“Se c'è una cosa che la pandemia di Covid-19 ha messo ancora più in evidenza è che il ruolo dei media e il modo in cui la scienza, in particolare la ricerca in ambito medico, viene raccontata può fare la differenza in termini di sanità pubblica, influenzando i comportamenti individuali, le scelte dei decisori, la gestione delle risorse”. Comincia da qui la sua riflessione Fabio Ambrosino, web content editor presso Il Pensiero Scientifico Editore/Think2it, che recentemente è intervenuto con Nicola Bressi, zoologo del museo civico di Storia naturale di Trieste, al Convegno nazionale di comunicazione della scienza organizzato dalla Sissa a Trieste. I due studiosi, proponendo alcuni casi studio, hanno esaminato il modo in cui viene veicolata la scienza sulla stampa, in televisione, online, in radio e sui social media. Due in particolare gli ambiti considerati, medicina e zoologia.
Ambrosino, che si occupa prevalentemente di comunicazione e formazione in ambito medico, rileva talora poca cautela nel trattare argomenti in campo sanitario: accade per esempio che si dia notizia di un nuovo farmaco quando gli studi sono ancora preliminari, magari condotti su modelli animali, prima che la sua efficacia sia stata effettivamente dimostrata. A volte si riportano i risultati di ricerche osservazionali (in cui gli scienziati si limitano a osservare determinati fenomeni senza intervenire): questi studi però, sottolinea Ambrosino, possono essere utili per generare nuove ipotesi, ma non per stabilire rapporti di causa-effetto e di questo si deve tener conto qualora se ne dovesse parlare.
“Spesso inoltre la medicina sui media viene trattata come un compartimento stagno, nel senso che ci si concentra molto sulle ricadute in termini di salute per il singolo o per la salute pubblica, ma si considera molto meno spesso tutto ciò che riguarda l'aspetto economico, sociale e politico della salute. Faccio un esempio: si può dimostrare che un trattamento è particolarmente efficace, addirittura risolutivo ma se quella terapia ha un costo esorbitante, la sua applicazione effettiva può essere più complicata del previsto. Un giornalista dunque ha il dovere di mettere in relazione i risultati della ricerca rispetto a ciò che succede nel mondo reale e raccontare ciò che può effettivamente portare dei benefici ai pazienti, al servizio sanitario e non ad altri stakeholders”.
Interventi completi di Fabio Ambrosino e Nicola Bressi. Servizio di Monica Panetto, riprese e montaggio di Barbara Paknazar
Ambrosino ritiene che per migliorare la qualità della comunicazione scientifica in ambito medico serva innanzitutto fare formazione specifica, i giornalisti che si occupano di scienza dovrebbero avere almeno le basi della metodologia della ricerca e della statistica biomedica. Quando poi si riporta uno studio scientifico, è sempre necessario considerare determinati aspetti: se si parla di un nuovo farmaco, per esempio, bisogna capire a che punto è la sperimentazione, e considerare le caratteristiche del campione su cui viene testato. È buona norma poi considerare chi finanzia lo studio e dare il giusto peso alle esperienze personali, specie in medicina, dato che serve aggregare dati per giungere a evidenze conclusive.
Nicola Bressi da parte sua solleva la questione del negazionismo scientifico. Sottolinea l’esistenza di schemi comuni che caratterizzano il dibattito in campi anche molto distanti tra loro. Posizioni di questo tipo sono emerse in maniera evidente durante la pandemia, specie dopo lo sviluppo e la somministrazione di nuovi vaccini, ma anche nel campo della zoologia per esempio si notano dinamiche sovrapponibili. “Si assiste a una fortissima dicotomia – spiega lo studioso –, a una polarizzazione del dibattito, e chi non è favorevole alla scienza usa sempre le stesse argomentazioni: combatte contro i poteri forti, ritiene corrotti gli scienziati, è convinto dell’esistenza di interessi che non vengono palesati, persuaso che tutto avvenga di nascosto”. Oltre ad appellarsi alla libertà personale come valore da difendere a qualunque costo.
Continua lo zoologo: “Il meccanismo di negazione della scienza è sempre lo stesso, pur in ambiti diversi. Ciò che cambia è il rapporto con i media: se si parla di medicina si cerca di stare leggermente più attenti (durante la pandemia si è avuta quasi un’inflazione di virologi), quando invece si tratta di gestione degli animali la parola viene data quasi sempre ad associazioni animaliste o ambientaliste, ad appassionati e amanti degli animali che portano avanti le loro idee. Non si riportano gli studi scientifici che conducono a determinate decisioni e questo crea nell'opinione pubblica seri problemi di comprensione della gestione faunistica ambientale e del metodo scientifico in generale”.
Facendo riferimento anche a fatti di cronaca recente (dall’uccisione del cervo Bambotto nella Val di Zoldo all’abbattimento di 1.500 esemplari nello Stelvio), lo zoologo conclude sottolineando che il ruolo del giornalista scientifico non deve essere solo quello di riportare i fatti, ma anche e soprattutto di porre domande razionali agli attori in gioco.