SOCIETÀ
Smart working prolungato. Presente e futuro del lavoro durante la pandemia
Lo smart working è una delle tante risposte obbligate a cui ci ha costretto, improvvisamente e senza compromessi, l'arrivo della pandemia. Volenti o nolenti, gran parte dei lavoratori in Italia e non solo è entrata a far parte di questo enorme esperimento lavorativo, talvolta senza avere chiare regole di condotta e ignorando fino a quando avrebbe dovuto trasformare il tavolo della cucina in una scrivania attrezzata.
Eppure, questo momento difficile ha permesso di capire che molto del lavoro che si svolgeva in presenza si può fare anche da casa. Questo apre la strada all'ipotesi che, anche quando la crisi sarà superata, per alcuni tipi di mansioni continuerà ad essere preferita la modalità a distanza. Questa massiccia delocalizzazione del lavoro rischia di ripercuotersi in qualche modo sulla motivazione, sulla quantità di stress, e sul benessere psicologico dei lavoratori? Lo abbiamo chiesto alla professoressa Roberta Maeran, docente di psicologia del lavoro e delle organizzazioni all'università di Padova.
“Il lavoro agile, per certi versi, non è molto diverso dal telelavoro nato negli anni Settanta. La tecnologia impiegata oggi è molto più avanzata, ma l'impostazione lavorativa non lo è più di tanto”, spiega la professoressa Maeran. “Lo smart working, in stato di necessità, è stata la soluzione migliore possibile da attuare, ma ci sono sicuramente delle ripercussioni a livello di benessere personale che è bene non sottovalutare. Prima di tutto, perché i ritmi del lavoro devono essere impostati in maniera diversa. E inoltre perché il lavoro, come la scuola, rappresenta anche un momento di socializzazione. La centralità delle relazioni umane e dei bisogni sociali sul luogo di lavoro è un tema che viene affrontato da più di 100 anni, come sappiamo studiando le teorie di Elton Mayo. I rapporti sociali, con lo smart working, cambiano totalmente. Inoltre, viene a mancare la differenziazione tra ambiente di lavoro e ambiente familiare e i tempi si dilatano. Il lavoro da casa può avere anche ripercussioni gravi sul cosiddetto workaholic. I problemi di dipendenza di una persona che tende a concentrarsi molto sul lavoro, tralasciando impegni familiari o extra lavorativi, con lo smart working possono essere accentuati”.
Volendo approfondire il tema dei rapporti umani sul luogo di lavoro, spostarsi sulle piattaforme virtuali limita in qualche modo l'interazione sociale, il fare squadra, e la collaborazione tra colleghi?
“La produttività, a volte, diventa anche maggiore durante lo smart working, ma vengono a mancare quei momenti di incontro informale e scambi di idee, spesso legati a dei rituali quotidiani, come ad esempio la pausa accanto alla macchinetta del caffè, che permettono di affrontare il lavoro in modo diverso e diminuire lo stress. Si tratta di interazioni spontanee e informali, che sono rese possibili dall'avere altre persone a fianco. Anche la leadership, poi, dev'essere impostata in modo diverso. La difficoltà del leader a controllare i lavoratori a distanza era tra l'altro uno dei problemi principali che si manifestavano con il telelavoro”.
“Nell'ultimo periodo c'è stata un po' una enfatizzazione dello smart working da parte dei media, specialmente in televisione”, riflette la professoressa Maeran. “Talvolta vengono dati anche consigli utili, come quello di vestirsi come ci si dovesse recare al lavoro, perché anche l'abito aiuta a entrare in un certo tipo di ruolo. Ma spesso lo smart working viene presentato anche come una possibilità di migliorare la propria condizione, mostrando ad esempio situazioni in cui non si lavora chiusi in ufficio ma in riva al mare o nella casa di vacanza. Questo può anche essere possibile per qualcuno, ma non è certo la normalità. Come si è visto anche durante il lockdown, infatti, le case della maggioranza delle persone hanno pochi ambienti, che spesso devono essere condivisi anche con dei bambini”.
Lavorare da remoto e lavorare in presenza, ad esempio in un ufficio, influisce in modo diverso sull'equilibrio lavoro-vita privata?
“Sicuramente sì. Come è emerso anche dalle ricerche degli anni Novanta sul telelavoro, questo problema era maggiormente avvertito dalle donne, per le quali la conquista del lavoro fuori casa è molto più recente. Per l'uomo, restare a casa e risparmiarsi i tempi di spostamento rappresentava spesso un grosso vantaggio. Ma per la donna, recarsi in ufficio voleva dire (e vuol dire ancora oggi) uscire dall'ambito familiare e affrancarsi in un ambito lavorativo, mentre il telelavoro sembrava piuttosto un surrogato di un vero impiego, proprio perché si stava in casa.
C'è quindi da tenere in considerazione anche questo percorso di identità lavorativa e di significato che le persone attribuiscono al lavoro.
Inoltre anche gli equilibri tra i membri di una famiglia o all'interno delle coppie possono diventare più problematici. Convivere insieme in uno spazio ristretto per tutta la settimana, dovendo lavorare, può cambiare profondamente i rapporti, e non è detto che questo avvenga sempre in meglio, perché c'è la necessità di gestire in maniera diversa il tempo da dedicare al lavoro e ai rapporti personali”.
“Negli anni Novanta”, continua la professoressa Maeran, “sono stati condotti molti studi che avevano come oggetto il telelavoro e che cercavano un modo per contrastare l'abbandono delle località di montagna. Si voleva dare alle persone la possibilità di lavorare restando nei loro paesi anche se l'azienda da cui dipendevano si trovava in una grande città. Casi come questo possono giustificare questa scelta a tempo indeterminato, ma non possono essere considerati la regola.
Un prolungamento indefinito dello smart working richiederebbe anche una riprogettazione dello sviluppo umano da vari punti di vista. Una delle conseguenze da tenere in considerazione è lo svuotamento delle città, perché ne risentirebbero tutte quelle reti commerciali costruite intorno a certi tipi di attività, come banche e aziende, che comprendono anche ristoranti, negozi e servizi di vario genere”.
D'altra parte, favorire una situazione in cui molte persone si trovano in smart working potrebbe incidere a diminuire i consumi e i problemi dell'inquinamento. Potrebbe allora essere una soluzione valida quella di alternare ciclicamente lavoro in ufficio e lavoro da casa?
“Sì, ma anche lo smart working parziale crea alcuni problemi”, spiega la professoressa Maeran. “Ognuno di noi, nel momento in cui ha una postazione di lavoro, come un ufficio o una scrivania, costruisce una sua territorialità, e tende a personalizzare i propri spazi. Nel momento in cui i dipendenti si alternano, e gli spazi personali diventano condivisi, si perdono abitudini che sembrano trascurabili, ma che in realtà sono importanti in una situazione lavorativa, e che possono incidere sulla produttività.
Lo smart working si è rivelato la soluzione ottimale per affrontare i mesi della pandemia, ma trasformarlo in una condizione definitiva pone delle problematiche che richiedono di essere affrontate seriamente, pesando i vantaggi e gli svantaggi sui due piatti della bilancia”.