SOCIETÀ
Da Ravanusa alla transizione energetica: un’analisi del rischio della rete del gas
La sera dell’11 dicembre a Ravanusa, in provincia di Agrigento, un’esplosione ha fatto crollare una palazzina. Nove persone hanno perso la vita e un’indagine giudiziaria è in corso per accertare le responsabilità. Vigili del Fuoco e Protezione Civile hanno ipotizzato le cause tecniche dell’incidente, che sono state fatte risalire a una fuga di gas uscito dalle tubazioni della rete di distribuzione del metano e accumulatosi nel sottosuolo in alcune cavità del terreno.
Le indagini peritali hanno individuato il punto esatto di rottura della rete al di sotto del manto stradale di Via Trilussa, ha dichiarato il procuratore aggiunto di Agrigento, Luigi Patronaggio. In prossimità di quel punto è anche stata individuata un’altra sacca di metano.
Con Giuseppe Maschio, professore di Impianti Chimici all’università di Padova e membro dell'Ufficio di Presidenza della Commissione nazionale per la previsione e prevenzione dei grandi rischi, e Chiara Vianello, ricercatrice del dipartimento di ingegneria industriale, abbiamo tentato di capire come è organizzata la rete del gas in Italia e quali rischi derivano da una sua manutenzione non adeguata. Inoltre, visti gli ingenti finanziamenti che sono previsti dal PNRR per la transizione ecologica, ci siamo chiesti se la rete del gas italiana sia pronta o meno ad accogliere un’eventuale distribuzione dell’idrogeno, in miscela con il metano, come propone di fare ad esempio Snam. “Spesso si confonde una tecnologia verde con una tecnologia sicura”, commenta Giuseppe Maschio. L’esempio di Ravanusa mostra che nella rete del gas, a livello locale, ci sono ancora tubazioni di vecchia generazione fatte di materiali che potrebbero venire corrosi dall’idrogeno, provocando fuoriuscite accidentali. “In miscela con l’aria, l’idrogeno ha intervalli di infiammabilità ed esplosività molto ampi, esplode in quasi tutte le composizioni, mentre il metano ha un campo più ridotto. Occorre perciò fare una valutazione del rischio molto approfondita”.
Le cause dell’incidente
“In seguito alle indagini svolte a Ravanusa e al momento disponibili sono state trovate delle tubazioni con fessurazioni molto ampie” spiega Giuseppe Maschio in riferimento ai punti di rottura della rete del gas. “Non ci sono risultati definitivi, ma sembra che la rottura di queste tubazioni sia dovuta a un movimento franoso, un fenomeno relativamente frequente in quella zona della Sicilia”.
Basandosi sui dati apparsi sui media, Maschio sostiene che le fessurazioni riguardano le tubazioni metalliche incatramate di vecchia generazione, risalenti circa agli anni ‘80. “Oltre a quelle sono presenti tubazioni in PVC [polivinilcloruro, ndr], che sono un po’ più recenti, e tubazioni in polietilene, ancora più recenti. Questo significa che la rete è stata fatta in diverse epoche e poi collegata insieme”.
La dinamica dell’esplosione
“Il metano di solito non dà luogo a esplosioni molto forti, come potrebbe fare il GPL, il gas contenuto nelle bombole. Tuttavia il terreno presentava una morfologia particolare con cavità sotterranee, che sono andate a saturarsi”.
Nel video che riprende l'esplosione della sera dell’11 dicembre, si vede un auto transitare davanti alla palazzina. “Dall’auto parte un bagliore (flash fire)” spiega Maschio. “significa che in quella zona si era formata una sacca di miscela infiammabile di metano, il combustibile, e aria, il comburente, mentre la marmitta calda dell’auto ha fatto da innesco”. Subito dopo dall’auto parte una fiammata verso il palazzo: “questo è stato probabilmente un flash fire, che raggiunge la palazzina. Lì trova miscele in intervallo di esplosività e subito dopo si ha l’esplosione vera e propria nella palazzina”. Le due persone alla guida dell’auto risulteranno illese, protette dall’abitacolo.
Com’è strutturata la rete del gas
Le quantità di metano rilasciate dovevano essere consistenti, fa notare Maschio, anche perché il diametro della tubazione danneggiata era abbastanza grande. Solitamente le tubazioni della rete locale contengono gas a bassa pressione, ma la presenza di cavità nel terreno ha fatto sì che il gas si accumulasse in quantitativi molto elevati e ciò ha determinato l’intensità della esplosione.
“La rete nazionale del gas è suddivisa in tre fasce di pressione: alta, media e bassa” spiega Chiara Vianello. “Queste tre classi sono ulteriormente divise in cosiddette specie: in tutto si parla di 7 specie. Il gasdotto nazionale principale, di proprietà di Snam e che attraversa tutta l’Italia, è ad alta pressione, superiore a 24 bar, e ha diametri ampi che vanno da 40 cm a 1 metro. Man mano che la specie scende diminuisce la pressione. Nella rete locale a bassa pressione, diminuisce anche il diametro delle tubazioni, arrivando fino a 25 mm”.
Sono diversi i proprietari e i gestori della rete a media e bassa pressione che distribuiscono il gas su scala locale: tra questi Italgas, di cui 10 dipendenti risultano indagati per i fatti di Ravanusa.
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“Le tubazioni hanno caratteristiche molto differenti a seconda di quando sono state installate e di come è avvenuta la manutenzione” prosegue Vianello. “Molto spesso si parla infatti dell’invecchiamento delle tubazioni. Dopo un certo numero di anni è necessario fare ispezioni, manutenzione, ma anche cambiarle quando non risultano più adatte al trasporto del gas”.
Diversi fenomeni esterni possono indebolire la struttura della rete. “I più comuni, com’è avvenuto a Ravanusa, sono i fenomeni franosi del terreno. Anche pioggia e inondazioni possono interagire con la rete danneggiandola, è il caso della tempesta Vaia. Possono poi intervenire eventi di natura chimica legati alla sostanza che viene trasportata e che agiscono sul materiale metallico della tubazione, generando cricche o fratture che possono ingrandirsi e generare rottura e rilasci di gas”.
Un’altra causa frequente delle rotture sono gli scavi stradali, aggiunge Maschio: “Una ventina di anni fa in Belgio un’escavatrice ha tranciato una tubazione, c’è stata un’esplosione addirittura con formazione di cratere. Può sembrare banale, ma a volte non c’è un’adeguata segnalazione del passaggio delle reti. Soprattutto in ambiente urbano questa è una fonte di rischio”.
Rischi per la sicurezza e per l’ambiente
Oltre a rappresentare un rischio per la sicurezza delle persone, le perdite di gas metano dalla rete di distribuzione, dai siti di estrazione e di stoccaggio sono una notevole minaccia per l’ambiente. Il metano infatti è un gas a effetto sera decine di volte più climalterante dell’anidride carbonica e un rapporto del Programma ambientale dell’Onu (Unep) pubblicato l’anno scorso mostra che il contenimento delle emissioni di metano potrebbe far risparmiare fino a 0,3°C di riscaldamento globale nei prossimi decenni.
“Se la rete è ben fatta e la manutenzione è accurata queste perdite possono essere minimizzate” sottolinea Maschio. “Le giunzioni a causa del deterioramento delle guarnizioni possono produrre trafilamenti molto piccoli ma continui. Questo tipo di perdite sono diverse da quelle di Ravanusa, dove è stata rilevata una frattura con un rilascio molto grande. Le piccole perdite si disperdono in aria, non creano fenomeni di tipo esplosivo o di incendio, ma sono dannose per l’ambiente”.
Normalmente le società fanno controlli periodici con appositi macchinari per identificare i rilasci e se ce ne sono di elevati intervengono, spiega Vianello, ma esiste un approccio specifico, che si chiama RBI (Risk-Based Inspection), che rispetto alla manutenzione classica tenta di prevedere dove potrebbe nascere una perdita. “Bisognerebbe puntare maggiormente su approcci di prevenzione e manutenzione più spinti” commenta Maschio.
Idrogeno nella rete del gas?
La transizione ecologica rappresenta la parte più consistente dei finanziamenti provenienti dal PNRR. L’idrogeno è una delle soluzioni su cui l’Italia e l’Europa intendono investire, tuttavia diversi attori spingono per utilizzi diversi di questo vettore energetico. Snam ad esempio, con l’intento di abbattere le emissioni del settore del gas e del riscaldamento, propone di sfruttare la rete esistente del gas per distribuire idrogeno in miscela con il metano, talvolta denominato idrometano.
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“L’idrogeno non produce gas serra né tramite sua diretta emissione in ambiente, né durante la sua combustione” spiega Maschio “da questo punto di vista è un combustibile vantaggioso. Ma molto di pende da come lo produciamo”. Esistono infatti diversi modi di produrre idrogeno.
Il primo è tramite elettrolisi dell’acqua, con elettrolizzatori alimentati da energia prodotta da fonti rinnovabili, come solare o eolico: in questo caso si ha idrogeno verde. Se però l’energia elettrica che alimenta gli elettrolizzatori è prodotta da centrali a gas, l’idrogeno non è più verde. La stragrande maggioranza dell’idrogeno prodotto oggi è ottenuto dal cosiddetto steam reforming del metano, ovvero da metano e vapore acqueo: in questi casi si ottiene idrogeno detto grigio, perché il processo produce anidride carbonica. Si parla invece di idrogeno blu se l’anidride carbonica emessa viene catturata e immagazzinata in cavità geologiche nel sottosuolo con tecnologie di CCS (Carbon Capture and Storage), che tuttavia non sono molto diffuse e presentano una serie di difficoltà non ancora risolte.
“Dal punto di vista della sicurezza le caratteristiche dell’idrogeno sono molto diverse dal metano” spiega Maschio. “Il progetto di Snam probabilmente intende trasportare non più del 10% di idrogeno in miscela con il metano. Anche il nostro gruppo di ricerca è tra quelli che hanno compiuto degli studi, insieme ai Vigili del Fuoco, per sviluppare delle regole tecniche. Il quadro incidentale non cambierebbe molto per quanto riguarda il gasdotto nazionale, che è molto monitorato”.
Le cose però cambiano ad altri livelli della rete: “l’idrogeno con gli acciai ha il problema della decarburazione [un processo di corrosione selettiva, ndr]. Bisognerebbe capire le altre reti quando e come sono state fatte. L’esempio di Ravanusa ci dice che ci sono ancora tratti di tubazioni in ghisa, un materiale che potrebbe venire attaccato dall’idrogeno. E maggiore è la percentuale di idrogeno più questo fenomeno può diventare rilevante”.
Inoltre, l’idrogeno ha anche un’elevata reattività chimica. “In miscela con l’aria, l’idrogeno ha intervalli di infiammabilità ed esplosività molto ampi, esplode in quasi tutte le composizioni, mentre il metano ha un campo più ridotto. Occorre perciò fare una valutazione del rischio molto approfondita”.
“Il messaggio che tento di portare avanti non solo nelle pubblicazioni scientifiche ma anche a livello degli organi di controllo, come la Commissione Grandi Rischi di cui faccio parte, è quello di prestare attenzione anche ai rischi emergenti” conclude Giuseppe Maschio. “Spesso si confonde una tecnologia verde con una tecnologia sicura. Ma proprio ora che ci sono finanziamenti molto grandi in arrivo sarebbe importante associare un’analisi del rischio seria e approfondita allo sviluppo dei nuovi progetti. Questo sarebbe un modo virtuoso di affrontare il problema, così si rendono efficaci le misure di previsione e prevenzione. Altrimenti rischiamo di fare progetti innovativi e solo troppo tardi accorgerci che c’è un problema di gestione del rischio: sarebbe come mettere una toppa sul vestito nuovo”.