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Siamo quello che mangiamo, ma anche quel che respiriamo e tocchiamo: insomma, tutto ciò con cui interagiamo ha un impatto sul nostro essere. In che modo? Attraverso il continuo scambio di microrganismi che modificano, talvolta arricchendolo, il nostro microbiota, quell’amplissimo insieme di organismi invisibili all’occhio di cui noi siamo l’ecosistema ospitante.
È ormai noto che il microbiota – intestinale, orale, cutaneo – sia centrale per la salute del corpo umano. Anni di ricerche hanno dimostrato, ad esempio, che il microbiota intestinale influisce sul sistema immunitario, sulla salute mentale e perfino sulla regolazione dell’umore e delle emozioni. Ma, come tutti gli ecosistemi del pianeta, anche questo ricco e complesso insieme di organismi ha bisogno, per mantenere un equilibrio dinamico, di preservare la propria biodiversità.
Una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica PNAS e condotta da un gruppo internazionale e interdisciplinare di studiosi sottolinea un fattore ubiquitario, ma spesso ignorato, che influisce in modo profondo sulla composizione e la varietà del nostro microbiota: la strutturazione dell’ambiente urbano. Noi esseri umani siamo al tempo stesso ecosistemi per miliardi di batteri e individui all’interno di ecosistemi più ampi, composti da elementi viventi (biotici) e non viventi (abiotici).
In quest’ultima veste, la nostra specie ha (come molti altri animali) la particolarità di interagire con il proprio ambiente modificandolo attivamente in modo da renderlo più accogliente, più adatto a soddisfare i propri bisogni. Nel corso dei millenni, quest’attività (propria non solo degli umani ma anche di molte altre specie e definita dai biologi ‘costruzione di nicchia’) ha fatto sì che gli ambienti nei quali gli umani si muovono fossero sempre meno ‘naturali’ e sempre più ‘costruiti’, con conseguenze inaspettate anche sulla salute.
Senza microbi è meglio?
Come spiegano gli autori dello studio, con l’urbanizzazione abbiamo fatto di tutto per escludere i microbi dalle nostre case: “Il nostro attuale ambiente urbano ci isola sempre più dai microbi degli ambienti ‘naturali’, tra cui solo pochissimi (<0,00001%) sono patogeni per l’uomo”. Questa crescente separazione dall’ecosistema naturale (e soprattutto dalla sua componente microscopica) ha avuto un impatto sostanziale – sottolineano i ricercatori – sul benessere fisico e mentale degli esseri umani. Poiché, come è ormai noto, la nostra salute dipende (anche) da un microbiota ricco in biodiversità, la progressiva eliminazione delle condizioni necessarie affinché questa biodiversità sia mantenuta può condurre a seri rischi per la salute. “L’invenzione dell’ambiente urbano – si legge ancora nella ricerca apparsa su PNAS – ha aumentato la nostra aspettativa di vita, ma ha allo stesso tempo creato le condizioni per diverse malattie rendendo disponibili nuove nicchie per vettori di infezioni e agenti patogeni, concentrando materiali tossici e rifiuti e riducendo la ventilazione e l’esposizione alla luce solare”. Tutto questo ha alterato profondamente la circolazione dei microbi all’interno delle comunità umane e tra queste e gli animali e le piante addomesticate.
Le conseguenze di questo radicale cambiamento ecologico sulla salute umana sono evidenziate, oggi, dall’epidemiologia, che ha dimostrato l’esistenza di un legame diretto tra la ridotta biodiversità del microbiota umano e la crescente diffusione di malattie croniche come il diabete, la sindrome metabolica e le malattie respiratorie. L’ambiente urbano è diventato per gli umani quasi una seconda pelle, svolgendo una funzione di separazione dall’ambiente esterno e di selezione degli organismi che hanno il ‘permesso’ di passare oltre questa barriera. Nel corso del tempo, tuttavia, la zona di comunicazione e scambio tra interno ed esterno si è progressivamente ridotta, il che ha determinato effetti collaterali inattesi.
Per minimizzare i rischi alla salute causati dall’esclusione dei microbi dalla nostra vita, è necessario innanzitutto correggere il modo in cui pensiamo a noi stessi: non siamo individui, ma siamo – all’esterno come all’interno del nostro corpo – comunità, e la nostra salute dipende dal benessere degli ecosistemi di cui facciamo parte.
How does the built environment shape our microbiomes?
— Prof. Meghan Azad, PhD (@MeghanAzad) April 25, 2024
New paper coauthored with my @CIFAR_News #microbiome colleagues... and architects! Super fun collaboration across disciplines.https://t.co/32KtBdCfa1 pic.twitter.com/T8UDaVqZww
Rinaturalizzare gli spazi chiusi
Questo si traduce, sul piano pratico, in diverse soluzioni da implementare. In primo luogo, gli autori sottolineano la necessità di ripensare il modo in cui costruiamo gli spazi chiusi nei quali, oggi, passiamo in media il 90% del nostro tempo (nei Paesi industrializzati). Bisognerebbe rendere questi spazi chiusi meno impenetrabili, più aperti all’esterno e ‘porosi’. Insomma, va realizzato un vero e proprio rewilding degli spazi interni, aumentandone scientemente la diversità microbica. Per promuovere la salute degli umani non serve creare luoghi che ci proteggano dai microbi, ma luoghi che favoriscano l’esposizione ad essi: “Dovremmo ottimizzare i nostri ambienti urbani prendendo in considerazione le comunità microbiche che vivono in essi e trattandole come ‘coabitanti collaborativi’. Inoltre, suggeriscono ancora i ricercatori, “dovremmo ‘naturalizzare’ gli ambienti urbani, ad esempio reintroducendo terra e piante, usando materiali da costruzione meno tossici e optando per allestimenti meno impenetrabili”.
Come abbiamo detto, non siamo gli unici animali che costruiscono la propria nicchia ecologica: nidi, dighe, tunnel, alveari sono tutte forme di ‘ambiente costruito’; vengono considerate parte del fenotipo esteso degli individui che le costruiscono, dal momento che esse contribuiscono a favorirne o svantaggiarne la sopravvivenza e la riproduzione. Anche per noi umani sarebbe il caso di considerare questa stretta relazione con l’ambiente – più o meno alterato – nel quale viviamo, integrando una visione di breve termine anche con una prospettiva evolutiva.
Per adattarci a un mondo in rapido cambiamento, e capire in che modo possiamo rispondere al meglio alle nuove sfide che noi stessi, con le nostre attività di modificazione, abbiamo iniziato, dobbiamo innanzitutto imparare che la nostra salute dipende dal buon funzionamento e dal benessere dell’ecosistema in cui ogni individuo vive, e che è necessario preservare la ‘complessità multiorganismo’, dal microscopico al macroscopico, della quale ogni ecosistema si compone. Dunque, “costruire ambienti urbani tenendo in considerazione il microbiota è una delle grandi sfide del ventunesimo secolo, che può aprire opportunità per affrontare i temi di giustizia sociale e ambientale in una prospettiva ecologica e di One Health”.