SOCIETÀ

COP16: Il Global Biodiversity Framework alla prova dei fatti

Fino a venerdì 1 novembre si tiene a Cali, in Colombia, la sedicesima Conferenza delle Parti della Convenzione sulla Diversità Biologica, a cui aderiscono 196 Paesi del mondo.

L’appuntamento era molto atteso: va in scena, infatti, due anni dopo la COP15 di Montréal, terminata con uno storico accordo – noto come Kunming-Montréal Global Biodiversity Framework (GBF) – che ha definito gli obiettivi internazionali di tutela della biodiversità da raggiungere entro il 2030.

A due anni dall’adozione del GBF, la COP16 rappresenta la sua prima verifica: entro l’inizio della conferenza, i Paesi aderenti avrebbero infatti dovuto presentare le proprie NBSAPs (National Biodiversity Strategies and Action Plans, Strategie nazionali e piani d’azione sulla biodiversità). Le NBSAPs sono uno strumento analogo alle NDCs (Nationally Determined Contributions) – documenti che i Paesi devono inviare alle Nazioni Unite ogni cinque anni per dimostrare di essere in linea con gli obiettivi di contrasto al cambiamento climatico definiti dall’Accordo di Parigi – e hanno lo scopo di monitorare l’attuazione dei 23 target del Global Biodiversity Framework. Le NBSAPs devono essere inviate ogni due anni; a differenza delle NDCs, tuttavia, questo impegno non costituisce un obbligo legale per i Paesi che hanno aderito all’accordo, la cui implementazione è su base volontaria.

Contributi volontari: il tallone d’Achille del Global Biodiversity Framework

La mancanza di un obbligo di attuazione ha già mostrato i suoi effetti: alla fine della prima settimana di Conferenza, solo 34 Paesi più l’Unione Europea (cioè il 18% delle Parti della CBD) avevano presentato le proprie Strategie e piani d’azione sulla biodiversità, mentre 115 hanno presentato degli Obiettivi nazionali (National Targets) in linea con quelli del Global Biodiversity Framework. Come sottolineano Carbon Brief e The Guardian, che insieme hanno curato un’analisi sull’avanzamento delle politiche per la biodiversità di ogni Paese, “solo cinque dei 17 Paesi megadiversi, in cui vive circa il 70% della biodiversità del pianeta, hanno elaborato le proprie NBSAPs: Australia, Cina, Indonesia, Malesia e Messico. Il Suriname è stato l’unico Paese della foresta amazzonica a presentare il proprio piano, e nessuna delle nazioni del Bacino del Congo ha prodotto le NBSAPs entro la scadenza. Canada, Italia, Francia e Giappone sono stati gli unici Paesi del G7 a rispettare il termine”.

Neanche la Colombia, Paese ospitante dell’evento, ha rispettato la scadenza; la motivazione, addotta anche dal Brasile, è che l’attuazione di un approccio whole-of-government” e “whole-of-society, cioè rispettoso ed inclusivo verso tutti i portatori d’interesse, richiede molto tempo e un grande sforzo. Diversi Paesi si sono comunque impegnati a inviare le proprie NBSAPs entro la fine del 2024 o l’inizio dell’anno seguente.

L’assenza di un vincolo legale rimane però uno dei principali punti di debolezza dell’accordo di Montréal: uno dei temi più spinosi che i delegati hanno dovuto discutere durante le due settimane di negoziati in Colombia riguarda proprio l’implementazione, sia in termini di finanziamenti che di monitoraggio.

Il nodo delle risorse finanziarie

La COP15 aveva lasciato diverse questioni irrisolte: tra queste, un accordo sulla mobilitazione delle risorse (i soldi necessari per finanziare, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, le necessarie azioni di tutela della biodiversità) che aveva lasciato molti insoddisfatti. La dimensione finanziaria del GBF è stata demandata – tra le proteste della maggior parte dei Paesi del Sud del Mondo, che avrebbero preferito l’istituzione di un fondo globale ad hoc – alla Global Environment Facility, che ha istituito il Global Biodiversity Framework Fund (GBFF), a cui ad oggi hanno aderito 186 Paesi e per cui è stato raccolto l’impegno a versare 396 milioni di dollari, a cui si aggiungono ora circa altri 140 milioni promessi da alcuni Paesi negli ultimi giorni della COP16. Si tratta, però, di numeri irrisori rispetto al necessario: un rapporto del 2022, infatti, calcolava che per mettere in atto azioni efficaci di protezione e ripristino della natura servirebbero circa 800 miliardi di dollari l’anno, mentre gli investimenti globali in questo settore ammontavano, nel 2019, a 130-140 miliardi annui.

La mancanza di risorse finanziarie continua a creare tensione soprattutto tra i Paesi cosiddetti sviluppati e quelli in via di sviluppo (che spesso sono anche i Paesi più biodiversi). Questi ultimi lamentano, proprio come nei negoziati sulla lotta al cambiamento climatico, la mancanza di un adeguato sostegno da parte dei Paesi più ricchi, che sono anche i principali responsabili storici dell’odierna crisi ambientale. Trovare un accordo sulla provenienza e la distribuzione delle risorse finanziarie da impiegare per la tutela della biodiversità è uno degli obiettivi più importanti di questa COP – ma, a un passo dalla chiusura dei negoziati, un accordo sembra ancora lontano.

Finora, infatti, gli osservatori in loco hanno descritto la Conferenza come interlocutoria: non ci sono stati annunci o avanzamenti particolarmente eclatanti. Una (parziale) eccezione è rappresentata dal lancio della “World Coalition for Peace with Nature”, iniziativa guidata dalla Colombia e sottoscritta da 20 nazioni, che rappresenta una “chiamata all’azione” per “aumentare gli sforzi verso la realizzazione di una relazione equilibrata e armoniosa con la natura per garantire una maggiore sostenibilità attraverso la protezione e la conservazione della natura, il ripristino e l’uso sostenibile della biodiversità globale”.

Il ruolo delle popolazioni indigene e delle comunità locali

Un altro tema “caldo” del negoziato di Cali è il riconoscimento del ruolo delle popolazioni indigene e delle comunità locali per la tutela della biodiversità globale. Come rileva l’organizzazione non governativa Survival International, l’attuale Framework è ambiguo sul tema: mentre nel testo ufficiale del GBF, principale risultato della COP15, ben 7 dei 23 obiettivi contengono un riferimento ai popoli indigeni e ai loro diritti, nel Monitoring Framework questi ultimi non vengono mai menzionati. Una delle questioni aperte riguarda proprio il finanziamento di questi attori: non è chiaro in che modo possano accedere alle risorse del GBFF – il 20% delle quali, secondo quanto stabilito, dovrebbe essere destinato a popolazioni indigene e comunità locali – così da essere messi davvero nelle condizioni di tutelare la biodiversità e ripristinare gli ecosistemi nei territori da loro gestiti.

Survival International ha analizzato tutti i 22 progetti finora approvati dal GBFF, individuando una serie di problematiche sostanziali. La prima è a monte, e consiste nel fatto che la Global Environment Facility non ponga come requisito per finanziare i progetti che coinvolgono popolazioni indigene l'obbligo di raccogliere preventivamente il loro consenso informato: questo aumenta drammaticamente il rischio che si finanzino progetti che perpetuano un approccio coloniale alla conservazione della natura, approccio che nel tempo ha causato migrazioni forzate, violazione dei diritti e perdita di conoscenze tradizionali e culture dei popoli indigeni.

La seconda problematica riguarda l'accesso ai finanziamenti: hanno facoltà di presentare domanda solo le “Agenzie GEF”, “un gruppo di 18 istituzioni che comprende soprattutto banche multilaterali per lo sviluppo come la Banca Mondiale, agenzie delle Nazioni Unite come l’UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo), i due enti per la conservazione WWF-US e Conservation International (che hanno entrambe una lunga storia di complicità nelle violazioni dei diritti umani ai danni delle popolazioni indigene), e l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN)”. Questa selezione in ingresso implica che “dal momento che i governi dei Paesi in via di sviluppo e altri potenziali candidati, come le popolazioni indigene, sono stati tagliati fuori dalla possibilità di presentare domanda di finanziamento in modo autonomo, le privilegiate Agenzie GEF si trovano in una posizione molto potente per definire cosa verrà proposto e cosa no”. Non si tratta solo di un rischio, ma di qualcosa che si sta già verificando: come riporta Survival International, i principali destinatari dei fondi per i 22 progetti ad oggi approvati sono WWF-US, UNDP e Conservation International; inoltre, solo uno di questi  22 progetti andrà probabilmente a beneficio di popolazioni indigene.

Passi avanti

I temi affrontati durante la COP16 sono molti, e altrettanti gli ambiti in cui sono stati registrati progressi negoziali: ad esempio, si sta finalmente definendo un accordo per il cosiddetto Digital Sequence Information (DSI) Mechanism, uno strumento internazionale per l’equa redistribuzione dei benefici e dei profitti derivanti dalle informazioni contenute nelle risorse genetiche della natura, a lungo sfruttate dai Paesi del Nord del Mondo senza un’adeguata condivisione con le nazioni da cui queste risorse venivano prelevate (una pratica nota come biopiracy). Gli obiettivi del DSI Mechanism sono diversi: garantire una politica di pubblico accesso ai dati, tutelare i diritti di comunità locali e popoli indigeni, favorire la ricerca legata alle risorse genetiche naturali, e raccogliere fondi aggiuntivi (derivanti da un’equa redistribuzione dei profitti) da reinvestire nella protezione della biodiversità.

L’ultimo chilometro

Giovedì 31 ottobre e venerdì 1 novembre, gli ultimi due giorni di negoziato (salvo eventuali estensioni, come accaduto alla fine di COP15), si tiene il “Segmento di Alto Livello” della Conferenza, che vede la partecipazione di capi di Stato, ministri e viceministri dell’ambiente dei 196 Paesi, riuniti per discutere la versione finale del testo che racchiuderà l’esito della COP16. Il risultato è tutt’altro che scontato. Ma questa COP ha superato diversi record: con più di 23.000 partecipanti registrati, è stata la più partecipata tra tutte le COP sulla biodiversità celebrate finora – e, come ha sottolineato il presidente della Colombia, questo grande successo di partecipazione e impatto mediatico indica che finalmente il tema della biodiversità viene percepito, nei consessi di governance ambientale internazionale, come tanto importante quanto il cambiamento climatico.

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