CULTURA

Sciascia contro la scienza

In un articolo pubblicato su La Stampa il 24 dicembre 1975, Leonardo Sciascia fa ricorso alle parole di Albert Camus per spiegare i motivi che lo hanno spinto a scrivere di Ettore Majorana: «Vivere contro un muro, è vita da cani. Ebbene, gli uomini della mia generazione e di quella che entra oggi nelle fabbriche e nelle facoltà, hanno vissuto e vivono sempre più come cani». A quelle parole di Camus, però, il romanziere di Racalmuto aggiunge una chiosa: «Grazie anche alla scienza, grazie soprattutto alla scienza». Insomma, La scomparsa di Majorana, il libro più citato e osannato ogni volta che si parla di rapporti fra scienza e letteratura, sembra paradossalmente nascere proprio contro la scienza e la ragione scientifica.

Quando la conversazione cadde sulla bomba atomica, Segrè, che era stato uno dei «ragazzi di via Panisperna», si vantò di aver partecipato al Progetto Manhattan

In effetti, la diffidenza del romanziere di Racalmuto nei confronti della scienza veniva da lontano. Si racconta che una sera dell’inizio degli anni Sessanta Sciascia stava cenando in un ristorante romano con Alberto Moravia e il premio Nobel Emilio Segrè. Quando la conversazione cadde sulla bomba atomica, Segrè, che era stato uno dei «ragazzi di via Panisperna», si vantò di aver partecipato al Progetto Manhattan. Sciascia lo insultò pesantemente e tentò persino di aggredirlo, tanto che Moravia dovette trattenerlo. «È durante questo incidente» scrive il cosmologo João Magueijo ne La particella mancante, «che Sciascia concepisce per la prima volta l’idea che gli scienziati siano malvagi. Grazie al contatto diretto con un dottor Stranamore. Leggendo della politica e della scienza che erano alla base della costruzione della bomba atomica, Sciascia elaborò ulteriormente le proprie idee.

Quante più cose apprendeva sugli uomini che avevano realizzato la bomba e sui loro dilemmi spirituali – o sull’assenza di essi – tanto più si convinceva che scienziati come Fermi, Segrè e Oppenheimer erano clinicamente pazzi. Ma poi si imbatté in Ettore e si rese conto che lui era diverso. Lui aveva un’anima. La sua vita non si riduceva a mera scienza svuotata di umanità. […] Uno scienziato siciliano doveva essere diverso dagli altri».

Agli occhi di Sciascia, Ettore Majorana incarnava il dissidio fra scienza e responsabilità, il «gran rifiuto» di uno scienziato geniale che non voleva essere complice dell’orrore. Tuttavia, la condivisibile preoccupazione per i rapporti fra etica e scienza divenne per il romanziere un’ossessione e gli prese la mano, tanto che qualche anno dopo parlerà addirittura di un’«equivalenza tra il potere, la scienza e la morte che sembra stia per stabilirsi nel mondo». Un’affermazione forte, molto strana sulle labbra di un’illuminista convinto come lui.

Da questa sua convinzione sulla pericolosità della scienza tout court e dalla sua «umanistica» ignoranza della fisica discendono, ne La scomparsa di Majorana, moltissimi equivoci e incomprensioni. Sciascia, sia chiaro, è un grande, grandissimo scrittore, ma ciò non gli impedisce di cedere alla visione dello scienziato geniale, sregolato e un po’ folle propria di tanti umanisti: lo scienziato che scrive formule decisive su un pacchetto di sigarette e poi le butta nel cestino, lo scienziato irregolare, eccentrico, disadattato, marginale. Oppure colpito da malattie fisiche o psichiche. Però, sia chiaro, immancabilmente, luminosamente geniale. È così che Sciascia immagina Majorana: il genio disadattato che la scienza «la portava» contro i colleghi privi di umanità che invece la scienza «la facevano».

In realtà, è sempre Magueijo a dirlo, per evitare di fare di Majorana un mito, «occorre riconoscere che molti degli apparenti poteri magici di Ettore erano una messinscena. Se si risale alle date di alcune di queste illuminazioni “sovrannaturali”, di queste nuove teorie che Ettore sembrava formulare di getto, si scopre che erano già state ordinatamente scritte nei suoi appunti; che aveva già risolto, qualche giorno prima, il nuovo problema che gli era stato assegnato. Il fatto è che gli altri non lo sapevano. Come Feynman e altri portenti, Ettore era un misto tra un genio e un imbroglione».

Agli occhi di Sciascia, Ettore Majorana incarnava il dissidio fra scienza e responsabilità

Ma l’ossessione di Sciascia è soprattutto quella della bomba. Spinto e quasi travolto da quel chiodo fisso, lo scrittore siciliano immagina che Majorana avesse capito in anticipo le implicazioni della fissione dell’uranio e i pericoli che ne derivavano. E su questa idea fonda praticamente tutto il libro. «È storia ormai a tutti nota» scrive «che Fermi e i suoi collaboratori ottennero senza accorgersene la fissione (allora scissione) del nucleo di uranio nel 1934. Ne ebbe il sospetto Ida Noddack: ma né Fermi né altri fisici presero sul serio le sue affermazioni se non quattro anni dopo, alla fine del 1938. Poteva benissimo averle prese sul serio Ettore Majorana, aver visto quello che i fisici dell’Istituto romano non riuscivano a vedere». Edoardo Amaldi definì questa idea di Sciascia una fantasia «priva di fondamento», e, del resto, come ha suggerito Marco Cattaneo, «se anche Majorana avesse scoperto la fissione, non poteva certo pensare che, sparito lui, gli altri non si sarebbero accorti di nulla. In fondo quel fenomeno era lì. Allora perché non parlarne nemmeno con Fermi?».

Per Sciascia, è quella illuminazione, quella comprensione geniale di ciò che sarebbe accaduto in futuro a spingere Majorana nella depressione che lo portò a non uscire dalla sua stanza per quattro anni, lasciandosi crescere barba e capelli e nutrendosi quasi solo di latte, mentre ripeteva a Eduardo Amaldi, che ogni tanto lo andava a trovare: «La fisica è su una strada sbagliata, siamo tutti su una strada sbagliata». E poi, ovviamente, a spingerlo a scomparire.

Probabilmente, le cause di quella depressione che durò dal 1933 al 1937 furono molteplici (la morte del padre, le accuse allo zio di essere il mandante dell’omicidio di un bambino, il carattere debole, la mancanza di una compagna, o, come insinua qualcuno, di un compagno…); quello che è certo, è che Sciascia non prende nemmeno lontanamente in considerazione una causa «forte» come una sconfitta delle sue teorie scientifiche. Nel 1932, Majorana aveva infatti pubblicato un lavoro dal titolo Teoria relativistica di particelle con momento intrinseco arbitrario. Era una teoria alternativa a quella di Paul Dirac, che aveva matematicamente ipotizzato un elettrone con carica positiva e dunque l’antimateria. A Majorana non piaceva l’idea di Dirac di un’energia negativa; il «mare di Dirac» e quelle creazioni e annichilazioni di particelle virtuali gli sembravano ciarpame. Tuttavia, la scoperta nel 1933 del positrone da parte di Carl Anderson e le conferme sperimentali di Patrick Blackett e di Beppo Occhialini, diedero definitivamente ragione al fisico inglese. Non è azzardato ipotizzare che per Majorana quel colpo alle sue teorie sia stato davvero duro, che si sia perso d’animo, ma che abbia continuato a rimuginarci sopra. Probabilmente è per questo che continuava a ripetere che la fisica era su una strada sbagliata, e non perché avesse «visto» l’Armageddon, la bomba atomica sganciata su Hiroshima, come Sciascia si ostina a credere.

Oggi, a distanza di tempo, possiamo perfino ritenere che Majorana avesse in qualche modo ragione, che le sue teorie fossero in anticipo sui tempi e che potrebbero fornire la strada verso l’unificazione dello zoo di particelle che oggi appaiono nel Modello Standard. Ma a quell’epoca? Sciascia, a digiuno di fisica, non capisce e non parla di tutto questo. Insiste, invece, ostinatamente sulla bomba: «Chi, sia pure sommariamente (come noi: tanto per mettere le mani avanti), conosce la storia dell’atomica, della bomba atomica, è in grado di fare questa semplice e penosa constatazione: che si comportarono liberamente, cioè da uomini liberi, gli scienziati che per condizioni oggettive non lo erano; e si comportarono da schiavi, e furono schiavi, coloro che invece godevano di una oggettiva condizione di libertà. Furono liberi coloro che non la fecero. Schiavi coloro che la fecero». Lo scrittore siciliano si riferisce nel primo caso al gruppo degli scienziati tedeschi guidati da Werner Heisenberg, mentre nel secondo il riferimento è a Enrico Fermi e a quanti collaborarono con lui nel progetto Manhattan. È un altro abbaglio. Oggi, grazie alle registrazioni di Farm Hall, la villa in cui gli scienziati tedeschi furono reclusi dagli americani e dagli inglesi dopo la fine della guerra, sappiamo che la posizione di Heisenberg fu quanto meno ambigua e che forse tentò davvero di realizzare la bomba e non ci riuscì. Tanto «libero», insomma, Heisenberg non lo fu.

Per il resto, lasciando da parte il mistero e le ipotesi sul destino del fisico scomparso, va onestamente detto che Sciascia non affermò mai di avere in tasca la verità su Ettore Majorana, non accettò che le sue opinioni venissero etichettate come «teorie» e preferì sempre considerarle come «un misto di storia e di invenzione». I romanzi, scrisse, si occupano non dei fatti, ma dei «fantasmi dei fatti». Sacrosanto. Peccato, per la letteratura e per la scienza, che un grande scrittore come Sciascia abbia contribuito anche lui ad allontanarle l’una dall’altra.

 

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