SOCIETÀ

Sierra Leone: le elezioni riconfermano il presidente uscente

Lo spoglio per le presidenziali è finito, ma la Sierra Leone non sta andando in pace verso i prossimi cinque anni di governo. L’ultimo bollettino emesso dalla Commissione elettorale non lascia più dubbi: il presidente uscente della Sierra Leone, Julius Maada Bio, 59 anni, leader del Partito Popolare (Slpp), ha di nuovo vinto le elezioni presidenziali con il 56,17% dei voti espressi, superando d’un soffio la soglia del 55%, al di sotto della quale, secondo la nuova legge in vigore in Sierra Leone, sarebbe scattato il ballottaggio con il secondo classificato. Vale a dire Samura Kamara, 72 anni, capo dell’All People’s Congress (Apc), principale forza di opposizione, che ha raccolto, sempre stando al bollettino ufficiale della Commissione (Ecls), il 41,16 delle preferenze. «È un giorno triste per il nostro amato paese», ha immediatamente twittato Kamara dopo l’annuncio. «È un attacco frontale alla nostra nascente democrazia. Questi risultati NON (tutto maiuscolo nel tweet) sono credibili e respingo categoricamente il risultato così annunciato dalla Commissione elettorale». A infiammare ancor più gli animi la notizia che una donna di 64 anni, infermiera di professione e volontaria dell’All People’s Congress, è morta dopo essere stata colpita alla testa da un proiettile sparato dalle forze di polizia, che domenica scorsa avevano bruscamente interrotto una conferenza stampa organizzata dal partito nella sua sede di Freetown subito dopo il voto. Il leader del partito aveva immediatamente denunciato il blitz della polizia: «Le persone giacciono sul pavimento e i militari hanno circondato l’edificio. Proiettili veri sparati contro il mio ufficio privato nella sede del Partito. Questo è un tentativo di assassinio». Secondo il quotidiano britannico Guardian altri scontri si sarebbero verificati nel nord del paese, a Masiaka, Lunsar e Port Loko: c’è chi parla di decine di morti e di feriti, ma non ci sono conferme ufficiali.

Crisi economica e repressione

In questo clima Julius Maada Bio ha giurato e si avvia a governare per altri cinque anni lo Stato africano del quadrante occidentale, affacciato sull’Oceano Atlantico. Uno dei paesi più poveri del continente, con una delle valute più fragili del mondo (servono quasi ventimila leoni sierraleonese per cambiare un euro), con un Pil pro capite di circa 500 dollari l’anno, con oltre il 60% degli 8,5 milioni di abitanti che vive al di sotto della soglia di povertà, percentuale che sale al 75% se si parla di “insicurezza alimentare”, vale a dire quando una persona si trova, per varie ragioni, nella condizione di non poter consumare alimenti adeguati, al punto da mettere in pericolo la sua stessa sopravvivenza. Gli shock sanitari (pandemia da Covid) ed economici sono stati aggravati dalla guerra in Ucraina che ha drasticamente ridotto le importazioni di grano e di cereali, provocando peraltro un’impennata dell’inflazione, salita di oltre il 43% nell’ultimo anno, con i costi medi di cibo e carburanti più che raddoppiati. Per non dire dei salari bloccati, della disoccupazione, della disperazione, della repressione violenta delle forze di sicurezza in un paese dove per protestare contro l’autorità (i governanti) devi chiedere l’autorizzazione. E quando non la chiedi può finire in tragedia, come l’anno scorso, era agosto, quando gli abitanti della capitale Freetown, ma anche a Makeni (provincia del Nord) e a Kamakwie (Nord-Ovest), erano scesi in piazza per protestare contro il caro vita, e il bilancio finale fu di ventisette vittime: 21 civili e 6 agenti di polizia. 

«Questa vittoria è per la Sierra Leone. Abbiamo dimostrato ancora una volta che se anche le nostre lingue, tribù e convinzioni politiche possono differire, siamo uniti nel nostro desiderio di vedere prosperare la terra che amiamo», ha twittato il presidente Maada Bio non appena ricevuta la conferma della rielezione. Un’immagine di pace, amore e concordia che mal si abbina ai sistematici episodi di violenza che hanno fatto da sfondo alla campagna elettorale. Come gli scontri tra polizia e manifestanti avvenuti mercoledì 21 giugno, a poche ore dal voto di sabato scorso, sia a Freetown sia in altri centri del paese. Con i sostenitori dell’All People’s Congress che accusavano apertamente la Commissione elettorale di “pregiudizi a favore del partito al potere” (di fatto un’accusa di brogli) e chiedendo le dimissioni del presidente Mohamed Konneh: «Vogliamo soltanto delle elezioni credibili, libere e corrette», aveva spiegato uno dei manifestanti ad AfricaNews. La polizia aveva poi sparato proiettili di gomma e gas lacrimogeni per disperdere i dimostranti.

Le accuse dell’Apc non accennano a placarsi: già nel corso dello spoglio delle schede, la Commissione elettorale aveva rilasciato un documento ufficiale nel quale si affermava che a due terzi dello scrutinio Bio era in vantaggio di oltre 200mila voti: «Respingiamo totalmente l’annuncio del capo commissario elettorale, si tratta di cifre inventate», avevano dichiarato funzionari dell’Apc.  Il primo testa a testa tra Bio e Kamara risale al 2018, alla precedente elezione presidenziale, quando ancora vigeva la regola del 50% più uno per essere eletti, vinta dal leader del Partito Popolare con il 51,8% dei voti, contro il 48,2 dello sfidante. Stessa partita e, di nuovo, stesso risultato: presidenza a Julius Bio per un pugno di voti. Gli osservatori internazionali hanno espresso dubbi sulla trasparenza nel conteggio dei voti. Secondo il Carter Center, un gruppo di monitoraggio elettorale con sede negli Stati Uniti, «i rapporti indicano una mancanza di trasparenza durante le parti del processo di tabulazione".

Soltanto promesse, nessuna speranza

Di certo la tensione nel paese resta altissima, anche se ieri, dopo il giuramento del presidente per il secondo mandato, la situazione si è mantenuta sostanzialmente tranquilla nelle strade di Freetown, senza i temuti scontri. Come restano intatti i problemi che da anni attanagliano la Sierra Leone, ex colonia britannica (la capitale Freetown, dal nome evocativo, fu fondata nel 1787 dalla Sierra Leone Company, una compagnia di abolizionisti britannici che puntava a reinsediare lì le persone precedentemente ridotte in schiavitù in Inghilterra), indipendente dal 1961 e già passata attraverso la feroce strettoia di una guerra civile (1991-2002) costata migliaia di morti.

Problemi come la povertà, la corruzione, l’inflazione, i salari, che nessuna promessa elettorale è finora riuscita a scalfire. E se c’è un elemento che salta agli occhi è proprio la difformità tra il diffuso malcontento popolare e il risultato elettorale, che premia ancora il presidente uscente. Anche se, è bene ricordarlo, il suo sfidante Samura Kamara, economista, ex ministro delle finanze e degli esteri, 72 anni, deve affrontare un processo penale con l’accusa di appropriazione indebita (che lui continua a negare): la sentenza è attesa per il mese prossimo. La scorsa settimana, nel presentare le elezioni, la Cnn riportava le dichiarazioni di Ishmael Beah, un ex bambino soldato e autore, diventato attivista per i diritti umani: «L’umore generale del paese è che non è affatto speranzoso. C’è più tensione, più presenza di polizia, di militari armati che fondamentalmente pattugliano le strade come se andare alle elezioni fosse anche andare in guerra. I candidati non hanno presentato alcuna politica o idea di ciò che faranno. Non c'è stato alcun dibattito presidenziale per parlare di politica».

I due candidati si sono limitati a vaghe promesse: Kamara ha cavalcato il tema della disoccupazione giovanile (circa il 60% dei 3,4 milioni di votanti ha meno di 35 anni), criticando il presidente in carica per non aver saputo attrarre investimenti stranieri. Mentre Bio ha promesso “mezzo milione di nuovi posti di lavoro”, oltre a puntare sul miglioramento dell’istruzione, sull’aumento della produzione agricola e sulla lotta alla corruzione. All’inizio di quest'anno ha anche firmato una storica legge sui diritti delle donne, che stabilisce, tra l’altro, una “quota rosa” del 30% per i posti di lavoro pubblici e privati. Il presidente, nel promulgare la legge, si è pubblicamente scusato con le donne: «Per troppo tempo non siamo stati giusti con voi».

Riconquistata la presidenza, Maada Bio dovrà comunque affrontare sfide che conosce benissimo, ma che nei cinque anni appena trascorsi non è riuscito a risolvere: economia fragile, inflazione alle stelle, povertà diffusa, alti tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, disuguaglianze crescenti tra i sierraleonesi di diverse regioni e gruppi etnici, oltre a un diffuso malcontento popolare che rischia continuamente di sfociare in proteste violente, da reprimere con altrettanta violenza, in una spirale apparentemente senza fine. Ma dovrà anche (o meglio, dovrebbe) tentare di rendere produttivo per le finanze pubbliche lo sfruttamento delle principali risorse del paese: petrolio, minerali e, soprattutto, i diamanti. La Sierra Leone è l’ottavo produttore mondiale: la produzione ufficiale nel 2022 è aumentata del 7%. Ma se da un lato molte delle miniere sono nelle mani di compagnie straniere, britanniche soprattutto (una forma moderna e aggiornata di colonialismo), dall’altro fiorisce lo scavo clandestino, in un mercato illecito e parallelo senza regole, dove anche i bambini sono da sempre impiegati come schiavi, costretti dalle necessità economiche delle famiglie (un problema che accomuna la Sierra Leone all’Angola, al Congo, alla Liberia, alla Costa d’Avorio). La produzione clandestina viene definita “blood diamonds”, diamanti insanguinati (ne è stato tratto anche un film con Leonardo Di Caprio). I proventi illeciti sono già serviti, in passato, a finanziare rivolte e colpi di stato.

Ed è proprio questo, in estrema sintesi, il timore di fondo degli osservatori: il rischio che l’instabilità in quel quadrante del continente africano possa peggiorare repentinamente, dopo i colpi di stato in Burkina Faso e Mali e i recenti scontri che hanno insanguinato il Senegal (dove il governo è arrivato a vietare i social media e a chiudere l’Università). Jamie Hitchen, analista politico specializzato in Sierra Leone e ricercatore presso l’Università di Birmingham, l’aveva spiegato prima del voto: «Abbiamo notato questo arretramento democratico nella regione. Quindi, se le elezioni presidenziali della Sierra Leone non saranno libere, giuste e credibili, potrebbero essere un campanello d'allarme per la democrazia regionale». Qualche preoccupazione, alla luce dei risultati ufficiali, appare legittima. 

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