CULTURA

Sanguinare nel deserto del reale

“L'idea per il libro era piuttosto semplice: avevo queste centinaia di saggi e articoli scritti negli anni e ho pensato che forse avrei dovuto farci qualcosa”. Elvia Wilk risponde così alla classica domanda su come sia nato il suo ultimo libro da poco tradotto in italiano da Add Editore. E nel mettere insieme il puzzle di anni di scrittura sparsa su riviste, blog e siti web emerge qualcosa: “ti rendi conto che hai detto la stessa cosa per dieci anni”. Sarà anche un’esperienza comune, come suggerisce la scrittrice americana, ma da quella scintilla iniziale lei parte per un processo di selezione attentissimo, molto più esigente di quanto avesse pensato all’inizio, e fa praticamente una totale riscrittura. Il risultato è Narrazioni dell’estinzione, un libro che attraverso la riflessione sulla narrazione in realtà indaga in profondità il rapporto che abbiamo con ciò che ci circonda e sul nostro stare al mondo.

La questione delle climate fiction

Volendo, il libro che Wilk presenta al Salone del Libro di Torino di quest’anno, è una delle risposte, la sua risposta, alla domanda che Amitav Ghosh ha lanciato qualche anno fa con il suo saggio La grande cecità: come è possibile che la crisi climatica sia così negletta dagli scrittori attuali? Ma l’intento di Wilk non era quello di replicare direttamente a Ghosh. È piuttosto successo che gli scritti di Wilk fossero punti interrogativi sul rapporto con la natura, il femminismo, la tensione tra distopia e utopia, tra immaginazione e senso di realtà.

Certo, il ruolo del saggio di Ghosh nel puntare i riflettori sulla rimozione della crisi climatica nei romanzi degli ultimi anni, soprattutto nell’ambito più letterario e lontano dalla narrativa di genere (con le dovute eccezioni) è stato rilevante. Il punto, per Wilk, è che il mondo è cambiato e non è necessario che chi scrive scelga deliberatamente il cambiamento climatico come tema. “Ma oggi quando gli scrittori menzionano disinvoltamente il meteo nella loro narrativa realista, non sembra più un aspetto così arbitrario o innocente”, commenta. “Per esempio, se dici che la primavera è arrivata in anticipo, non riesco a leggerlo come se niente fosse: il fatto che la primavera è arrivata in anticipo è un po' spaventoso”. La crisi climatica è già dentro alla narrazione contemporanea perché, anche se non ce l’ha volontariamente messa chi scrive, può percepirne gli effetti chi legge.

Oggi quando gli scrittori menzionano disinvoltamente il meteo nella loro narrativa realista, non sembra più un aspetto così arbitrario o innocente Elvia Wilk

Rispetto alla chiamata alle armi di Ghosh, inoltre, Wilk sottolinea un altro aspetto che nella lettura mainstream dell’argomento viene lasciata un po’ in disparte. L’autore indiano, ci dice, ha avuto il merito di aprire una discussione sui difetti del romanzo d’oggi. “Ma io parlerei dei difetti del romanzo realista borghese”. Il riferimento è alla classica distinzione tra cultura (letteratura) alta e bassa che è stata messa in discussione da qualche decennio, ma che continua a farsi sentire. Per esempio, sottolinea Wilk, “uno scrittore come Stanley Robinson hanno scritto grandi cose sul clima negli ultimi quarant’anni”, molto prima quindi della sveglia di Ghosh. Ma i romanzi di climate fiction di Kim Stanley Robinson, per lungo tempo, non venivano presi in considerazione nei circoli letterari più importanti, bollati come narrativa di genere. In fondo, si può argomentare, anche “il realismo è un genere come tutti gli altri. Lo diceva Mark Fisher: il realismo è una costruzione, ed è privo di senso affermare che è più vicino alla realtà degli altri”.

La prima parte di Narrazioni dell’estinzione è una piccola mappa geografica delle scritture che negli ultimi decenni hanno indagato il rapporto tra l’umanità, spesso più delle donne che degli uomini, con la natura. Tornando al romanzo realista, per esempio, Wilk fa notare a chi legge che la maggior parte dei romanzi più importanti in questo settore, che incidentalmente sono anche i romanzi più importanti del mainstream narrativo occidentale, è costruito sulla distanza che esiste tra protagonista (solitamente maschio etero bianco borghese) e uno sfondo sul quale avvengono i fatti. Oggi, soprattutto la crisi climatica, ma non solo, spinge lo sfondo a diventare parte della narrazione: non può rimanere passivo e inerte, ma ha un ruolo attivo. “Che ne siano consapevoli o meno, [scrittori e scrittrici] non possono fare a meno di scrivere fiction in cui quel mondo [immaginato] è il contenitore delle loro preoccupazioni”.

Di giochi di ruolo e immaginari

Uno dei saggi più interessanti, uno dei contributi che indaga il rapporto tra reale e immaginato, si trova nella terza parte e racconta, come una sorta di cronaca sul campo, l’esperienza dell’autrice in un LARP (Live Action Role-Playing), un gioco di ruolo dal vivo. In questi giochi, un gruppo di persone si ritrova in un luogo convenuto e allestito per rendere l’esperienza il più coinvolgente possibile. Qui, per un certo numero di ore, interpretano il ruolo che è stato loro assegnato. C’è, quindi, un’organizzazione che prepara una specie di copione sul quale chi partecipa si muovo interpretando un personaggio. Nel caso della notte descritta da Wilk, l’ambientazione era una festa di vampiri in cui si sarebbero svolte diverse trame.

L’esperienza del larping, del gioco di ruolo dal vivo, è per Wilk l’occasione di sperimentare una certa confusione su che cosa voleva in un determinato frangente. Si chiede se è lei che fa una scelta secondo i propri desideri e i propri valori o se non sia il personaggio che interpreta a decidere per lei. Riflessione di per sé stimolante, ma che moltiplica la propria forza quando Wilk si rende conto che alcune delle cose che ha pensato e sentito durante il gioco “colano” nella realtà. In inglese si usa il termine “bleed”, sanguinare, ma che indica anche qualcosa che viene stampato in modo che sbordi dalla pagina. La narrativa “alta”, soprattutto quello che possiamo chiamare il romanzo realista borghese, ma anche noi in diverse occasioni ci adoperiamo per tenere separato ciò che reputiamo reale da ciò che reputiamo immaginato. Ma ciononostante, l’immaginario sembra sempre colare almeno un po’ dentro al reale.

Il realismo è un genere come tutti gli altri Elvia Wilk

Nel 2002 il filosofo sloveno-statunitense Slavoj Žižek ha pubblicato un libro a caldo sull’11 settembre. Il titolo era una citazione dal film Matrix del 1999: Benvenuti nel deserto del reale. I temi di Matrix, così come del libro di Žižek, sono proprio quelli della difficoltà di distinguere realtà da immaginato. Nel libro, il filosofo suggeriva una interpretazione basata sulla psicoanalisi lacaniana dell’11 settembre come una reificazione di una paura di essere attaccati sul proprio territorio che gli stessi americani avevano da decenni. Secondo Žižek questa paura traspariva inconsciamente nella sterminata produzione di disaster movies che, stirando la propria ipotesi fino all’estremo, avrebbe fornito un immaginario anche per gli attentatori.

Conducendo un parallelo con il bleed del larping, verrebbe da dire che le paure immaginate nel gioco della fantascienza catastrofista hanno percolato nella realtà, creando un cortocircuito che ha fatto saltare la distinzione reale/immaginato. Lo stesso si può forse dire della pandemia, che ha messo l’umanità di fronte alla reificazione di una delle sue paure immaginate: il virus mortale. Ma forse l’aspetto più interessante delle riflessioni di Wilk su questo tema non è il ribadire che l’immaginario ha una dirompente forza di indirizzamento della società, quanto segnalarci che oggi non si può raccontare del mondo, da qualsiasi punto di vista, rimanendo all’interno del recinto borghese occidentale: per quanto li vogliamo ignorare crisi climatica, decolonizzazione, femminismi sono elementi che continueranno a percolare nella nostra realtà e nelle narrazioni, e viceversa.

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