SOCIETÀ

Cambiare il sistema alimentare

Saremo quasi 10 miliardi entro il 2050, secondo le previsioni demografiche delle Nazioni Unite. Un dato che pone con urgenza la questione su come riuscire a sfamare tutti. Tra i 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu la lotta alla fame rimane una priorità assoluta. Secondo i dati Fao (Food and Agricolture Organization of the United Nations) e le stime del World Food Programme dell’Onu, oggi quasi 1 miliardo di persone non mangia a sufficienza; 2 miliardi, quindi circa un terzo della popolazione mondiale, sono quelli che non hanno accesso regolare a cibo nutriente e sicuro. E circa altri 2 miliardi di persone soffrono del problema solo apparentemente opposto, perché sovrappeso o obese, spesso per motivi analoghi, cioè per assunzione di cibo di bassa qualità. La situazione era in leggero miglioramento fino al 2019, ma l’incrocio di pandemia, nuove guerre, in particolare quella russo-ucraina, e l’incremento degli eventi climatici estremi ha fatto nuovamente salire il numero di persone a rischio alimentare. A questo quadro, già piuttosto difficile, dobbiamo aggiungere un altro dato. Secondo il Rapporto speciale Ipcc del 2019 su Climate change and land, circa un quarto delle emissioni attuali di gas climalteranti in atmosfera è attribuibile al comparto agricolo. Sia nella produzione che nella trasformazione, distribuzione, utilizzo e conservazione fino allo spreco. Su quest’ultimo punto, dati più recenti della Fao ci dicono anche che è possibile, con la produzione attuale, sfamare la popolazione mondiale ma che questo può avvenire solo se riduciamo gli sprechi e facilitiamo l’accesso al cibo.

Per dire, oggi un terzo degli alimenti prodotti viene buttato via regolarmente per diversi motivi. Uno su tutti, l’eccedenza di produzione iniziale per mantenere fornito il sistema della grande distribuzione, secondo diverse analisi pubblicate da Ispra e diversi altri gruppi di ricerca.

Non c’è alcun dubbio, dunque, che ci sia bisogno di una rivoluzione alimentare. In che direzione? In realtà, le possibilità sono diverse, e alcune sono già contemplate nelle raccomandazioni delle organizzazioni internazionali, come Ipcc e Fao, e delle istituzioni come la Commissione europea, che ha da poco lanciato la sua strategia Farm to fork, all’interno dello European Green Deal, che prevede una serie di azioni per rendere più sostenibile la produzione, la gestione e il consumo del cibo in tutta l’Eurozona. Una dieta sostenibile è, secondo la Fao, una dieta “a basso impatto ambientale che contribuisce alla sicurezza alimentare e assicura una vita sana per le generazioni presenti e future”. Le diete sostenibili, in altre parole, proteggono e rispettano la biodiversità, sono culturalmente accettabili, accessibili ed economicamente eque e convenienti.

 

Al contrario, le diete insostenibili hanno diversi impatti negativi, come evidenzia il rapporto 2019 della commissione dedicata alla trasformazione del sistema alimentare mondiale, la Eat Lancet Commission, che evidenzia i molteplici impatti negativi di diete e sistemi alimentari non sostenibili: inaspriscono le diseguaglianze, peggiorano la salute umana e quella del Pianeta. Un ruolo particolarmente importante, in termini di impatto ambientale e climatico negativo, è quello associato all’aumento vertiginoso del consumo di carne, soprattutto da allevamenti intensivi. Per produrre più carne si sacrificano enormi quantità di prodotti vegetali, producendo mangimi invece che cereali e verdure per l’alimentazione umana. Non solo. Più allevamenti intensivi significano più disboscamento, sia per fare spazio agli animali che per coltivare soia e mais. Significano anche un uso intenso di risorse idriche e un aumento molto consistente delle emissioni di metano, quando gli animali allevati sono bovini.

Le raccomandazioni vanno dunque tutte nella direzione di ridurre la produzione e il consumo di carne da allevamento intensivo. Ma c’è molto di più.

Oggi sono due i modelli agricoli che si contrappongono nel mondo: quello agroindustriale, strutturato in filiere globali, dove il controllo di pochissime aziende multinazionali è ferreo e con pochi spazi di cambiamento. E quello di cosiddetta “sussistenza”, al quale si è aggiunto in anni recenti una rivisitazione in chiave più positiva e innovativa, con prospettive interessanti anche sul piano socioculturale, che è quello di un’agricoltura di basso impatto, ripensata soprattutto su scala locale, che recupera varietà e diete locali e si basa su filiere più corte.

Se non c’è dubbio che spesso l’agricoltura di sussistenza sia insufficiente a soddisfare le esigenze alimentari di una popolazione, soprattutto a fronte delle numerose criticità ambientali ed economiche e delle crescenti disparità, sempre più studi vedono nell’approccio agroecologico, con un utilizzo più limitato di input chimici e con una maggiore valorizzazione dell’agrobiodiversità in campo, un’opzione praticabile per coniugare sostenibilità ambientale e miglioramento delle condizioni sociali e culturali.

Chi sostiene il modello agroindustriale lo fa appellandosi all’efficienza di un sistema controllato da pochi attori lungo l’intera filiera: dalle coltivazioni in campo fino al supermercato della grande distribuzione organizzata. Dal seme al prodotto finale, le aziende che gestiscono la larga parte dell’intero mercato alimentare mondiale sono poche, meno di una decina. Nei fatti, anche in un Paese come l’Italia, molti piccoli agricoltori vendono a poche grandi aziende che gestiscono la trasformazione e la distribuzione. Questo modello però, secondo molti studi recenti, ha vari elementi di inefficienza, può amplificare le disuguaglianze e non risolve il problema della sicurezza alimentare per tutti.

La gran parte della produzione alimentare della Terra viene infatti proprio dai piccoli agricoltori, sia quelli inseriti nelle filiere industriali che gli indipendenti, a Nord come a Sud. In altre parole, oltre l’80% del cibo consumato nel mondo, secondo dati della Fao resi disponibili negli ultimi dieci anni, è prodotto da circa mezzo miliardo di piccoli agricoltori, che coltivano appezzamenti di terra limitati. Sono loro e non le grandi corporation a nutrire il Pianeta, oggi. In larga misura, questi producono in condizioni non ottimali, e raramente potendo godere di supporto adeguato, infrastrutture, perfino di ricerca scientifica utile, che è assai più orientata e finalizzata alle necessità del sistema agroindustriale che non alla produzione reale di piccola taglia. I piccoli agricoltori hanno problemi molto diversi da quelli delle grandi aziende. Necessitano di tecniche colturali adattate agli ambienti in cui lavorano e non disegnate su misura per grandi estensioni agricole. Devono tenere insieme la gestione della terra e il mantenimento della fertilità del suolo con la capacità di produrre e conservare in modo adeguato, quando serve, i propri prodotti; gestire la scarsità di acqua; ottimizzare la loro distribuzione e dunque le catene, corte o lunghe, che vanno dal cibo prodotto alla persona che lo consuma, i mercati, vicini o lontani, e i loro diversi sistemi di accesso, le reti di distribuzione e dunque il controllo dei sistemi di trasporto e di vendita, la capacità di mettere insieme domanda e offerta per ridurre gli sprechi. Se poi si trovano nel Sud del mondo, nei Paesi dove è molto alta la percentuale di persone che vivono e lavorano in ambito rurale ma è basso il livello di investimenti in innovazione agricola, la situazione è ancora più difficile.

Questa disparità è ben riflessa dai dati che mettono a confronto le emissioni del comparto agricolo nei paesi industrializzati con quelli del Sud globale. Nei primi, la gran parte delle emissioni agricole sono dovute alla lavorazione delle materie prime, alla trasformazione, al trasporto, alla conservazione e smaltimento, tutte attività energivore. Nei Paesi del Sud invece il maggiore contributo proviene dall’uso della terra (73%). Sono dati che ci dicono due cose: efficienza rendimento produttivo delle attività agricole nei Paesi poveri sono più bassi, e mancano le infrastrutture per lavorare e trasformare in loco i prodotti. Non c’è un’unica risposta al problema della fame, e non c’è un unico modo per produrre cibo e renderlo accessibile in modo compatibile con la sfida ambientale attuale. Vanno messe in campo tutte le strategie.

Un ruolo chiave può essere giocato dalla ricerca, soprattutto considerando le necessità di migliorare la produttività di tutte quelle zone agricole che oggi hanno un rendimento scarso e, però, pesano comunque molto sull’ambiente anche per l’utilizzo di tecnologie inadeguate. Si dovrà produrre più cibo seguendo un modello di intensificazione sostenibile: utilizzare tecnologia e pratiche di coltivazione che chiedono meno input (fertilizzanti, pesticidi e irrigazione) ma danno migliori risultati senza aumentare la quantità di terra coltivata. In qualche caso potrà essere utile l’applicazione delle nuove tecnologie di miglioramento genetico, come l’editing genomico, con la necessità di conoscere sempre meglio i meccanismi che le piante, che oggi coltiviamo, hanno sviluppato nel tempo per lavorare sulla loro capacità di adattamento ai diversi climi e al clima che cambia. Ci sono situazioni in cui può funzionare la smart agriculture, con sistemi integrati di rete che raccolgono costantemente i dati e monitorano i campi, il meteo, la situazione del suolo, lo stato di salute delle piante. Ma anche questa soluzione richiede infrastrutture di buona qualità: connettività, sistemi che reggano la gestione dei dati. Strumenti che fanno fatica a essere garantiti perfino in ampie zone rurali e montane del nostro Paese, senza nemmeno guardare ai Paesi lontani. Ma che stanno dando importanti contributi in alcuni settori economicamente avanzati come la viticoltura, per esempio.

Innovare l’agricoltura come se fosse un’altra filiera industriale non è sempre la soluzione, e lo dimostrano molte storie recenti. Almeno sotto il profilo dell’impatto sociale e culturale. Negli Stati Uniti, dove è permesso coltivare e produrre praticamente ogni cosa, dagli Ogm a colture ampiamente sostenute in termini di input chimici all’uso intenso della meccanizzazione in campo quando non della robotica, non pare che tutto questo high-tech abbia aiutato la gran parte dei piccoli contadini degli Stati tradizionalmente rurali. Dal 2013, per esempio, nel solo Wisconsin è salito il debito complessivo in capo ai piccoli agricoltori toccando cifre record di oltre 400 miliardi di dollari. Molti di loro hanno dovuto cedere le proprie aziende a grosse compagnie che automatizzano le filiere. Situazioni analoghe si registrano in Nebraska, in Iowa, Missouri e via dicendo.

A inizio anni Novanta, i piccoli e medi agricoltori americani erano la metà del totale, adesso sono meno di un quarto e in gran parte non sono più produttori indipendenti ma integrati in processi e filiere intensive e industriali. Ingrandirsi o essere espulsi dal mercato è stato un mantra del mondo agricolo americano fin dagli anni Settanta. Oggi però, quando la Fao non solo riconosce l’importanza dei piccoli agricoltori ma decide addirittura di dedicare a loro l’intera risoluzione Onu Un Decade of family farming lanciata nel 2019, di questi piccoli agricoltori in molti Paesi ad agricoltura cosiddetta “avanzata” rischia di rimanere ben poco. E quando le comunità agricole si svuotano e abbandonano i territori, questi territori non sono più presidiati, non c’è più gestione, attenzione e cura.

In molti Paesi ci sono altri agricoltori che stanno sperimentando nuove strade. Nei Paesi del Nord del mondo come in quelli del Sud. Spesso si tratta di giovani che vedono in un’agricoltura innovativa e sostenibile un futuro possibile. E se questo movimento è ancora minoritario nei Paesi che hanno vissuto un’intensa industrializzazione come il nostro, pur essendo cresciuto sostanzialmente negli ultimi 20 anni, in altre regioni del mondo, come nel continente africano, sono tanti i giovani imprenditori agricoli che studiano, sperimentano e mostrano i propri risultati concreti all’interno delle grandi conferenze internazionali, dalle Cop sul clima ai Food Systems Summit delle Nazioni Unite e della Fao. Si tratta di un approccio basato sull’idea di valorizzare l’immensa agrobiodiversità, intesa non come mero elenco delle varietà colturali a disposizione, ma tutto il sistema complesso di rapporti, interazioni tra piante, animali, microrganismi, ambiente circostante. Un equilibrio che tiene dentro anche le comunità umane che in quell’ambiente vivono e lavorano. Non si tratta di una visione nostalgica, ispirata a un ipotetico e mitologico passato dove tutto andava bene. Al contrario, c’è il desiderio di innovare e progredire senza però perdere del tutto il controllo sulla propria vita, senza dover abbandonare la terra, senza dipendere esclusivamente da logiche commerciali e industriali decise a migliaia di chilometri di distanza e in centri di potere del tutto impermeabili alle esigenze e necessità dei piccoli agricoltori. Senza dover sottostare a logiche postcoloniali che ancora sono imperniate sull’idea di dover esportare a scatola chiusa la tecnologia, la conoscenza, i saperi come se le popolazioni del mondo non avessero alcuna competenza di relazione con il proprio ambiente di appartenenza.

Il punto sta tutto qui. Il problema della produzione alimentare, ma soprattutto dell’accesso al cibo, è primariamente un problema politico. Storico, economico e politico. Ben prima che scientifico o tecnologico. E proprio a livello politico, in Europa così come in diverse organizzazioni internazionali, si guarda finalmente con un certo interesse all’agroecologia e all’agrobiodiversità. In anni recenti sono stati finanziati dai programmi della Commissione Europea diversi network di ricerca multiattore, dove scienziati e agricoltori lavorano insieme, per combinare efficacemente le esigenze alimentari con quelle di riduzione dell’impatto sul clima, le prospettive economiche per le popolazioni rurali, il presidio dei territori e la possibilità di diversificare le scelte alimentari e nutrizionali delle popolazioni del mondo. Una combinazione che richiede, prima di tutto, uno sguardo di lungo periodo, una visione politica capace di andare al di là dell’interesse economico immediato e di accettare che la diversità va coltivata, mantenuta, non semplicemente preservata in modo statico, ma valorizzata in campo e nell’intero sistema agricolo.

Con l’aumento della popolazione mondiale, crescono le richieste di cibo, e in particolare di cibo di qualità. Anche nei Paesi a basso reddito si avvicendano generazioni di persone più benestanti e con queste aumenta la domanda di cibi più nutrienti. A volte anche di cibi meno sostenibili, come appunto la carne e i suoi derivati. Al netto del fatto che non possiamo – quelli di noi che hanno il privilegio di scegliere cosa mangiare – dare indicazioni a quella parte di mondo (non solo e non sempre in altri Paesi, visto che povertà e divari aumentano anche da noi) che questo privilegio non ce l’ha, è necessario acquisire consapevolezza sul peso di queste scelte, individuali e collettive, guardando alla produzione alimentare come a un settore nel quale è possibile e necessario innovare tenendo in considerazione gli impatti ambientali e climatici. E dunque è imprescindibile lavorare per rendere l’agricoltura più sostenibile dal punto di vista ambientale e più equa sul piano sociale, economico e culturale.

Questo pezzo è tratto dal libro Il clima che vogliamo. Ogni decimo di grado conta.

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