro].
Ma ci sono anche luoghi in cui si corrono meno rischi. «Appena mi fu possibile filai in biblioteca: intendo dire, alla venerabile biblioteca dell’Istituto Chimico dell’Università di Torino, a quel tempo impenetrabile agli infedeli come la Mecca, difficilmente penetrabile anche ai fedeli qual ero io. È da pensare che la Direzione seguisse il savio principio secondo cui è bene scoraggiare le arti e le scienze: solo chi fosse stato spinto da un assoluto bisogno, o da una passione travolgente, si sarebbe sottoposto di buon animo alle prove di abnegazione che venivano richieste per consultare i volumi» [Il sistema periodico, Azoto].
Dopo la laurea, ottenuta con tanta gloria e tanto scherno, non è l’etereo pensiero filosofico che lo impegna, ma l’ansia di trovare un lavoro. Di mettere insieme il pranzo con la cena. Lui dispera, ma in realtà un impiego non propriamente formale Primo Levi lo trova, subito dopo la laurea, a Lanzo, in una cava di amianto. E poi l’anno dopo, a Milano, presso la Wander, un’industria svizzera di medicinali, dove lavora fino al 13 dicembre 1943, quando viene arrestato come partigiano e deportato nei lager tedeschi.
Primo Levi non è uno scienziato. Non può esserlo per legge. Per quella legge razziale che discrimina e impedisce agli ebrei di avere un impiego statale, anche nelle università. No, Primo Levi non è uno scienziato. Come ricorda Mimma Bresciani Califano, Primo Levi è e si definisce un chimico-tecnologo (Bresciani, Piccole zone di simmetria). Ed è in questa dimensione di chimico di laboratorio industriale che Levi ritrova, come scrive Gaspare Polizzi [Polizzi, Dalla chimica alla letteratura a partire da Primo Levi]: «la paziente lentezza del metodo» e apprende «l’”arte di separare, pesare e distinguere”, essenziale per l’esercizio della scrittura. A questo esercizio si unisce il ‘peso’ semantico di verbi come filtrare, cristallizzare, distillare e di qualità dei corpi come nero, amaro, vischioso, tenace, greve, fetido, volatile, inerte, infiammabile, che dicono poco al lettore-scrittore comune».
È da chimico-tecnologo che incontra infine non la Materia, ma la materia.
È un’esperienza che segnerà la sua vita immediata, ad Auschwitz. Ma anche la sua vita futura, quella da scrittore.
Ma ritorniamo al post-laurea. Quando, uscito dall’università, si accinge a incontrare la materia, Primo Levi non è ancora uno scrittore. Eppure è grazie alla professione di chimico che si imbatte negli ingredienti essenziali del suo futuro mestiere. Lo dirà lui stesso: «La chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia. C’è poi un patrimonio immenso di metafore che lo scrittore può ricavare dalla chimica di oggi e di ieri, e che chi non abbia frequentato il laboratorio e la fabbrica conosce solo approssimativamente. Anche il profano sa che cosa vuol dire filtrare, cristallizzare, distillare, ma lo sa di seconda mano: non ne conosce la «passione impressa», ignora le emozioni che a questi gesti sono legate, non ne ha percepita l’ombra simbolica. Anche solo sul piano delle comparazioni il chimico militante si trova in possesso di una insospettata ricchezza: “nero come …”; “amaro come …”; vischioso, tenace, greve, fetido, volatile, inerte, infiammabile: sono tutte qualità che il chimico conosce bene» [L’altrui mestiere].
La chimica del laboratorio industriale dunque fornisce all’autore de Il Sistema Periodico, ma anche di L’altrui mestiere o di La chiave a stella, una miniera di metafore. Ma la chimica per Primo Levi non è solo questo. Non è solo un cesto di metafore. La chimica è ben altro. Fin dai tempi del liceo, quando si pone alla «ricerca della verità», si convince che la verità si nasconde nella realtà delle cose e poiché le cose di questo mondo sono chimica, ecco che la chimica gli appare come il «motore del mondo» e, dunque, «la chiave del vero» [Il sistema periodico, Zinco].
E chi questo motore è in grado di metterlo in moto merita di essere conosciuto. Il Levi scrittore vuole che venga conosciuto il Levi chimico. Anzi, vuole che sia riconosciuto il chimico: come figura professionale. «Gli dissi che non mi pareva giusto che il mondo sapesse tutto di come vive il medico, la prostituta, il marinaio, l’assassino, la contessa, l’antico romano, il congiurato e il polinesiano, e nulla di come viviamo noi trasmutatori di materia; ma che in questo libro avrei deliberatamente trascurato la grande chimica, la chimica trionfante degli impianti colossali e dei fatturati vertiginosi, perché questa è opera collettiva e quindi anonima. A me interessavano di più le storie della chimica solitaria, inerme e appiedata, a misura d’uomo, che con poche eccezioni è stata la mia: ma è stata anche la chimica dei fondatori, che non lavoravano in équipe ma soli, in mezzo all’indifferenza del loro tempo, per lo più senza guadagno, e affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e la fantasia» [Il sistema periodico, Argento].
No, quello del chimico non è un mestiere come un altro. La chimica anche per il Primo Levi scrittore rappresenta “il modello” che consente di cercare la verità nel mondo, perché «un chimico non pensa, anzi non vive, senza modelli» [Il sistema periodico, Nichel]. I modelli consentono di avanzare ipotesi. E «non c’è nulla di più vivificante che un’ipotesi», anche se bisogna sempre ricordare che l’ipotesi è «un tentativo di soluzione, non la soluzione» [citato in Bresciani, Piccole zone di simmetria]. Poche parole che valgono un trattato di epistemologia.
Non sono solo le metafore, dunque. C’è molto di più. La chimica è lo strumento che lo scrittore Primo Levi utilizza per costruire ponti sul «crepaccio assurdo» che divide le «due culture» e per interpretare il ménage a trois tra letteratura, scienza e filosofia. «Le cose che ho viste, sperimentate e fatte nella mia precedente incarnazione sono oggi, per me scrittore, una fonte preziosa di materie prime, di fatti da raccontare, e non solo di fatti: anche di quelle emozioni fondamentali che sono il misurarsi con la materia, il vincere, il rimanere sconfitti. Quest’ultima è un’esperienza dolorosa ma salutare, senza la quale non si diventa adulti e responsabili. Ci sono altri benefici, altri doni che il chimico porge allo scrittore. L’abitudine a penetrare la materia […] conduce ad un insight, ad un abito mentale di concretezza e di concisione, al desiderio costante di non fermarsi alla superficie delle cose. La chimica è l’arte di separare, pesare e distinguere: sono tre esercizi utili anche a chi si accinge a descrivere fatti o a dare corpo alla propria fantasia. […]. Per tutti questi motivi, quando un lettore si stupisce del fatto che io chimico abbia scelto la via dello scrivere, mi sento autorizzato a rispondergli che scrivo proprio perché sono un chimico: il mio vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo» [L’altrui mestiere].
Nessuno ha saputo farlo meglio di lui. Nessuno ha saputo farlo come lui.
Nelle varie fasi della sua vita da chimico, Primo Levi realizza molte esperienze. E ogni volta mostra meraviglia. Da quella prima esperienza con Enrico, quando sperimenta che l’elettrolisi non è un fenomeno astratto ma avviene in concreto. Nel suo laboratorio. Nella sua vaschetta. E, appunto, se ne meraviglia. «Presi acqua in un becher, vi sciolsi un pizzico di sale, capovolsi nel becher due barattoli da marmellata vuoti, trovai due fili di rame ricoperti di gomma, li legai ai poli della pila, e introdussi le estremità nei barattoli. Dai capi saliva una minuscola processione di bollicine: guardando bene, anzi, si vedeva che dal catodo si liberava su per giù il doppio di gas che dall’anodo. Scrissi sulla lavagna l’equazione ben nota, e spiegai ad Enrico che stava proprio succedendo quello che stava scritto lì» [Il sistema periodico, Idrogeno].
La stessa sensazione che prova più tardi, quando è un chimico-tecnologo professionista. Talvolta è la distillazione a incantarlo: «Distillare è bello. Prima di tutto, perché è un mestiere lento, filosofico e silenzioso, che ti occupa ma ti lascia tempo di pensare ad altro, un po’ come l’andare in bicicletta. Poi, perché comporta una metamorfosi: da liquido a vapore (invisibile), e da questo nuovamente a liquido; ma in questo doppio cammino, all’in su ed all’in giù, si raggiunge la purezza, condizione ambigua ed affascinante, che parte dalla chimica ed arriva molto lontano. E finalmente, quando ti accingi a distillare, acquisti la consapevolezza di ripetere un rito ormai consacrato dai secoli, quasi un atto religioso, in cui da una materia imperfetta ottieni l’essenza, l’”usìa”, lo spirito, ed in primo luogo l’alcool, che rallegra l’animo e riscalda il cuore» [Il sistema periodico, Potassio].
Ma fare chimica non è una sola operazione, è un intero processo. Con sorpresa: «Filtrare, lavare, essiccare, pesare. Il dato finale mi apparve scritto in cifre di fuoco sul regolo calcolatore: 6 per cento di nichel, il resto ferro» [Il sistema periodico, Nichel].
È il chimico che si sporca le mani che lo attrae. Ma non sempre. «Tanto mi aveva esaltato l’analisi del nichel nella roccia, nella mia incarnazione precedente, tanto mi umiliava adesso il dosaggio quotidiano del fosforo, perché fare un lavoro in cui non si crede è una grande afflizione» [Il sistema periodico, Fosforo].
È la routine che non sopporta. Anche quando gli frutta un lavoro ben retribuito. Perché per Primo Levi il mestiere di chimico è un’altra cosa. «Certo, che avrei cercato l’oro: non per arricchire, ma per sperimentare un’arte nuova, per rivisitare la terra l’aria e l’acqua, da cui mi separava una voragine ogni giorno più larga; e per ritrovare il mio mestiere chimico nella sua forma essenziale e primordiale, la “Scheidekunst”, appunto, l’arte di separare il metallo dalla ganga» [Il sistema periodico, Oro].
Sporcarsi le mani non è (solo) una metafora. Talvolta Levi lo fa in maniera tangibile e senza problemi: «Lungi dallo scandalizzarmi, l’idea di ricavare un cosmetico da un escremento, ossia aurum de stercore, mi divertiva e mi riscaldava il cuore come un ritorno alle origini, quando gli alchimisti ricavavano il fosforo dall’urina. Era un’avventura inedita e allegra, e inoltre nobile, perché nobilitava, restaurava e ristabiliva. Così fa la natura: trae la grazia della felce dalla putredine del sottobosco, e il pascolo dal letame; e “laetamen” non vuol forse dire “allietamento”? così mi avevano insegnato in liceo, così era stato per Virgilio, e così ritornava ad essere per me» [Il sistema periodico, Azoto].
Lui non ha paura di sporcarsele, letteralmente, le mani: perché «Il mestiere di chimico (fortificato, nel mio caso, dall’esperienza di Auschwitz) insegna a superare, anzi ad ignorare, certi ribrezzi, che non hanno nulla di necessario né di congenito: la materia è materia, né nobile né vile, infinitamente trasformabile, e non importa affatto quale sia la sua origine prossima» [Il sistema periodico, Ferro].
L’amore per la pratica chimica, per l’esperimento e per la tecnica, non impedisce di coltivare la teoria. Anzi il chimico sperimentale ne ha bisogno assoluto. Per Levi ciò è evidente fin da quando entra nel laboratorio del fratello di Enrico: «L’obiezione mi giunse offensiva: come si permetteva Enrico di dubitare di una mia affermazione? Io ero il teorico, solo io: lui, benché titolare (in certa misura, e poi solo per “transfert”) del laboratorio, anzi, appunto perché non era in condizione di vantare altri numeri, avrebbe dovuto astenersi dalle critiche» [Il sistema periodico, Idrogeno].
La chimica teorica, la filosofia chimica. Quindi il dubbio: «Esistevano teoremi di chimica? No: perciò bisognava andare oltre, non accontentarsi del “quia”, risalire alle origini, alla matematica ed alla fisica. Le origini della chimica erano ignobili, o almeno equivoche: gli antri degli alchimisti, la loro abominevole confusione di idee e di linguaggio, il loro confessato interesse all’oro, i loro imbrogli levantini da ciarlatani o da maghi; alle origini della fisica stava invece la strenua chiarezza dell’occidente, Archimede ed Euclide. Sarei diventato un fisico, “ruat coelum”: magari senza laurea, poiché Hitler e Mussolini me lo proibivano» [Il sistema periodico, Potassio].
La fisica più della chimica sa rispondere alle domande di fondo? E a quelle necessarie a resistere al nazifascismo? Eccolo a confronto, studente all’università, con l’Assistente di fisica. Eccolo a confronto con la Fisica: «L’Assistente mi guardava con occhio divertito e vagamente ironico: meglio non fare che fare, meglio meditare che agire, meglio la sua astrofisica, soglia dell’Inconoscibile, che la mia chimica impastata di puzze, scoppi e piccoli misteri futili. Io pensavo ad un’altra morale, più terrena e concreta, e credo che ogni chimico militante la potrà confermare: che occorre diffidare del quasi-uguale (il sodio è quasi uguale al potassio: ma col sodio non sarebbe successo nulla), del praticamente identico, del pressappoco, dell’oppure, di tutti i surrogati e di tutti i rappezzi. Le differenze possono essere piccole, ma portare a conseguenze radicalmente diverse, come gli aghi degli scambi; il mestiere del chimico consiste in buona parte nel guardarsi da queste differenze, nel conoscerle da vicino, nel prevederne gli effetti. Non solo il mestiere del chimico» [Il sistema periodico, Potassio].
No, non ci sono dubbi, malgrado o forse proprio a causa delle «puzze, scoppi e piccoli misteri futili», Primo Levi preferisce il mestiere del chimico a quello del fisico. Lui ama quel «sapore forte ed amaro del nostro mestiere, che è poi un caso particolare, una versione più strenua, del mestiere di vivere» [Il sistema periodico, Argento].
La chimica, dunque, come visione del mondo. Come filosofia. Levi pensa fin da giovanissimo di trovare nella chimica la risposta agli interrogativi che la filosofia lascia irrisolti.
Lo abbiamo detto, Levi non è un ricercatore ma un chimico industriale. Una chimica che gli offre metafore e la possibilità di cercare la verità nascosta nelle cose. La chimica gli appare come il «motore del mondo» e, dunque, «la chiave del vero».
Ma anche per lo scrittore Primo Levi la chimica rappresenta “il modello” che consente di cercare la verità nel mondo, perché «un chimico non pensa, anzi non vive, senza modelli». E i modelli consentono di avanzare ipotesi. E «non c’è nulla di più vivificante che un’ipotesi», anche se bisogna sempre ricordare che l’ipotesi è «un tentativo di soluzione, non la soluzione”.
La presenza della chimica si avverte in ogni opera di Primo Levi. Ma non c’è dubbio che Il sistema periodico – con la sua serie di “momenti” ciascuno dedicato a un elemento del sistema di Mendeleev – la chiama in causa direttamente. In questo libro, scrive Saul Bellow:«non vi è nulla di superfluo, tutto … è essenziale, meravigliosamente puro». E tuttavia, come scrive Salvatore Luria, premio Nobel per la medicina: «Il libro non riguarda la chimica bensì lo sviluppo personale ed emotivo dell’autore».
Ecco perché Primo Levi è un chimico sempre: da scrittore, come da studente, da laureato in cerca di lavoro, da deportato ad Auschwitz.
Già, Auschwitz.
Ma non è certo quella di deportato nell’infame lager la situazione in cui il costante bisogno di decoro del chimico Primo Levi emerge in maniera più drammatica. Ma è la condizione che vive ad Auschwitz che porta a scrivere Primo Levi, appena dopo la guerra, il più grande libro di dolore nella storia della letteratura italiana: Se questo è un uomo. Ci sono i forni in cui si perpetra semplicemente l’orrore. Lo sterminio sistematico di milioni di persone. Il genocidio. Ma prima succede qualcosa che non è meno indicibile: il tentativo ostentato di schiacciare l’identità e la dignità di ogni singolo ebreo. Il chimico-scrittore Primo Levi così la racconta, questa estrema profanazione del sacro: «Ricordo qui per inciso che il vilipendio del manto di preghiera è antico come l’antisemitismo: con questi manti, sequestrati ai deportati, le SS facevano confezionare mutande, che venivano poi distribuite agli ebrei prigionieri nei Lager» [Il sistema periodico, Argon].
Ecco cosa cercavano i nazisti: annientare non solo il corpo dell’uomo, ma la sua identità. La sua dignità.
Il chimico Primo Levi ha avuto il grande merito di averlo denunciato con straordinaria lucidità. Affinché nessuno dimentichi.
Se questo è un uomo
Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo che lavora nel fango che non conosce pace che lotta per mezzo pane che muore per un si o per un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome senza più forza di ricordare vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d'inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore stando in casa andando per via, coricandovi, alzandovi. Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi.