SOCIETÀ

Il puzzle della Libia e le dimissioni del premier Fayez al-Sarraj

Il passo era atteso, ma non per questo i riflessi sulla Libia saranno meno dirompenti: Fayez al-Sarraj, capo del governo “ufficiale” di Tripoli, l’unico riconosciuto a livello internazionale, ha annunciato in diretta televisiva che si dimetterà “entro la fine di ottobre”. Dopo cinque anni alla guida del Government National Accord (Gna), dopo aver fronteggiato l’avanzata che sembrava inarrestabile del generale Khalifa Haftar, armato e sostenuto da Russia, Emirati Arabi, Egitto, dopo aver chiesto un intervento internazionale mai arrivato (alla Nato, all’Unione Europea) e dopo aver accettato infine l’aiuto decisivo della Turchia di Erdogan (in cambio di una firma sul riconoscimento di un confine marittimo condiviso nel Mediterraneo orientale, in un'area rivendicata dalla Grecia), mossa che ha “riequilibrato” una polveriera che tale resta, il premier libico annuncia dunque un passo indietro. Ma non subito, lasciando così intravvedere una prospettiva, una speranza, probabilmente una tattica. 

Entro quella data, la fine di ottobre, il dialogo tra le parti già avviato dalle Nazione Unite nel tentativo di porre fine alla guerra (siamo al terzo incontro dopo le “raccomandazioni preliminari” emerse dai negoziati che si sono svolti tra il 6 e il 10 settembre quasi in parallelo a Montreux, in Svizzera, e a Bouznika, in Marocco) potrebbe aver raggiunto una soluzione  politica, vale a dire un’intesa su un nuovo assetto di governo che tenga conto delle attuali divisioni del paese e che possa poi accompagnare la Libia a nuove elezioni. Soluzione tutt’altro che semplice: intenzione dell’Onu sarebbe arrivare a nominare una rappresentanza per ognuna delle tre grandi regioni del paese (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan), per formare un nuovo Consiglio presidenziale composto quindi da 3 membri (al momento sono 7) più un premier “indipendente”, che dovrebbe quindi dar vita a un nuovo esecutivo. «Annuncio a tutti il mio sincero desiderio di consegnare le mie funzioni alla prossima amministrazione, al più tardi entro la fine di ottobre», ha dichiarato al-Sarraj. «A quel punto spero che il comitato di negoziazione abbia completato i suoi lavori e scelto un nuovo consiglio di presidenza. E che abbia anche scelto e nominato un nuovo capo del governo». 

Vista da Bengasi

Stanchezza dell’uomo o tattica del politico? Difficile stabilirlo. Oggi la Libia è un gigantesco puzzle disordinato, senza alcuna stabilità, senza alcuna sicurezza. Un paese diviso per sommi capi in tre settori, tutt’altro che delineati con chiarezza al loro interno: la Tripolitania sotto il controllo del Gna, la Cirenaica in mano all’Esercito Nazionale Libico (Lna) di Haftar, mentre nelle zone più a sud del paese imperversano altre milizie e tribù, spesso in combutta con organizzazioni terroristiche, a partire dal gruppo dello Stato Islamico (IS). Scrive Khaled Okasha, direttore generale del Centro egiziano per gli studi strategici, sul quotidiano Al-Ahram: «L'organizzazione terroristica è in Libia da anni. Dopo aver cambiato posizione per un po’, ha tentato di stabilire una base nella città strategica di Sirte vicino alla mezzaluna petrolifera. Dopo la sua sconfitta a Sirte, si è diretta a sud verso la regione del Fezzan, fuori portata da gran parte dei disordini nel nord, e lì i suoi membri si sono uniti a milizie assortite e bande di contrabbandieri». Nella Libia meridionale c’è carenza di tutto: di sicurezza, di infrastrutture, di servizi pubblici. «I gruppi terroristici si nutrono di queste carenze», conclude Okasha.

Ma anche in Cirenaica la situazione politica è in pieno caos: pochi giorni prima delle dimissioni di al-Sarraj si era dimesso anche il suo omologo a Bengasi, il premier Abdullah al-Thinni, capo del governo non riconosciuto dell’Est del paese. Del resto non è un buon momento per il generale Haftar, costretto a frenare la sua avanzata militare, nel malcontento delle fazioni che lo sostengono. E della popolazione, stremata dalla carenza dei servizi e dalla corruzione dilagante, che si sta ricompattando sotto lo slogan “Salvate la Libia dalla corruzione e da chi la pratica”, per chiedere nuove elezioni e tutela rigorosa dei diritti. Le mediazioni interne guidate dal presidente del Parlamento di Tobruk, Aguila Saleh, che il 20 agosto scorso aveva annunciato in simultanea con al-Sarraj il cessate il fuoco (in realtà l’accordo era stato raggiunto da Turchia e Russia), ancora non hanno prodotto il nome del successore. 

Vista da Tripoli

Anche Tripoli è una polveriera. Nella capitale libica, che ha comunque resistito alla “spallata” militare tentata dal generale Haftar, la situazione è addirittura più confusa e frammentata. Il governo nazionale è da un lato diviso al suo interno, dall’altro è ostaggio delle milizie, spesso composte da fazioni rivali e poco controllate, spesso in contrapposizione con lo stesso esecutivo, che garantiscono la sicurezza della città, mentre la popolazione è esasperata. Le manifestazioni di protesta si sono moltiplicate negli ultimi mesi. Lo scorso gennaio il generale Haftar aveva disposto il blocco (revocato poche ore fa) dei pozzi petroliferi, e dei porti, paralizzando l’export e provocando continui blackout nel paese, carenze di carburante, aumento generalizzato dei prezzi. Ma, soprattutto negli ultimi mesi, le proteste sono state represse con violenza (cronache raccontano di manifestanti rapiti da uomini armatiche hanno sparato sulla folla), al punto che il premier ha sospeso dal suo incarico il ministro degli interni Fathi Bashaga (uomo “di peso” nei rapporti con la Turchia e secondo alcuni aspirante successore alla carica di premier), ritenendolo responsabile di non aver gestito al meglio la situazione e di aver addirittura incoraggiato le proteste per mettere in difficoltà al-Sarraj. Secondo alcuni il ministro, che cinque giorni dopo è stato comunque reintegrato (c’è chi dice che la decisione sia stata imposta da Erdogan), stava preparando un colpo di stato proprio per estromettere il premier. Progetto non completato. L’impressione è che la resa dei conti tra premier e ministro sia soltanto rinviata.

Accelerata sui negoziati

La mossa di al-Sarraj («Sono dispiaciuto», ha dichiarato Erdogan) si presta dunque a varie letture. Ma è probabile che si tratti di un tentativo di “silenziare” i dissidi interni (offrendo la sua disponibilità, almeno teorica, a farsi da parte), togliere ulteriori spazi di manovra alle varie anime delle milizie del Gna e costringere al tempo stesso le potenze straniere (Turchia, Russia, Emirati Arabi, con la Francia sullo sfondo) a chiudere i negoziati entro la fine di ottobre. Il Gna, così com’era stato immaginato alla fine del 2015 dalle Nazioni Unite, nella speranza di favorire la stabilità nel paese dopo l’eliminazione di Gheddafi nel 2011 (qui una ricostruzione degli eventi, mai del tutto chiariti, tranne il ruolo chiave ricoperto proprio dalla Francia), sembra aver ormai esaurito la sua forza propulsiva. Serve altro, altri assetti, altri punti d’equilibrio. Quasi in contemporanea con l’annuncio di al-Sarraj, è arrivata la notizia della convocazione a Ginevra, per il 5 ottobre prossimo, di un vertice internazionale sulla Libia (virtuale), con la partecipazione dell’Onu, e delle cancellerie di tutti gli Stati coinvolti (compresa l’Italia, anche se in un ruolo assai defilato), a partire da Russia e Turchia, i paesi che più si sono esposti, militarmente, e che dunque più pretendono in sede di negoziati. Dietro di loro Emirati Arabi e Qatar, Egitto, Francia, mentre gli Stati Uniti restano sullo sfondo (Trump, riferisce la Cnn, ha fatto sapere ai due schieramenti che «preferirebbe non essere coinvolto»). La revoca annunciata da Haftar del blocco dei pozzi petroliferi va proprio nella direzione di un accordo possibile. Anche il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, è apparso ottimista: «Il nuovo percorso politico deve rinnovare le istituzioni esistenti e, allo stesso tempo, muoversi per le elezioni in tempi accettabili. Nonostante tutto, ci sono segni di speranza».

È il tempo della spartizione

Gli ostacoli da superare, in realtà, appaiono enormi. Anzitutto perché, al netto di qualsiasi ideologia, bisognerà trovare una sintesi non soltanto nella rivalità tra le varie milizie libiche (in particolar modo tra quelle di Tripoli e quelle, assai più aggressive, di Misurata), ma anche tra le ambizioni delle potenze straniere, che influenzano e “orientano” l’andamento della crisi. Il cuore del problema sarà la ripartizione delle risorse petrolifere, attualmente controllate dal generale Haftar (e dunque dagli Stati che lo spalleggiano, ma anche dai capi delle milizie sparsi sul territorio), in una soluzione compatibile con le ambizioni di tutti gli altri attori chiamati al tavolo dei negoziati. E soltanto in un secondo momento si parlerà di nomi, delle personalità che potrebbero essere in grado di offrire garanzie a tutti e, si spera, stabilità. Di certo dovrà essere un nome gradito alla Turchia: come il ministro Fathi Bashaga, o l’attuale vice presidente libico, Ahmed Maitig. Anche l’ipotesi di un nuovo incarico ad al-Sarraj non è da escludere, ma per lui sarebbe già pronto un ruolo come ambasciatore alle Nazioni Unite.

Il sequestro dei pescatori italiani

Infine una nota sullo strano caso dei pescatori italiani (8, più altri 10 di varie nazionalità) che lo scorso 1 settembre si trovavano a bordo di due pescherecci partiti da Mazara del Vallo,” Antartide” e “Medinea”, intercettati dalle autorità libiche in acque internazionali (a 38 miglia dalla costa, ma i libici rivendicano unilateralmente il loro dominio entro 72 miglia) e arrestati con l’accusa di essere entrati senza autorizzazione nella zona di pesca esclusiva libica. Le motonavi sono state scortate nel porto di Bengasi, mentre i pescatori sono stati trasferiti nel carcere di El Kuefia, 15 km a sud est di Bengasi. Ora l’accusa è cambiata: traffico di droga. In stato d’arresto, ma in realtà pedine di una partita politica tra l’Italia e il generale Haftar, che per il rilascio dei pescatori chiede in cambio la restituzione “di quattro calciatori libici”, in realtà scafisti della “strage di Ferragosto” del 2015, già condannati nel nostro paese a 30 anni di carcere per traffico di esseri umani. Il caso è singolare per la durata del fermo (episodi del genere sono frequenti, ma di solito si risolvono nel giro di poche ore) e per una coincidenza: il sequestro delle due motonavi è avvenuto lo stesso giorno dell’ultima visita in Libia del ministro degli Esteri italiano, Di Maio. Quasi un avvertimento.

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