SOCIETÀ
Quando una specie animale può essere definita migratoria? Noi lo siamo?
Migratory birds fly above children taking a boat ride, Delhi, India. Photo by Ahmad Masood/Reuters
Solo per alcune specie del nostro regno animale (quasi tutte mobili) si può propriamente parlare di specie migratorie, di un fenomeno migratorio così diffuso da essere un carattere proprio e replicantesi (anche grazie a specifiche cure parentali) di praticamente tutti gli individui della specie o di gruppi caratteristici della specie, un carattere selezionato perché vantaggioso rispetto a strategie stanziali o solo stanziali, o perché alternativo rispetto ad altri caratteri evolutivi (lo stato di diapausa, per esempio). La mobilità e le migrazioni sono le più importanti forme di comportamento animale atte a far evolvere specie politipiche e a impedire una forte endogamia e possono, inoltre, trasformarsi in colonizzazioni di un nuovo areale, mentre una durata lunghissima delle permanenze nella nuova residenza (habitat, ecosistema) potrebbe addirittura evolvere in qualcosa proprio di diverso, una speciazione.
Le specie animali si adattano alle variazioni di clima e biodiversità anche attraverso movimenti volontari e controllati. La capacità di fuga è una delle forme primordiali e persistenti di questa agentività animale che risale circa a cinquecento milioni di anni (ne abbiamo parlato anche in Migrare o non migrare, sconfinare o non sconfinare: questi sono i problemi). Fra le specie animali c’erano e ci sono propri habitat e contesti ecologici (ecosistemi) per individui e gruppi, ci sono quindi forse comunque vagabondi, erranti, migranti. Molte specie animali si sono diffuse anche molto lontano dagli habitat originari, senza l’assistenza o l’aiuto delle specie umane. Sono frequenti quelli che possono essere definiti nuovi popolamenti di luoghi diversi dagli habitat di nascita e sviluppo o anche è capitato che siano stati proprio individuati due o più habitat stagionali residenziali con le vere e proprie specie migratorie animali (mentre per lo più è correttamente escluso il fenomeno del nomadismo). Le varianti migratorie sono molteplici. Cambiando “residenza”, le specie animali spesso seguono (più o meno attivamente) ritmi e percorsi, regole e occupazioni cicliche di aree definite.
Le specie animali hanno dunque evolutivamente adattato morfologia, fisiologia e comportamenti di movimento e migrazione, ognuna in modo proprio, in relazione anche agli adattamenti di altre specie. E vi sono specie che sanno migrare pur essendo prevalentemente filopratiche, che cioè tendono a rimanere dove sono. Sulle strategie evolutive migratorie è già capitato spesso di riferirsi a studi e saggi, anche per sottolineare quanto stiano oggi cambiando a causa dei cambiamenti climatici antropici globali.
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La migratorietà nei taxa animali (agentività, motivazioni, capacità, effettività, dinamiche temporali e spaziali) meriterebbe vari studi comparati della biologia evoluzionistica. Probabilmente la classe che più ha già dato molto da riflettere sul migrare è quella degli uccelli, visti la velocità dei loro spostamenti e l’andamento storico dell’evoluzione umana (che molto ha “imparato” dagli uccelli): per decine di milioni di anni le specie sarebbero state prevalentemente sedentarie, molte sarebbero divenute migratorie a partire dalla fine dell’età terziaria (dopo i 65 milioni di anni fa), per effetto delle almeno quattro glaciazioni verificatesi e della competizione interspecifica sviluppatasi. Quasi la metà delle migliaia di specie degli uccelli attuali sono migratorie, hanno luoghi dove si riproducono e luoghi dove in linea di massima non si riproducono, covano a nord o a sud e a terra, viaggiano in gruppi o in storni, di giorno per lo più, quasi tutte in aria senza tante frontiere (con la nota eccezione dei pinguini, per terra).
Le specie migratorie di uccelli avrebbero evoluto adattamenti riconducibili anche a variazioni genetiche, nel senso dell’impulso “innato” e di alcuni caratteri; avrebbero, per esempio, cervelli più leggeri di quelle non migratorie, cervelli meno energeticamente costosi da trasportare. Le specie migratorie sono diverse sia da quelle stanziali che da quelle migratorie eventuali che da quelle invasive (migratorie irregolari): hanno spesso un puntuale orologio biologico e un sagace orientamento geografico, sensibili al caldo, ai venti e all’acqua, alle barriere e ai monti, agli odori o ai campi magnetici terrestri, alle stelle, alla luna, al sole con il bello e il cattivo tempo atmosferico, alle vibrazioni, ai raggi. Si è parlato di specie migratoria anche per la specie umana sapiente. Forse l’aggettivo è improprio, i fenomeni descritti non sono analoghi. La mente della specie umana sapiente è certo una di quelle animali.
Senza confondere funzioni cognitive e coscienza, esplicitazioni e rappresentazione mentale, complessità e consapevolezza, l’etologia suggerisce che la mente è una dotazione biologica che caratterizza tutto il mondo animale, noi fra gli animali, non noi contro o a prescindere dagli animali. Anche alcune specie animali hanno sviluppato raffinati sistemi di comunicazione e menti sociali (se non anche morali). Anche molte specie animali hanno sensi molto sviluppati, quanto e più di quelli umani, esprimono sentimenti ed emozioni senza l’ausilio delle sapienti umane tecnologie. Anche altre specie animali sono capaci di compiere processi di esperienza, riflessione, soluzione, prefigurazione, controllo, ricordo. Anche loro comportamenti sono espressivi dello stato plastico della mente e di una relazione tra vocazione e contesto.
Migrare è appunto un comportamento, un’interazione tra meccanismi mentali e attività corporea, connessa al cambio del contesto di sopravvivenza e riproduzione. C’è bisogno che le menti abbiano diacronie e sincronie, che i corpi abbiano mobilità, stimoli o motivazioni. O di cure parentali e dinamiche di gruppo che facciano da intermediari. Le specie migratorie hanno sviluppato organi di loco-mozione e sensibilità climatiche, ma non sono necessariamente tali da sempre e per sempre. Le specie migratorie hanno una filogenesi, un’evoluzione (tendenzialmente) migratoria di specie, una dotazione comportamentale anche genetica, tuttavia non sono automi migranti, hanno comunque una certa plasticità non controllata geneticamente, essenziale per l’adattamento, come specie, come gruppi, come individui. Gli automatismi e i ritmi dei fenomeni migratori animali, gli acclimatamenti e gli stessi adattamenti evolutivi dei caratteri morfologici e fisiologici delle cosiddette specie migratorie sono anch’essi frutto di processi cognitivi plurali, per quanto tutti non comparabili o non esplicabili con la proiezione dei nostri, diversi.
Negli ultimi decenni è accaduto spesso che l’aggettivo “migratoria” sia stano abbinato a varie o a tutte le precedenti specie umane e a Homo sapiens, sia in ambito scientifico che in ambito divulgativo, sia come puntuale espressione culturale che come utile metafora esplicativa. Si può citare da ultimo il bel testo di un esperto studioso francese: Jean-Paul Demoule, Homo migrans. De la sortie d’Afrique au grand confinement, (Payot & Rivages Parigi 2022). Già nell’introduzione l’autore ribadisce e sottolinea che l’uomo è l’unica scimmia migratoria. In un suo libro precedente lo stesso termine francese veniva tradotto con “migratrice”, migrans fa comunque esplicito significativo riferimento alla tassonomia “linneana”. Nessun’altra scimmia migra, né quelle della savana, né quelle delle foreste: siamo dunque una specie di scimmie migratoria o addirittura invasiva (fra le almeno 182 identificate)? Le scoperte archeologiche, sostiene Demoule, non sono ancora abbastanza numerose né i sistemi di datazione abbastanza precisi per permetterci di ripercorrere nel dettaglio modi e tempi di tutti gli spostamenti.
Le specie umane iniziarono ad attraversare continenti probabilmente almeno due milioni di anni fa, al tempo dei più antichi Erectus che riuscirono a lasciare l’Africa (attestati prima in Georgia, poi in Cina e India, forse nello stesso periodo o certamente da 800.000 anni fa, in Spagna e Francia circa 1,2 milioni di anni fa). Le migrazioni dei sapiens ci hanno via via condotto ancor più lontano degli antenati umani, con una svolta stanziale legata al Neolitico e al relativo boom demografico (con l’avvento dei “popoli”, mai delle “razze”). Esistono molte categorie di classificazione delle migrazioni umane, rimaste più o meno le stesse nella lunga durata: di popolamento o di conquista, economiche o politiche, dovute a forze esterne o a curiosità interiori, individuali e di gruppo. Se si tenta una storia globale delle migrazioni umane si deve riflettere su alcune premesse: probabilmente non vi è mai un’esclusiva causa scatenante; partire e arrivare, veder partire o veder arrivare è sempre una questione di punti di vista; assumono pure ovvi significati diversi quel qualcuno che vuole espatriare rispetto a quel qualcuno che è costretto a rifugiarsi all’estero, pur entrambi migranti; la vita nomade era assolutamente prevalente fino al Neolitico ed è rimasta praticata da minoranze anche dopo, anche ora; interrogativamente, il “Grande Confinamento” conseguente alla pandemia di Covid-19 potrebbe forse anticipare una tendenza alla fine delle migrazioni? Forse se o quando gli uomini smetteranno di migrare ci sarà da preoccuparsi, sostiene l’autore.
L’esperto archeologo e storico della tarda preistoria Jean-Paul Demoule (Neuilly-sur-Seine, 1947), dopo innumerevoli significativi volumi e saggi sulle teorie e sulle pratiche del Neolitico, ha deciso di prendere di petto la questione delle migrazioni umane con un corposo documentato studio tematico. Il migrare umano esiste da prima, ma da diecimila anni ci ha proprio radicalmente trasformato: sapiens eravamo poche centinaia di migliaia sparsi in tutti i continenti ma non stanziali, isolati in gruppi erranti. Ora siamo circa otto miliardi, sedentari, perlopiù con residenza unica o prevalente nelle fasi dell’esistenza (pur talora migrante). L’introduzione progressiva dell’agricoltura e dell’allevamento ci ha reso “residenti”, diffondendo anche “pratiche” che esistono ancor oggi: lavoro, guerra, religione.
L’autore ha predisposto nove meditati capitoli secondo uno schema cronologico: quando Homo erectus e sapiens si avventurarono fuori dall’Africa; quando le rivoluzioni neolitiche e le colonizzazioni agricole «rovesciarono» il pianeta; quando gli «indo-Europei» popolarono il mondo; quando nacquero gli Stati, gli imperi e i «barbari»; quando i barbari «invasero» l’Impero romano; quando uomini, merci e idee circolarono liberamente nel Medioevo; quando l’Europa partì alla conquista del resto del mondo; quando le grandi potenze costruirono gli imperi coloniali, accelerando i movimenti delle popolazioni; quando gli imperi caddero a pezzi nella violenza. Le conclusioni ragionano su chi ha inutilmente (e un poco scioccamente) paura delle migrazioni, fenomeno indissociabile dalla storia umana per cinque principali costanti: la demografia, la volontà di potenza, il meticciato costante che «agita» popoli e culture, il bisogno di capri espiatori (boucs émissaires) esterni (barbari e immigrati) per definire sé stessi, la solidarietà sociale.
In fondo al testo non mancano ricchi apparati: le brevi note, l’ampia bibliografia, grafici e carte, fonti, articolato indice di nomi di persone e popoli, indice dei tanti luoghi citati, sommario. Migratoria o Migrans per le specie umane e per noi sapiens forse non sono termini completamente esclusivi e precisi. Le altre specie animali e, in linea di massima, anche ominidi e primi umani occupavano aree favorevoli, si spostavano verso altre aree favorevoli alla (propria) sopravvivenza e capacità riproduttiva. Se del caso, un poco si adattavano loro, un poco si adattavano gli ecosistemi. Le specie o non migravano o, migrando, non occupavano aree non favorevoli. Anche le specie migratorie delle specie che manifestano un’ampia virtualità ontogenetica (soprattutto uccelli e mammiferi) o non riuscivano a rendere favorevoli aree inadatte a sopravvivenza e riproduzione o vi riuscivano con adattamenti di lunghissimo periodo. La specie umana sapiens ha reso favorevoli aree che teoricamente non lo erano, coltivandole e allevandovi. Non subito (opportuno quindi sottolineare la pur lenta e conflittuale svolta globale del Neolitico).
La storia della nostra specie è stata sempre contigua a quella di organismi di altre specie, non è solo una storia di migrazioni e di crescita demografica. Per decine di migliaia di anni l’Homo sapiens respirava e si muoveva, mangiava e beveva, raccoglieva e cacciava prevalentemente in funzione di un habitat, di un sistema ecologico locale, di uno specifico ecosistema, della competizione adattativa e del reciproco adattamento con ognuna e con tutte le altre specie. Il fenomeno migratorio di ogni specie (compresa la nostra) andrebbe sempre letto e studiato in parallelo con l’analogo fenomeno di molte altre specie, vegetali e animali, di animali lenti e veloci, in acqua, in terra e in aria. Conformemente, anche i loro fenomeni migratori da qualche milione di anni andrebbero letti e studiati in parallelo con il nostro. Esistono cruciali aspetti di imitazione, emulazione, curiosità, addomesticamento reciproco, di fuga e di caccia, di attrazione e repulsione, di veicolazione e parassitismo, di adattamento agli ecosistemi o degli ecosistemi, che “mescolano” i fenomeni migratori delle specie viventi.