SOCIETÀ
Smart working: senza scambi accidentali non si accende la scintilla creativa
Gli analisti lo avevano previsto: dopo la pandemia, negli uffici delle grandi multinazionali come in quelli delle piccole aziende di provincia, le cose non stanno ancora tornando come prima. Al di là di tutte le considerazioni burocratiche sul blocco dei licenziamenti, durante il lockdown molti lavoratori si sono trovati loro malgrado in piena rivoluzione-smart working, e ora non vogliono, o non riescono a, uscirne. In effetti lavorare da casa ha dei vantaggi, sia per il lavoratore che per l'azienda: il primo per esempio si risparmia il pendolarismo, stress accessorio dell'attività lavorativa, e può cucinare pasti più sani e, se prima non usufruiva di mensa aziendale o buoni pasto, anche più economici. Lato azienda, d'altro canto, è vero che diminuisce il controllo sui dipendenti , ma lo fanno anche le spese elettriche e i tempi di lavoro per organizzare riunioni in trasferta.
In quest'ottica non c'è da sorprendersi se i lavoratori sono restii a tornare alla vita di prima: negli Stati Uniti, per esempio, le aziende sono alla ricerca di personale: offrono più di 9 milioni di posti di lavoro (una crescita che non si vedeva dal 2000), stipendi sopra la media e benefit, ma pochi vanno a riempirli. Durante la pandemia molti si sono riappropriati di spazi che avevano dimenticato di avere: quelli dedicati alla famiglia e alle proprie passioni, quelli che fino a quel momento si perdevano tra uno spostamento e l'altro e che sono stati preziosi per mantenere la lucidità nei giorni più bui. Forse molti workaholic hanno capito che non è la vita a doversi inserire strategicamente nelle pause di lavoro, ma che si possono portare avanti entrambe le cose con profitto e soddisfazione, e ora non vogliono perdere quest'abitudine. E così non stupisce che un sondaggio del network professionale Blind ha rilevato che la maggior parte dei dipendenti di 45 grandissime aziende americane preferirebbe lavorare stabilmente da casa piuttosto che ottenere 30.000 dollari di aumento. A livello aziendale, poi, dopo i primi giorni di panico si è scoperto da subito che, nella maggior parte dei casi, a livello tecnico il lavoro si poteva gestire anche da remoto. Certo, probabilmente negli Stati Uniti è più facile, mentre noi abbiamo ancora una certa arretratezza tecnologica da smaltire, ma non sono problemi insormontabili.
I nodi però vengono al pettine quando si ragiona sulle performance. Anche volendo ipotizzare una rivoluzione industriale 3.0 in cui parte del lavoro sarà svolta in ufficio e l'altra parte a casa, rimangono parecchi dubbi su come questa nuova era dovrebbe essere organizzata. Mentre i più misantropi potrebbero asserire che non sentono assolutamente la mancanza del vicino di scrivania che non perde occasione per fare battutine provocatorie, quasi tutti si sono accorti che le riunioni su Zoom non possono sostituire il contatto umano. Ma perché succede?
Un'interessante longform di The Guardian, adattamento di Vision: How Anthropology Can Explain Business and Life di Gillian Tett, fornisce una chiave di lettura sociologica al calo di produttività sulla lunga distanza. Lo smart working funzionerebbe benissimo se fossimo dei robot (del resto, se lo fossimo, qualcuno avrebbe già pensato a sostituirci con un modello più recente) e se dovessimo inanellare una serie di azioni meccaniche una dopo l'altra. Paradossalmente, a livello squisitamente ideologico, lo smartworking potrebbe funzionare in una catena di montaggio vecchio stile, in cui ognuno ripete la stessa azione lungo tutto l'arco della giornata.
Il problema sorge quando il lavoro richiede una scintilla di qualche tipo. E non bisogna ingannarsi: persino i lavori più meccanici richiedono qualche dote creativa, soprattutto per quanto riguarda la risoluzione dei problemi. Se n'è reso conto decenni fa Julian Orr, un antropologo che stava studiando i processi aziendali della Xerox, azienda leader nella produzione di fotocopiatrici.
Quando un macchinario si rompeva, uno dei tecnici dell'azienda (che erano considerati poco più che bassa manovalanza e non venivano interpellati quasi mai al di fuori del loro ambito) partiva per ripararlo, armato di un manuale che dettava precise procedure da intraprendere a seconda dei casi. In particolare, se una fotocopiatrice avesse presentato un problema intermittente, il tecnico avrebbe dovuto stampare mille copie e procedere alla diagnosi e alla riparazione. Orr scoprì da un riparatore che chiamerà Troubleshooter che quasi nessuno aveva mai stampato 1000 fogli: per procedere alla diagnosi, Troubleshooter si dirigeva al cestino accanto alla fotocopiatrice, recuperava le copie difettose (e quindi gettate via) e risolveva il problema, con cordiali ringraziamenti da parte delle grandi foreste.
“ I walk to the trash can, tip it upside down, and look at all the copies that have been thrown away. The trash can is a filter [...]. So just go to the trash can … and from scanning all the bad ones, interpret what connects them all Mr Troubleshooter
Tett fa molti altri esempi di questa "saggezza popolare" che non si acquisisce tramite un manuale, ma tramite i classici discorsi alla macchinetta del caffè, a pranzo o persino sull'odiata metropolitana. Sono idee che nascono tra una chiacchiera e l'altra, che non hanno un'attribuzione specifica, per cui nessuno vincerà probabilmente un premio, ma che, di fatto, portano efficacemente avanti una visione aziendale e dei processi funzionali senza che i vertici lo sappiano.
Daniel Beunza, un sociologo spagnolo molto lungimirante, aveva studiato i processi di lavoro in ambito finanziario per due decenni, e aveva notato che, anche se la tecnologia permetteva a buona parte dei lavoratori del ramo di lavorare da casa, la maggior parte di loro continuava ad andare in ufficio o nelle trading room delle banche, che diventavano sempre più grandi. Per anni si era chiesto quali fossero le motivazioni dietro questo paradosso e finalmente (si fa per dire) con il lockdown del 2020 ha avuto l'occasione di scoprire come funzionava un trading desk quando tutti erano a casa. Come ci si poteva aspettare, ci sono stati lati positivi e negativi. Era aumentato il senso di parità, come aveva notato anche l'etnografo Stuart Henshall: gli indiani, per esempio, prima della pandemia provavano un certo pudore a mostrare i loro spazi domestici, mentre poi hanno cominciato a sentirsi più a loro agio, dando all'interlocutore una visione più ampia della vita dei colleghi. Gli studi di Beunza confermano la tendenza: i lavoratori della finanza lavoravano bene da casa, almeno per quanto riguardava le operazioni più meccaniche.
Mancava, però, quello che Beunza ha definito lo scambio accidentale. In un meeting su zoom le persone sono concentrate su un obiettivo specifico, il che conferisce loro una sorta di visione a tunnel del problema: da lì non ti sposti, ed è una percezione parziale. Come nel marketing esiste un mercato pronto (ti serve un prodotto e lo vai a cercare) e un mercato indirizzabile (hai un problema, ma non sai che c'è un prodotto che costituisce la soluzione), così nel processo di lavoro emergevano delle domande latenti, che ricevevano risposte in modo accidentale, perché magari sentivi una parola dal vicino di scrivania che faceva scattare una scintilla. Non sorprende quindi che le performance migliori siano state quelle dei banchieri rimasti in ufficio, o che avevano beneficiato di sistemi di rotazione per lavorare in modo ibrido.
L'uomo è un animale sociale, e per quanto desideri l'indipendenza ha bisogno anche degli scambi per carburare ed essere produttivo. Se da una parte questo potrebbe sembrare un limite, consoliamoci: è quello che ci distingue dai robot che minacciano di sostituirci.