“In questo hotel non vengono serviti alcolici”. Un istante prima di selezionare il “prenota”, l’occhio cade su una dicitura minuscola, ultimissima tra le informazioni sull’albergo. E la curiosità del viaggiatore si infiamma: non per lo sgomento all’idea di rinunciare a un doppio malto davanti al caminetto (il turista in questione è astemio), quanto per il luogo e il contesto della proibizione. La struttura fa parte di una catena internazionale, si rivolge, in apparenza, a un pubblico indifferenziato, non fa parte di un circuito di resort riabilitativi per star hollywoodiane. E non siamo in una città sacra saudita o iraniana, ma nel cuore turistico della ex cosmopolita Istanbul: la meravigliosa Sultanahmet, la città antica della sponda europea, di cui visitatori da tutto il mondo ammirano monumenti come Santa Sofia, la Moschea Blu, il Topkapi. Ma la metropoli “laica”, cuore politico e culturale della rivoluzione di Atatürk, oggi si inchina alla nuova presenza, perfettamente in linea con la vocazione odierna: il turismo halal, l’insieme di servizi “islamicamente corretti” rivolti ai viaggiatori musulmani. In tutta la Turchia le strutture ricettive halal non superano il 5% del totale degli alberghi, ma è prevedibile che il loro numero cresca impetuosamente, perché, come vedremo, aumenta sempre più la domanda da parte di questo importantissimo target. Non è solo l’assenza di alcolici a connotare un hotel halal: sono molte le caratteristiche richieste. Si va da aree specifiche per lavacri rituali e preghiere all’accesso a Internet con filtri che escludono certi siti web, dall’abbigliamento non vistoso del personale femminile all’orientamento dei bagni in direzione diversa dalla Mecca. Ci sono piscine separate per sessi, o spiagge distinte, nel caso dei resort marini, in cui le donne possono indossare costumi come il burkini. Nel 2017 in Turchia è stata istituita la Halal Accreditation Authority, l’ente autorizzato a certificare le strutture turistiche halal.
La rivoluzione nell’offerta turistica che sta vivendo la nazione non è un caso: è uno dei tanti volti dell’islamizzazione impressa da Erdoğan nei sedici anni alla guida del Paese. Istanbul, certo, rimane un centro internazionale e multiculturale, con ampie fasce sociali che chiedono democrazia e laicità: prova ne siano le recentissime elezioni per i sindaci, che a Istanbul hanno visto la vittoria (di strettissima misura) di Ekrem İmamoğlu del partito di opposizione CHP, secolare e di centrosinistra, fondato da Atatürk. Un fatto che, unito alla vittoria ad Ankara di un altro sindaco del CHP, moltissimi osservatori hanno valutato come segnale di insoddisfazione e cambiamento verso l’uomo forte della Turchia. Ma Erdoğan non si rassegnerà facilmente a perdere la città dove ha costruito la sua fortuna politica: è stato sindaco di Istanbul dal ’94 al ’98, fino a che il Partito del Benessere, cui allora aderiva, venne dichiarato incostituzionale, e lui fu incarcerato per incitamento all’odio religioso e costretto alle dimissioni. Di lì la rapida ascesa al potere, con la fondazione del partito Giustizia e Sviluppo (AK), la vittoria e l’incarico di primo ministro nel 2003. Sulla città simbolo della Turchia, Erdoğan non mollerà: non per nulla il partito AK ha prima chiesto il riconteggio dei voti, poi la ripetizione dell’intera votazione per il sindaco di Istanbul.
Interpretare i segnali che vengono dalle elezioni turche è complesso. La controalleanza di opposizione tra CHP e il partito laico conservatore IYI ha funzionato. Ma resta difficile ipotizzare una rivolta di massa contro un uomo che per lustri ha goduto di un favore popolare ininterrotto, accompagnato, fino a tempi recenti, da un forte progresso economico del Paese. Nel computo totale dei voti nazionali, l’AK di Erdoğan e il suo alleato MHP hanno mantenuto la maggioranza assoluta, anche se di poco. Certo, la gelata dell’economia ha pesato, e non poco, con la crisi della valuta turca e la disoccupazione che ha raggiunto il 14% (quella giovanile il 24%). Ma la Turchia, e la stessa Istanbul così vicina all’Europa, sono radicalmente cambiate rispetto a ciò che rappresentavano fino a pochi anni fa, e il fallito colpo di Stato del 2016 non ha che rafforzato l’autoritarismo del presidente, divenuto dal 2017 capo della nuova repubblica presidenziale dopo la risicata affermazione nel referendum costituzionale. Dei tanti aspetti dell’islamizzazione a marce forzate impressa da Erdoğan (il ritorno del velo come simbolo antilaico, i riferimenti al martirio e alla jihad, la progressiva, abile erosione del mito di Atatürk), il dato più impressionante è quello relativo alle scuole religiose İmam Hatip, di cui è stato alunno lo stesso Erdoğan: oggi sono oltre 4.000 in tutta la Turchia, contro le poche centinaia che si contavano fino al 2012, quando l’educazione religiosa, istituita in origine per i ragazzi dai 14 ai 18 anni, è stata estesa anche agli allievi dai 10 ai 14 anni. Così gli alunni delle scuole religiose, che fino a una decina di anni fa erano il 4% di tutti gli studenti della stessa fascia di età, ora superano l’11%. È un investimento cruciale per il governo: per l’anno 2018, il budget a studente messo a disposizione per gli istituti religiosi della fascia 14-18 anni è stato il doppio di quello stanziato per le corrispondenti scuole pubbliche.
Uno dei tanti segnali della svolta impressa da Erdoğan alla Turchia è proprio nei volti dei milioni di visitatori che affollano Istanbul. Sultanahmet è sempre meno simbolo di integrazione, e alle famigliole nordiche in polo e pantaloncini si stanno sostituendo, progressivamente, i gruppi organizzati provenienti dalle nuove frontiere del turismo halal: si vedono di continuo pullman da cui scendono comitive di donne in velo integrale, specchio di un turismo che occhieggia il radicalismo e le sue enormi potenzialità economiche, un giacimento tutto da sfruttare. Nella generale ascesa del numero dei visitatori, tornato ai livelli precedenti l’ondata di attentati iniziata nel 2015, si registra il boom degli arrivi dal Medio Oriente. Qualche esempio: nel 2017 dall’Iran sono giunti oltre due milioni e mezzo di turisti, più 47% rispetto a due anni prima. Dall’Azerbaigian più di 765mila, con un aumento del 27%. Dall’Arabia Saudita circa 651mila, più 44%. Nello stesso periodo, gli arrivi dalla Germania sono crollati a poco più di tre milioni e mezzo, con un calo di oltre un terzo sul 2015. E i britannici sono precipitati a circa 1.650.000, un decremento del 34%. Una tendenza non intaccata dai dati del 2018, che pure ha visto un incremento degli occidentali e il record complessivo di ingressi: a fronte di un aumento medio di arrivi del 21,8% sul 2017, si segnalano dati come il balzo dell’Iraq, i cui ingressi sono triplicati in due anni, e che con quasi 1.200.000 arrivi nel 2018 diventa l’ottavo Paese più rappresentato. Secondo l’ultimo rapporto della Thomson Reuters sull’economia islamica, la Turchia oggi è il nono Paese del mondo per fatturato del turismo halal.
L’altra immagine rappresentativa, nella Turchia di Erdoğan, è il proliferare delle moschee. E Istanbul è capofila di questa tendenza. Ne sono simbolo tre luoghi: la smisurata Çamlıca, inaugurata nel 2016 sulla sponda asiatica e ancora in fase di completamento, capace di 66.000 fedeli. La grande moschea che sta per essere ultimata in piazza Taksim, il centro simbolico della Turchia laica, dominato dal monumento ad Atatürk e dalla memoria delle proteste antigovernative dei giovani di Gezi Park nel 2013. E il monumento più famoso della Turchia, Santa Sofia, l’antica cattedrale cristiana convertita in moschea e trasformata poi da Atatürk in un museo aperto a visitatori e fedi da tutto il mondo. Durante l’ultima campagna elettorale, il presidente ha dichiarato di volerla riportare a luogo di culto per gli islamici, assecondando un movimento che ha portato, negli anni recenti, a iniziative di rottura, come la recitazione del Corano all’interno dell’edificio durante il Ramadan. Può anche darsi che il fascino autoritario di Erdoğan sia meno sfavillante di un tempo. Ma il ricordo di Atatürk, nella Turchia di oggi, è oscurato dai minareti.