SOCIETÀ
Republika Srpska: così Mosca ha innescato una mina nei Balcani
Una veduta del centro storio di Sarajevo
La Russia ha colpito in Ucraina, ma il conflitto ha accelerato le tensioni nei Balcani occidentali, soprattutto in Bosnia-Erzegovina. Una simmetria allarmante, per nulla casuale. Dopo vent’anni d’instabilità e incertezza, e a trent’anni dallo scoppio della guerra in Bosnia (la prima in Europa dal 1945) le spinte secessioniste della componente serba, incoraggiate da Mosca, sembrano voler innescare una rottura definitiva che secondo molti potrebbe portare a nuovi conflitti nella zona.
La Bosnia-Erzegovina contemporanea nasce con gli accordi di Dayton del 1995, “una difficile pace raggiunta sulle macerie di una guerra costata tre anni e mezzo di combattimenti, centomila morti, un milione di rifugiati e il massacro di oltre ottomila musulmani bosniaci a Srebrenica”: così l’ex ambasciatore italiano in Kosovo, Michael Giffoni. Il quale aggiunge che con la creazione della Bosnia-Erzegovina “si è passati dall’inferno della guerra a una pace fredda, paralizzante, perché la creazione dello stato unitario non è stata facile e non si può dire effettiva”. Il peccato originale di Dayton è stato quello di tracciare confini interni sulla base delle conquiste ottenute dai serbo bosniaci con la pulizia etnica. Anche il processo d’integrazione nell’Ue, il quale era stato considerato come la chiave di volta per la pace, la via maestra per il progresso e la stabilizzazione dei Balcani, è al momento congelato se non di fatto archiviato. Ci quindi troviamo davanti a una “pace imperfetta, a un dopoguerra infinito, in uno Stato fragile e incompiuto”, spiega l’ex ambasciatore.
C’è una miccia innescata da tempo: il costante sabotaggio politico e istituzionale da parte della Republika Srpska, una delle due entità che compongono la Bosnia-Erzegovina – l’altra è la federazione Croato-Bosniaca. Una strategia di logoramento affiancata dalla crescente minaccia secessionista. L’escalation porta la firma di Milorad Dodik, soprannominato “il piccolo Putin dei Balcani”, leader dei serbo bosniaci al potere dal 2006, sia pure con diversi ruoli. Al momento Dodik è membro serbo della presidenza tripartitica della Bosnia-Erzegovina: la posizione ideale per mandare in cortocircuito le istituzioni dall’interno.
La crisi è precipitata a partire da Luglio 2021 con un crescendo di dichiarazioni di Dodik, tutte a sottintendere la volontà di porre fine allo Stato unitario nato a Dayton. Non si tratta solo parole, bensì soprattutto di una serie di proposte legislative destabilizzanti su temi sensibili come sicurezza, esercito, servizi segreti e istruzione, con lo scopo di creare i presupposti di una secessione di fatto anche se non de iure.
In questo contesto è arrivata l’invasione dell’Ucraina da parte russa. Le ripercussioni sulla situazione bosniaca sono state subito evidenti, dato lo stretto rapporto tra Russia e Republika Srpska, e soprattutto tra Vladimir Putin e Milorad Dodik. La Russia ha sempre sostenuto le aspirazioni secessioniste e autonomiste dell’esponente serbo bosniaco, che ha compiuto un viaggio a Mosca nel novembre 2021 dichiarando che Putin aveva offerto massimo sostegno a quelle che erano le sue aspirazioni e anche alle sue minacce, come quella di ritirare le delegazioni serbe dalle istituzioni comuni a Sarajevo. “Questo ovviamente non significa che ci sia un pericolo di guerra immediato, nel senso di un nuovo conflitto etnico – specifica l’ex ambasciatore –. È tuttavia evidente un inasprimento della conflittualità interna alla Bosnia-Erzegovina”.
Dodik rivendica una stretta vicinanza a Mosca, esibisce addirittura un ruolo, non è chiaro quanto corrisposto al Cremlino, di vero e proprio alleato con la Russia. Bisogna tener presente che la Bosnia-Erzegovina ha votato a favore della risoluzione di condanna dell’azione russa, però non ha potuto formulare ufficialmente la sua posizione a causa delle opposizioni di Dodik. Sarajevo, per accogliere le richieste di Bruxelles, ha accettato l’invito a condannare verbalmente le azioni russe, però allo stesso tempo non ha potuto avviare sanzioni economiche nei confronti della Russia, come hanno fatto tutti i Paesi Ue e dei Balcani, fatta eccezione per la Serbia, l’alleato principale e storico di Mosca nei Balcani e appunto della Republika Srpska. A confermare questa situazione il 13 giugno 2022, in piena guerra d’Ucraina, Dodik ha fatto visita a Putin, per rinnovargli il suo sostegno.
“La crisi che sta vivendo la Bosnia-Erzegovina a causa delle minacce separatiste di Milorad Dodik è diversa da quelle passate”, dichiara Giffoni. Cruciale per capire l’intensità del pericolo è il recente rifiuto da parte della Republika Srpska di adeguarsi a una normativa anti-negazionista, che aveva come scopo quello di punire severamente coloro che negavano gli avvenimenti di Srebrenica o che inneggiavano ai criminali di guerra. A seguito di questa mancata accettazione Dodik era andato oltre, disponendo il ritiro dei membri serbi delle istituzioni comuni: un vero e proprio boicottaggio. Nel 2021 abbiamo un’escalation di richieste: Dodik ha rivendicato un sistema giudiziario autonomo, indipendenza fiscale e un diverso sistema d’insegnamento, collegato a quello di Belgrado. Ma i serbo bosniaci sono andati ben oltre, toccando nervi scoperti: hanno prospettato la creazione di un proprio esercito, la cosiddetta Armija della Republika Srpska, di fatto erede di quella che 30 anni fa avviò la pulizia etnica e il genocidio di Srebrenica. Un campanello d’allarme per tutte le cancellerie occidentali ma anche per la popolazione, che ben conosce quali conseguenze possono innescare tali decisioni in una terra dove sono ancora aperte le ferite della guerra civile. La differenza è nel tono e nella sostanza, perché queste richieste si sono concretizzate nelle proposte di legge presentate da Dodik. Questo ha concatenato pesanti reazioni interne in un sistema istituzionale già in cortocircuito, che non riesce a varare la riforma costituzionale con la quale si vorrebbe andare oltre il principio della rappresentanza etnica. Riportando le parole dell’ex ambasciatore “Tutto questo, le proposte di legge di Dodik e la pretesa di un esercito indipendente, ha creato una vera e propria miscela esplosiva. Ecco perché la situazione è più pericolosa di quella degli anni precedenti, o per lo meno come tale viene percepita”.
Ancora oggi i sentimenti separatisti della Republika Srpska fanno leva su una pace che non è mai stata davvero tale, quanto piuttosto una tregua: “Una parentesi tra due guerre” fu la definizione dell’allora presidente sloveno Milan Kučan commentando gli accordi di Dayton. Una sorta di cessate il fuoco perché il livello di sofferenza era troppo alto. Secondo Giffoni il sistema di Dayton avrebbe potuto avere successo solo se si fosse riusciti a passare da una fase di democratizzazione e di cooperazione economico-commerciale a quella di un processo graduale di riconciliazione. L’incapacità da parte serbo-bosniaca di accettare il genocidio di Srebrenica in senso catartico, come fecero i tedeschi con l’Olocausto, ma al contrario sostenendo una narrazione negazionista, non ha permesso di introdurre quell’elemento di rappacificamento necessario per un’unione statale effettiva.
L’Unione Europea, racconta Giffoni, di fronte alle provocazioni secessioniste di Dodik “sta reagendo con un approccio minimalista, basato sul tentativo di accontentare sia i serbo-bosniaci che i croati, facendo una riforma elettorale che sarà inutile e senza affrontare i problemi della funzionalità dello Stato centrale, che può essere concretamente raggiunta solo se si esce dalla gabbia etnica”. Servirebbe affrontare quelli che sono i problemi di fondo, velocizzare, o meglio lavorare concretamente su quello che è il processo di integrazione europea della Bosnia-Erzegovina, cercando di non perdere quel legame sempre più sottile che c’è tra Bruxelles e Sarajevo e che oggi viene sempre più rimpiazzato da altri attori, quali la Turchia e la Russia.
Come afferma Semir Mujkić, managing editor della Balkan Investigative Reporting Network, “la maggior parte della popolazione della Bosnia-Erzegovina vuole aderire all’Unione Europea ma i cittadini bosniaci, in particolare i giovani, influenzati dall’euroscetticismo causato in particolare dalla crisi del 2008, hanno perso la speranza di un futuro migliore con l’ingresso dell’UE. L’euroscetticismo però non è ancora diventato maggioritario, e non si è trasformato in un’accettazione dello status quo. Gli unici che intendono mantenere lo status quo sono coloro che vogliono rimanere al potere, conservandone tutti i privilegi”. Anche perché con l’ingresso nell’UE dovrebbero adottare un tipo di democrazia più trasparente, che metterebbe in luce la corruzione dilagante nel Paese.
Per contrastare la minaccia secessionista l’Unione Europea ha recentemente aumentato di 500 unità le forze di polizia della missione Eufor, presente dal 2004. Per Josep Borrell, Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, questo atto dimostra “la determinazione” dell’UE a preservare “l’integrità territoriale e la sovranità della Bosnia Erzegovina”.
Matteo Gravina, analista geopolitico Isg (Italia Strategic Governance) crede che questa non sia la strategia adatta per risolvere i problemi strutturali del Paese, nonostante possa certamente avere un effetto deterrente. Sul piano economico Usa e Regno Unito hanno sanzionato il leader separatista Dodik e il suo entourage, sanzioni che però non hanno avuto particolare effetto perché entrambi non hanno un legame economico particolarmente forte con la Republika Srpska. Di sicuro sanzioni imposte da Bruxelles sarebbero state più efficaci, ma l’UE si è dovuta scontrare con l’opposizione ungherese e le sanzioni non sono state applicate.
“Più che l’Ue sono i singoli Stati a poter agire per contribuire a migliore la situazione in Bosnia ed Erzegovina, almeno dal punto di vista economico – sostiene Gravina –. Una possibilità sarebbe quella di investire, portare le catene del valore lì in Bosnia piuttosto che in Asia, creando quindi lavoro nei Balcani. Considerato anche il calo demografico che caratterizza la Bosnia, che entro il 2050, stando ai dati annuali di spopolamento, rischia di rimanere una terra senza popolo. Bisogna inoltre considerare che la Bosnia ed Erzegovina vive di aiuti internazionali, provenienti in particolare dall’Unione Europea: sanzionandola quindi l’UE andrebbe a colpire sé stessa. Gli strumenti di pressione positiva però non sono in mano all’UE ma ai singoli Stati membri che hanno un interesse diretto nel paese: Germania, Austria e la stessa Italia”.
Inoltre è interessante notare, ora che c’è la guerra in Ucraina e che si parla di fare entrare quest’ultima nell’Ue, che nessuno degli Stati Balcani si è per or detto contrario: “nessuno ha dimostrato astio nei confronti di questa possibilità, molti anzi l’hanno considerata come un’ipotesi positiva”, dichiara l’analista geopolitico. Tempo addietro si diceva che i Paesi dei Balcani non erano pronti a entrare nell’Unione Europea; oggi i cittadini di questi Paesi, che dagli anni ‘90 hanno fatto progressi in diversi ambiti, sono ben consapevoli che è l’Unione che non è più pronta ad accoglierli: hanno percepito questo cambiamento e di conseguenza non credono più come prima nel progetto europeo.
In conclusione la Republika Srpska è una mina pronta ad esplodere in Europa. L’immobilità dell’Unione europea e l’attivismo di Mosca potrebbero innescare una crisi che segnerebbe la fine dell’equilibrio, per quanto instabile, che ha retto finora in Bosnia-Erzegovina dopo il trattato di Dayton. Un cambiamento nel travagliato Stato è necessario, ma senza un aiuto concreto da parte dell’UE le sue conseguenze potrebbero essere caotiche se non catastrofiche.
Il Bo Live ospita una serie di articoli scritti dai partecipanti al laboratorio di giornalismo sulla crisi ucraina, organizzato da Elena Calandri nell’ambito del corso di laurea magistrale in Relazioni internazionali e diplomazia (Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali) sotto la supervisione di Marzio G. Mian.