SOCIETÀ

Le radici sociali, culturali e giuridiche della violenza di genere

Sospinta opportunamente nel reame del privato, la violenza maschile contro le donne è diventata solo di recente oggetto di ricerca storica. Il fatto che, nonostante la pervasività e il peso sociale del fenomeno (banalmente la quantità di popolazione interessata), si sia negato per molto tempo che il tema avesse le qualità per essere considerato un oggetto di analisi storica è, oggi, parte del problema.

Estromettere la violenza dalla processualità storica ha molte implicazioni: insinua che il fenomeno non ha tanto a che fare con l’agire e la responsabilità umana, ma piuttosto con una dimensione del “biologico” (l’inarrestabile natura maschile? gli istinti? gli ormoni?); insinua che è un fenomeno che non è stato soggetto a trasformazioni nel tempo (e quindi che forse non lo sarà neanche nel futuro, è così e con questo dobbiamo fare i conti), ma anche che non dipende da variabili: da che posizioni si occupano nella società, dai rapporti di potere, dalle pratiche sociali, dal linguaggio, dalla cultura, dal diritto.

Per fortuna, però, ormai da diversi decenni – almeno dal libro apripista del 1975 Against Our Will: Men, Women, and Rape di Susan Brownmiller – la ricerca e la riflessione storica hanno contribuito a evidenziare molteplici aspetti, dimensioni, elementi della violenza di genere. Un patrimonio di acquisizioni significative che dal passato pescano importanti indizi di quali siano i piani a cui guardare.

Le responsabilità del diritto

In primo luogo, e in una prima fase, gli studi e le ricerche si sono concentrate sull’impalcatura giuridica che ha per molti secoli non solo garantito l’impunità agli uomini che agivano violenza domestica e violenza sessuale contro le donne, ma soprattutto che l’ha legittimata, considerandola un ingrediente indispensabile per garantire l’ordine familiare e quindi sociale. In buona sostanza una parte consistente  di studi di storia del diritto e di storia sociale ha riportato alla luce la resistenza secolare del diritto maschile a comandare in famiglia, a usare la violenza per ricondurre la moglie (ma anche i figli e le figlie) all’obbedienza; il diritto in capo agli uomini di uccidere mogli, sorelle e figlie che avessero danneggiato con le loro (anche presunte) condotte sessuali l’onore personale (degli uomini) e familiare; il diritto a disporre liberamente o contrattando con altri uomini del corpo e della sessualità femminile. È una storia di lunghissimo periodo che innerva anche la “nostra” storia nazionale, fin dal principio.

Senza andare troppo indietro nel tempo, prendiamo in considerazione per esempio il ruolo particolare che la famiglia guadagna nei progetti di costruzione della nazione ottocenteschi. Una famiglia ordinata gerarchicamente, che sia specchio e rifletta l’ordine che presiede alla sfera politica o forse ne sia auspicio. Nel codice civile del 1865, laddove si prendeva in considerazione il sistema dei diritti e dei doveri che interessano l’organizzazione della vita familiare (Libro I, tit. V, capo IX, Dei diritti e dei doveri che nascono dal matrimonio) l’articolo 131 sanciva che "Il marito è capo della famiglia: la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome, ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare residenza". L’articolo 134 stabiliva per le donne l’obbligo di ricevere l’autorizzazione notarile del marito (“autorizzazione maritale”) per disporre di beni, aprire attività, fare operazioni commerciali, comparire in giudizio e molto altro (istituto abolito nel 1919). L’articolo 220 assegnava al padre l’esercizio esclusivo della podestà sui figli (fino alla riforma del diritto di famiglia del 1975). Messi insieme questi tre articoli hanno imbrigliato le donne in un regime di subalternità al marito, ma anche di ricatto: non solo non potevano agire pienamente, ma se si allontanavano dal marito perdevano qualsiasi diritto sui figli. Tracce dal passato.

La soglia della violenza legittima

Ad attirare l’attenzione delle storiche (e degli storici) è stato però soprattutto il cosiddetto ius corrigendi. Quali strumenti aveva il capofamiglia per mantenere l’ordine familiare? Mentre rispondiamo a questa domanda teniamo anche a mente che governare bene una famiglia è per gli uomini un diritto, ma anche un dovere, qualcosa che la società si aspetta che sappiano fare, qualcosa da cui deriva anche la loro reputazione sociale.

Tra gli strumenti a disposizione del capofamiglia, dunque, c’è stato – in Italia fino agli anni Cinquanta del Novecento – anche l’uso di una certa dose di violenza fisica, di mezzi vari di correzione. La storiografia ha chiarito come questo diritto non si trovi nei codici formulato direttamente, ma è stato fondato e riconosciuto giuridicamente in modo potremmo dire riflesso, indiretto, per contrasto. Nel caso italiano lo troviamo introdotto nella disciplina delle separazioni coniugali, vale a dire laddove il codice civile chiariva in quali casi si potesse ottenere la separazione dal coniuge. L’articolo 150 prevedeva che tra i pochi casi che consentivano la separazione legale c’erano gli eccessi, le sevizie e le gravi ingiurie, disegnando quindi un’area, un campo di violenze, “piccole”, “meno gravi”, quotidiane, quelle che ricadevano sotto la soglia delle sevizie e degli eccessi, che non erano quindi da considerare fatti matrimoniali sufficienti a giustificare una separazione.

Alle disposizioni del codice civile (che ricordo sono rimaste in vigore fino alla riforma del diritto di famiglia nel 1975 o depotenziate dall’introduzione del divorzio nel 1970), si devono aggiungere alcuni passi del codice penale introdotto nel 1889 e, in particolare, quell’articolo 391 che puniva gli abusi, e solo gli abusi, dei mezzi di correzione.

Qual era il limite oltre il quale la violenza domestica maschile diventava sevizia, grave ingiuria, abuso? A rispondere a questa domanda sono stati chiamati i tribunali, civili e penali, che di volta in volta, caso per caso, dovevano valutare se si era superata la soglia di legittimità della violenza domestica e coniugale. Mettiamo allora a fuoco dei punti: in primo luogo è quindi esistita una dose di violenza coniugale che nel nostro paese è stata considerata funzionale all’ordine delle famiglie, necessaria. Quanto questo abbia contribuito a costruire una cultura di legittimazione e accettazione delle violenze di genere, che ancora oggi si proietta nelle convinzioni, nelle emozioni, nel linguaggio e nelle rappresentazioni, è una domanda più che opportuna, tanto più che le rilevazioni statistiche confermano che i tre quarti delle violenze sono perpetrate in ambito domestico e intorno alle relazioni di coppia anche nelle società attuali.

Sotto processo le condotte femminili, non le violenze maschili

Un secondo elemento che merita di essere analizzato con attenzione è il ruolo che storicamente è stato affidato ai tribunali, alle corti, ai giudici, ai pubblici ministeri, nel processo di individuazione della soglia di legittimità della violenza. È una questione centrale perché chiunque si occupa di violenza sa che i tribunali hanno rappresentato non tanto il luogo della valutazione o della mancata condanna della violenza di genere, ma uno dei principali produttori di violenza maschile contro le donne. Non a caso verso e contro i tribunali si sono indirizzati i primi movimenti politici, femministi, contro la violenza: il trattamento riservato alle donne che denunciavano è diventata nel tempo una categoria specifica, la “vittimizzazione secondaria”, al centro recentemente delle politiche internazionali. Pratica ancora così diffusa nel nostro Paese da far guadagnare all’Italia, negli anni Venti del Duemila, di nuovo una condanna dalla corte europea dei diritti umani per il modo in cui in un tribunale si era stigmatizzata, durante il dibattimento e in sentenza, una donna che aveva intentato un processo per stupro di gruppo.

Che cosa succedeva, dunque, e che cosa ancora troppo spesso succede nei tribunali durante i processi di separazione o per violenze (sessuali e domestiche)? I tribunali, come accennato, dovevano stabilire non tanto e non solo se le violenze fossero realmente accadute, ma soprattutto se dovevano considerarsi tali, se erano state troppe e ingiuste. Dovevano quindi valutare da una parte la quantità delle violenze, ma dall’altra anche la legittimità delle violenze. Questo è il campo più denso di implicazioni, anche – nuovamente – per le lunghe proiezioni che tali pratiche e culture hanno avuto negli immaginari collettivi. Nel corso dei secoli e fino alla contemporaneità, dunque, sotto processo sono finite non le condotte e le azioni violente maschili, ma le condotte e le vite delle donne: i loro comportamenti avevano reso necessarie le violenze? Delle donne si scandagliava l’obbedienza, la moralità, i comportamenti, l’adesione ai compiti familiari, i comportamenti sessuali e quelli provocatori. Particolare importanza guadagna, in sede di giudizio, la sessualità (delle donne), costringendoci a inoltrarci lungo ulteriori sentieri di riflessione storiografica.

Il delitto d’onore: la legittimazione giuridica e culturale del femminicidio

Dopo e insieme ad aver preso di mira la violenza domestica e in particolare quella correzionale, le ricerche e gli studi hanno compiutamente messo in luce un elemento che potrebbe sembrare banale ma che è fondamentale tenere a mente: le condotte sessuali femminili sono al centro della storia della violenza.

La sessualità femminile è qualcosa attraverso cui si realizza la trasmissione ereditaria, la costruzione di vincoli di parentela e di alleanze, è stato considerato storicamente un patrimonio familiare, di una famiglia comandata da uomini. Oggi la famiglia ha perso centralità, le relazioni affettive e sessuali si sperimentano prima e al di là del vincolo coniugale, ma la concezione della partner come una proprietà non è affatto tramandata e ha, appunto, solide basi alle spalle. La capacità di saper ben governare la sessualità femminile, di non lasciarsela scappare, è stata ed è una delle più importanti fonti della rispettabilità, della reputazione, dell’autorevolezza, dell’onore maschile.

Nei tribunali, dunque, si discute in primo luogo di condotte sessuali femminili, della loro onestà, della loro fedeltà, della loro innocenza. La vita sessuale delle donne è messa sotto osservazione tanto nei processi per maltrattamenti e abuso dei mezzi di correzione, per valutare se quelle violenze si erano rese necessarie, quanto nei processi per stupro, per valutare se veramente – alla luce di questi codici culturali – il rapporto sessuale ottenuto con la forza avesse danneggiato un bene.

È all’intersezione tra questi interessi – quello per l’ordine della famiglia e quello per il controllo della sessualità femminile – che incontriamo nei secoli passati la legittimazione giuridica e culturale per antonomasia del femminicidio: il delitto d’onore. Così recita l’articolo 587 del codice penale (rimasto in vigore fino al 1981): “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni”.

Pene lievi, dunque, che con l’aiuto delle attenuanti hanno nel tempo garantito un regime di quasi totale impunità agli uomini che ammazzavano le mogli, le figlie, le sorelle colpevoli (o sospettate, è bene sottolinearlo) di tradimenti o altri atti sessuali illeciti. Istituti giuridici, tuttavia, che raccontano anche che uccidere una donna che tradiva il proprio marito (oggi il partner?), che si allontanava, era in fondo lecito.

Violenza di genere, un fenomeno storico che interseca molti piani

Quelle qui discusse sono solo alcune delle traiettorie seguite dalla ricerca storica sulla violenza. Se ne potrebbero aggiungere molte altre (come la storia delle narrazioni della violenza e quella delle emozioni), ma sono sufficienti credo a riconoscere i punti di tensione, i nodi, intorno a cui riflettere come comunità, continuare a studiare e fare ricerca, discutere: la lunga storia della legittimazione della violenza maschile; i legami tra violenza e potere, tra violenza e diseguaglianza di genere; il posto speciale che la sessualità occupa nella storia della violenza di genere; le forme di complicità maschili anche nelle istituzioni (come i tribunali).

Soprattutto, vorrei però sottolineare come la storia della violenza ci insegna che siamo di fronte a un fenomeno storico che mobilita molti piani contemporaneamente – quello giuridico, sociale, culturale – ma anche, pensando alle battaglie delle donne che hanno smontato pezzo a pezzo nel corso degli ultimi decenni istituti secolari, il piano della mobilitazione politica e collettiva.

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