SOCIETÀ

Una voce dall'inferno di Haiti

«Viviamo ogni giorno con la paura nello stomaco, nella mente. La violenza è diffusa e non risparmia nessuno, soprattutto a Port-au-Prince e nel dipartimento di Artibonite. Le bande criminali sono riuscite, nella più totale impunità, a controllare oltre l’85% del territorio della capitale. Tutti i diritti, umani e sociali, sono sistematicamente violati. Lo Stato è completamente assente. Gli abusi dei gruppi armati hanno costretto circa 800mila persone a spostarsi, ad abbandonare le proprie case e tutti i loro averi e a fuggire altrove, nella provincia, nelle aree rurali. Quasi tutti gli ospedali e i centri sanitari pubblici sono stati saccheggiati o distrutti dalle bande armate. Viviamo nel terrore, e siamo circondati dall’orrore». Dall’inferno di Haiti ci arriva la voce di Colette Lespinasse, giornalista, attivista per i diritti umani e corrispondente per Coordination Europe Haiti (CoEH), una piattaforma di ONG europee che lì operano, in quella che un tempo era definita “la perla delle Antille”, e che oggi è la nazione più povera e tormentata delle Americhe. Da oltre tre anni l’isola è nel caos più totale (quasi 4mila morti soltanto nei primi 6 mesi di quest’anno, secondo le stime), una crisi deflagrata nella sua pienezza dopo l’omicidio del presidente Jovenel Moïse, assassinato nella sua casa sulle colline di Port-au-Prince il 7 luglio 2021 (per ammazzarlo era stato allestito un commando formato da 28 sicari, molti dei quali colombiani, molti dei quali poi a loro volta uccisi). Una nazione più volte devastata da uragani, terremoti e inondazioni, colpita a morte dalle epidemie, dalla corruzione endemica, dalla povertà che ormai dilaga in ogni angolo dell’isola. Le bande criminali, si stima ne esistano oltre 200, dettano le regole a suon di violenza e non c’è uno stato, un governo, una magistratura, una polizia, un esercito, in grado di contrastarle. È di poche ore fa la notizia di una strage: oltre 110 persone uccise per ordine del leader di una banda rivale perché accusate di "stregoneria". Haiti non ha più nemmeno un Parlamento in carica: le ultime elezioni si sono tenute nel 2016. Sono le gang a “fare” la politica, spesso in combutta con leader politici e imprenditoriali del paese. Lo scorso marzo si sono perfino unite in una sorta di coalizione, chiamata Viv Ansanm, traducibile dal creolo haitiano in “vivere insieme” o “combattere uniti”, per costringere, a furia di violenze, di devastazioni, di attacchi contro stazioni di polizia, prigioni e sedi istituzionali, alle dimissioni il successore di Moïse, Ariel Henry. Ma sono sempre le gang (le più importanti sono la G9, guidata dal famigerato Jimmy Chérizier, ex poliziotto noto con il soprannome di “Barbecue”, appena scampato a un tentativo di cattura da parte del contingente di polizia internazionale guidato dal Kenya, e la GPep, con a capo Ti-Gabriel e Mathias Saintil), a offrire agli haitiani più poveri, più giovani, spesso troppo giovani, l’unico possibile spiraglio per uscire dalla miseria, anche se a un prezzo altissimo. In questa somma di catastrofi (sociale, politica, umanitaria, economica, sanitaria) solo due “settori” vanno alla grande: il traffico di droga (cocaina dal Sud America, cannabis dalla Giamaica) e quello di armi, nonostante l’embargo rinnovato alla fine del 2023 dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Eppure, alle gang, armi e munizioni non mancano mai. «Dovremmo riuscire a tagliare le linee di rifornimento delle bande», sottolineava alcuni mesi fa, alla Cnn, Pierre Esperance, direttore esecutivo della Rete Nazionale di Difesa dei Diritti Umani di Haiti.  Se non avessero proiettili, le loro mitragliatrici diventerebbero nient'altro che mazze». Sempre la Cnn riferisce che alcuni esperti, dall’analisi di filmati provenienti dall’isola, hanno riconosciuto armi e parti accessorie provenienti da Israele, Turchia, Repubblica Ceca, probabilmente Brasile e, soprattutto, dagli Stati Uniti. E se le armi arrivano, vuol dire che c’è qualcuno che da questa situazione (di caos, di violenza, di sopraffazione, di morte) sta traendo un enorme vantaggio.

Servono “parole” per raccontare, e per comprendere appieno cosa sta accadendo da oltre tre anni in quella che un tempo era definita “la perla nera dei Caraibi”

Dunque servono “parole” per raccontare, e per comprendere appieno cosa sta accadendo da oltre tre anni in quella che un tempo era definita “la perla nera dei Caraibi”, primo stato indipendente dell’America Latina e dei Caraibi dell’era coloniale e prima repubblica a guida nera quando si liberò del dominio francese, nel 1804. Mentre oggi è la nazione più povera e tormentata delle Americhe. Ma partiamo dagli episodi più recenti. Come quello avvenuto lo scorso 11 novembre a Port-au-Prince, la capitale. Un’ambulanza di Médecins Sans Frontières stava trasportando tre giovani con ferite da arma da fuoco verso l’ospedale di Drouillard (dipartimento ovest di Haiti), direttamente gestito dall’organizzazione umanitaria, quando la polizia locale (non bande criminali) ha intimato l’alt al personale di MSF, che è stato insultato, minacciato, obbligato a dirigersi verso un altro ospedale, pubblico, l’Hôpital La Paix. Lì arrivati gli agenti hanno circondato l’ambulanza, tagliato le gomme e lanciato lacrimogeni all’interno del veicolo per costringere anche i feriti a uscire: almeno due di loro sono stati poi portati dalla stessa polizia haitiana in un’area adiacente all’ospedale, e lì giustiziati. MSF l’ha definita “una scioccante dimostrazione di violenza”. Secondo episodio: tra l’11 e il 12 novembre, tre aerei statunitensi sono stati colpiti da proiettili: due mentre erano in fase di decollo (e i danni sono stati scoperti dopo l’atterraggio negli Stati Uniti), mentre un terzo (il volo della Spirit Airlines 951 proveniente da Fort Lauderdale, in Florida) è stato costretto ad abortire l’atterraggio dopo essere stato colpito da vari proiettili, atterraggio poi effettuato senza conseguenze nella vicina Repubblica Dominicana (che con Haiti condivide l’isola Hispaniola). Entrambi gli episodi hanno avuto conseguenze. Le tre compagnie aeree americane coinvolte (oltre alla Spirit Airlines, anche la JetBlue Airways e la Delta Airlines) hanno bloccato i loro voli, ma la Federal Aviation Administration degli Stati Uniti ha vietato a tutte le compagnie aeree statunitensi di operare ad Haiti per 30 giorni (dunque fino a metà dicembre). Le autorità haitiane hanno poi deciso di chiudere, temporaneamente, l’aeroporto internazionale Toussaint Louverture di Port-au-Prince. Il 13 novembre Médecins Sans Frontières ha annunciato la sospensione, dopo oltre trent’anni di servizio, delle proprie attività di soccorso sull’isola. «Come MSF accettiamo di lavorare in condizioni di insicurezza, ma quando anche le forze dell’ordine diventano una minaccia diretta, non abbiamo altra scelta se non sospendere la presa in carico di nuovi pazienti nelle nostre strutture a Port-au-Prince fin quando non ci saranno le condizioni per poter riprendere», ha dichiarato Christophe Garnier, capomissione di MSF ad Haiti. «Ogni giorno che passa senza attività è una tragedia, perché siamo tra i pochi che in questo anno estremamente difficile hanno fornito numerosi servizi medici. Tuttavia, non possiamo più continuare a operare in un contesto in cui il nostro personale rischia di essere attaccato, violentato o addirittura ucciso». I cinque ospedali, per il momento, continueranno a garantire assistenza ai pazienti già ricoverati. Ma Haiti, di fatto, è isolata. Le Nazioni Unite hanno deciso di evacuare buona parte del proprio personale attraverso dei voli privati verso Panama. L’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (OIM) ha comunicato che più di 40mila persone sono fuggite dalle loro case, a Port-au-Prince, soltanto tra l’11 e il 20 novembre. «La portata di questo sfollamento è senza precedenti da quando abbiamo iniziato a rispondere alla crisi umanitaria nel 2022», ha dichiarato Gregoire Goodstein, responsabile dell’OIM ad Haiti. «Questa crisi non è solo una sfida umanitaria. È una prova della nostra responsabilità collettiva».

La prova della resistenza della popolazione locale

Colette Lespinasse è la prova della resistenza della popolazione locale, almeno di una parte. Del non arrendersi al corso degli eventi, del non rassegnarsi al dilagare della violenza, agli abusi quotidiani, ai diritti negati. Un impegno che risale agli anni Ottanta e che non si è mai interrotto. Dice di sé: «Sono un’attivista ed educatore per i diritti umani. Lavoro molto sui diritti dei migranti, delle donne, dei bambini e in generale su tutti i diritti fondamentali per difendere i gruppi più vulnerabili, esclusi dalla nostra società. A mio avviso, il rispetto dei diritti umani rappresenta un indicatore eccezionale per misurare il livello di umanità, giustizia e rispetto. È anche una bussola efficace per orientare le azioni e i comportamenti di chi aspira a un mondo migliore, un mondo di pace». Anche lei è tra gli sfollati di Port-au-Prince. «Ma ho avuto la fortuna di trovare un amico che mi ha accolta. Attualmente vivo non lontano da Pétionville, in uno dei quartieri che non sono ancora caduti nelle mani delle bande. Questo è il secondo posto in cui mi sono rifugiata. Avevo costruito la mia casa a Lilavois, comune della Croix-des-Bouquets, e vivevo lì tranquillamente con la mia famiglia. Nell’agosto del 2023, in seguito all’annuncio di un imminente attacco da parte di un gruppo armato al quartiere, tutti i vicini sono fuggiti rapidamente. Ho raccolto alcune cose e ci siamo rifugiati presso alcuni amici. Due mesi dopo abbiamo dovuto lasciare questo rifugio:  per andare più lontano, perché era sempre più pericoloso restare lì e le strade bloccate ci impedivano di muoverci. In questo secondo movimento ho collocato mia madre, 89 anni, che viveva con me, in una casa di riposo a circa 30 chilometri a sud della capitale. Non posso andare a trovarla facilmente, perché le strade che portano al paese dove si trova sono bloccate dai banditi. Per due volte ho dovuto fare una grande deviazione, prendendo un aereo per andare molto lontano nel Sud e da lì in autobus per tre ore, percorrendo 150 chilometri per andare a trovarla. Riesco a restare in contatto con lei attraverso il telefono o con il computer quasi ogni giorno, ma video e foto non possono sostituire il calore della presenza umana».

Colette, puoi raccontarci come si vive oggi ad Haiti? È possibile abituarsi a convivere con la paura?

«La vita ad Haiti oggi è estremamente difficile, soprattutto per chi vive nella capitale, in quella che chiamiamo “Area Metropolitana” composta da nove comuni: oggi ne restano solo due che non sono ancora considerati “territori perduti”, cioè completamente sotto il dominio delle bande criminali. La violenza è esplosa almeno dal 2018: questi gruppi armati uccidono, saccheggiano, stuprano, bloccano le strade che portano a Port-au-Prince. Dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moïse le bande si sono moltiplicate e sono riuscite a prendere il controllo di quasi l'80% della capitale: si sostentano sequestrando le persone, facendosi pagare un riscatto, e dirottando camion di merci. Per evitare di esporci agli attacchi dei banditi dobbiamo muoverci con prudenza, evitare feste e assembramenti, uscire di casa solo se necessario. Ma in qualsiasi momento, ovunque tu sia, puoi essere colpito da un proiettile sparato intenzionalmente o a caso da un killer. Gli esempi di persone uccise da un proiettile vagante sono tantissime. Il 16 novembre, una giovane ragazza seduta nel cortile della sua casa in una zona residenziale di Port-au-Prince (a Turgeau) è morta colpita da un proiettile vagante alla testa. A volte può trattarsi anche di un’esecuzione sommaria da parte di un membro di una banda, che si sente disturbato nei suoi affari o perché semplicemente decide di uccidere un essere umano che si trova sul suo cammino. L’11 novembre una giovane dottoressa, una delle poche urologhe rimaste nel nostro paese, è stata giustiziata a freddo con un colpo di pistola alla testa, molto vicino alla clinica di suo padre dove era venuta a ritirare alcuni documenti. Il 30 novembre è stata la volta di un’altra signora uccisa a sangue freddo dopo essere stata colpita alla schiena mentre si trovava a bordo di un autobus. Questa è la vita a Port-au-Prince. Ad Artibonite, il 3 ottobre, gli abitanti di Pont Sondé sono stati sorpresi durante la notte da un raid della banda Grandes Griffes. Quel giorno più di cento persone furono uccise mentre dormivano in casa, molti altri feriti, decine di dispersi. Come puoi non avere paura se sei umano? Gli abusi dei gruppi armati hanno costretto circa 800.000 persone a spostarsi, vale a dire ad abbandonare le proprie case e tutti i loro averi. Solo nel mese di novembre 2024, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ha registrato più di 40.000 casi di sfollati in seguito alla presa di Solino, un vasto quartiere nel cuore di Port-au-Prince».

Come fanno le bande a conquistare i quartieri?

«Scelgono sempre i più popolosi. Cominciano con il rapire alcune persone, a scopo d’estorsione. Compiono omicidi spettacolari, in strada, che tutti vedano e sappiano. Poi danno fuoco alle abitazioni per costringere tutti ad andarsene, saccheggiano le case e prendono il controllo del luogo. Questa è la prima fase. Nella seconda impongono la loro legge a tutti coloro che restano, che non sono riusciti a fuggire, o non hanno potuto. Esigono il pagamento dei “diritti di passaggio” nelle strade più frequentate. Gli abitanti dei quartieri controllati dalle bande non dipendono più dallo Stato haitiano, ma soltanto dai banditi che prendono “le funzioni” di agenti di polizia, esattori delle tasse, giudici, ecc. Se ritengono che tu sia colpevole di qualcosa, possono decidere sanzioni che possono includere la morte, soprattutto se sei sospettato di collusione con la polizia. Va avanti così almeno dal 2021. In queste condizioni, molte imprese che offrivano lavoro hanno chiuso i battenti. I commercianti non possono più aprire le loro bancarelle, né andare avanti e indietro per procurarsi le scorte. Molto prima di questa discesa agli inferi la popolazione viveva principalmente di economia informale, attività improvvisate, spesso precarie, non regolamentate, capita spesso quando non c’è altra strada per sopravvivere. L’azione delle cosche ha quasi completamente paralizzato questi lavori. E questo non fa che aumentare la miseria e il livello di povertà nel paese. Conosco famiglie che si sono già trasferite tre o quattro volte. Ogni volta che un quartiere viene “invaso”, per sfuggire alla morte le persone si spostano in altri quartieri considerati più o meno sicuri. Vanno a casa dei parenti o si rifugiano negli edifici pubblici come le scuole, molte delle quali non sono più disponibili ad accogliere gli studenti perché servono come alloggio per decine di famiglie sfollate. In questi campi per sfollati le condizioni di vita sono estremamente dure: mancano acqua e cibo e regna la promiscuità. Le persone sopravvivono soltanto grazie all’azione delle organizzazioni umanitarie che consegnano loro alcuni kit alimentari e igienici».

Gli abitanti dei quartieri controllati dalle bande non dipendono più dallo Stato haitiano, ma soltanto dai banditi

Ci sono luoghi dove puoi sentirti al sicuro? Le scuole, le chiese…

«Nessun luogo nella capitale Port-au-Prince offre una sicurezza perfetta. Nessuno... In diverse occasioni, i banditi sono entrati nelle chiese, hanno rapito persone e alcune di loro sono state giustiziate lì sul posto. Diverse scuole sono state saccheggiate e non hanno più nemmeno gli strumenti di base per accogliere gli studenti. Secondo le stime dell’UNICEF, più di mille scuole sono fuori uso e più di 200.000 bambini sono quindi privati dell’accesso all’istruzione. Alcuni quartieri sono impraticabili e impenetrabili, nessuno più si avventura lì. Altri sono ancora accessibili, ma restano “fragili”. Per proteggersi, i residenti dei diversi quartieri ancora accessibili hanno chiuso gli accessi posizionando grandi cancelli “controllati” agli ingressi e alle uscite. Non possiamo più spostarci da un quartiere all’altro come prima e a partire da una certa ora della sera le barriere che danno accesso a questi quartieri restano chiuse fino al mattino successivo. Le zone più sicure al momento restano i centri di provincia e le aree rurali. I banditi non sono ancora riusciti a stabilirsi lì, nonostante i loro tentativi. In queste città la gente continua a fare festa, a stare alzata fino a tarda notte e a svolgere le proprie attività in modo pacifico, pur rimanendo sempre vigili. Molti residenti della capitale si sono rifugiati presso i parenti in queste province, il che esercita molta pressione sulle scarse risorse a disposizione delle regioni».

Quali sono le nazioni più “vicine” ad Haiti in grado di offrire attenzione e sostegno?

«Difficile rispondere. Haiti ha rapporti con diversi paesi dell’America, dell’Europa, in misura minore con l’Africa e quasi per nulla con l’Asia. I paesi che hanno influenza su Haiti sono allo stesso tempo ex potenze occupanti o coloniali, il che a volte rende i rapporti tesi e segnati dalla sfiducia. È il caso degli Stati Uniti, un paese che ha occupato Haiti per 19 anni (1915-1934) e le conseguenze molto negative di questa occupazione sono ancora presenti, tra l’altro, nelle istituzioni pubbliche e nell’infrastruttura politica. È vero che molti cittadini haitiani, circa 2 milioni, hanno trovato rifugio negli Stati Uniti: le rimesse di denaro superano i due miliardi di dollari l’anno. Ma gli Stati Uniti considerano ancora oggi Haiti come parte del suo cortile, come un piccolo paese che non ha diritto all'autodeterminazione. Gli haitiani non capiscono perché gli Stati Uniti hanno sostenuto negli anni numerosi colpi di stato ad Haiti, elezioni fraudolente per portare al potere uomini che non erano di loro scelta, che non difendono alcun interesse per loro. Non capiscono questa ostinazione nel sostenere sempre un’élite corrotta, un oligarca che contribuisce all’impoverimento di gran parte della popolazione e alla sua esclusione sociale. Poi c’è la Francia, l’ex potenza coloniale di Haiti: i rapporti non sono mai stati molto cordiali. La diplomazia lo richiede, Haiti mantiene ancora rapporti di cooperazione con la Francia, ma si avverte sempre più una certa distanza e una grande riduzione dell’influenza francese su Haiti. Come molti paesi europei, la Francia resta ritirata dalla politica haitiana e preferisce seguire gli Stati Uniti. Sempre più voci si levano per chiedere alla Francia il rimborso dei fondi che Haiti è stata costretta a versarle per più di un secolo per il cosiddetto “debito di indipendenza”. Due paesi che hanno avuto esperienze molto positive di collaborazione con Haiti negli ultimi trent’anni sono Cuba e il Venezuela. Cuba invia da diversi anni tecnici sanitari e agricoli per aiutare Haiti. Questi ultimi si sono integrati nella popolazione, soprattutto nelle zone più abbandonate e hanno portato la loro esperienza alla popolazione che apprezza molto questo sforzo e questa cooperazione locale. Da parte sua, il Venezuela ha sostenuto Haiti con l’accordo sui fondi PetroCaribe fornendo carburante a condizioni ideali. Ciò ha permesso al paese di accumulare fondi che potevano essere investiti in infrastrutture di base e programmi sociali. Purtroppo, gli stessi oligarchi al potere sono riusciti a rubare questo denaro, per dirottarlo altrove senza offrire alcun reale servizio alla popolazione».

È possibile fare giornalismo ad Haiti oggi? Cosa stai raccontando e, soprattutto, a chi lo stai raccontando?

«I giornalisti ad Haiti si stanno impegnando molto per mantenere la libertà di stampa e la libertà di espressione, diritti conquistati attraverso dure lotte durante la dittatura di Duvalier. In questo senso, radio e giornali continuano a produrre contenuti e possono ancora essere critici. Fanno di tutto per tenere informate le persone sulle principali notizie che le riguardano. Tuttavia, sempre più spesso, i giornalisti tendono ad autocensurarsi ed evitare di affrontare e approfondire determinate questioni per paura per la propria vita. Il problema più grande oggi resta l’accesso alle informazioni. I giornalisti non possono raggiungere determinati luoghi, soprattutto quando sono occupati da gruppi armati, il che limita la loro copertura e la ricerca di informazioni. Le persone tendono a informarsi sui social network, in particolare su TikTok, dove circolano informazioni di ogni genere, spesso false, dove però è possibile commentare liberamente gli eventi. Gli stessi gruppi armati utilizzano ampiamente queste reti per diffondere messaggi di odio o per spaventare la popolazione. A volte vengono trasmessi o supportati da soggetti con sede in altri paesi, come gli Stati Uniti. Pochi giorni fa il Consiglio Nazionale delle telecomunicazioni (CONATEL) ha annunciato la sospensione della trasmissione di un programma di commento politico su Radio Méga, perché dava in gran parte voce alle bande per dare risalto alle loro imprese. Si sono levate voci per chiedere il ritiro di tale decisione che, secondo alcuni commentatori, mina la libertà di stampa, ma per altri è giusta, considerando la violenza esercitata da queste bande sulla popolazione. Per quanto riguarda le loro condizioni di vita, i giornalisti e i media si trovano ad affrontare gli stessi problemi della popolazione: risorse ridotte per operare, violenza tra bande, costrizione di numerosi organi di stampa a trasferirsi o perdita delle loro attrezzature. Si utilizza molto il lavoro a distanza. Anche i giornalisti sono stati rapiti. Nel corso del 2023, almeno cinque giornalisti sono stati tenuti prigionieri per diversi giorni e le loro famiglie hanno dovuto pagare ingenti somme di denaro per liberarli. I programmi sono generalmente in creolo e quelli più seguiti sono i notiziari, le analisi politiche e quelle di carattere religioso. Alcuni contengono anche consigli sulla salute o musica popolare per il tempo libero. Io stessa, ogni settimana, conduco un programma radiofonico sull’agroecologia, la protezione dell’ambiente e l’agricoltura sostenibile. Si intitola “Pou Demen Ka Bèl” (Perché domani sia migliore). Affronto una serie di temi che riguardano il cambiamento climatico, gli sforzi degli agricoltori per continuare a nutrire il paese, la necessaria partecipazione di diversi gruppi alla conservazione ambientale. Cerco di promuovere l'eco-cittadinanza incoraggiando comportamenti positivi, l’adozione di nuove politiche capaci di dare una nuova direzione al Paese, fornendo allo stesso tempo conoscenze e consigli per costruire questo futuro migliore che tutti noi desideriamo».

I principali media stranieri parlano poco di Haiti, e quando se ne parla descrivono il Paese come una vittima o come un bambino incapace di prendere decisioni Colette Espinasse

Cos’è che i media internazionali non hanno capito di Haiti?

«I principali media stranieri parlano poco di Haiti, e quando se ne parla descrivono il Paese come una vittima o come un bambino incapace di prendere decisioni o di agire correttamente per gestire i propri problemi. Le cause profonde delle crisi ricorrenti ad Haiti vengono raramente menzionate e le soluzioni già pronte, riproposte mille volte senza alcun successo, come i numerosi interventi di diverse missioni delle Nazioni Unite negli ultimi vent’anni, vengono sempre presentate come una panacea. La mia lotta, attraverso il CoEH e ​​altri spazi di comunicazione in cui svolgo la mia campagna, è quella di far conoscere la gravità della situazione, per far sentire le proposte della società civile per uscirne».

Quanto è grave l’interruzione dei servizi annunciata da Medici Senza Frontiere? Chi garantirà l’assistenza sanitaria?

«Gli incidenti avvenuti a novembre contro i pazienti trasportati dalle ambulanze di MSF sono deplorevoli e inaccettabili. È un duro colpo per la popolazione, soprattutto per i più poveri, che ricorrevano spesso a quei servizi di emergenza, in particolare per i casi di ferite da arma da fuoco e gli incidenti stradali, che sono molto frequenti. Nel contesto di guerra che stiamo vivendo ad Haiti, quasi tutti gli ospedali pubblici sono stati saccheggiati o distrutti da gruppi armati. Non è la prima volta che MSF è costretta ad annunciare la chiusura dei suoi servizi nella capitale a causa di attacchi contro le sue installazioni o il suo personale da parte di banditi o agenti di polizia. Ma finora, dopo il ritorno di una certa calma, ha sempre ripreso le sue attività. So che sono in corso trattative con il Ministero della Salute Pubblica e della Popolazione (MSPP), per la ripresa dei servizi, ma MSF esige garanzie dalle massime autorità dello Stato perché gli ultimi attacchi contro le sue ambulanze e il suo personale sono stati compiuti da agenti in uniforme della Polizia nazionale haitiana».

La violenza delle bande è davvero in aumento come raccontano i media? Il personale di MSF ha anche riferito di aver ricevuto continue minacce di morte o di stupro.

«Sì, la violenza delle bande è aumentata in modo significativo negli ultimi mesi del 2024 e ciò che dicono i media è vero. Oltre all’azione delle bande, c'è anche quella dei gruppi di autodifesa che cercano di proteggersi dai banditi e quella delle forze dell'ordine. Il numero delle persone uccise tra gennaio e settembre è di circa 5.000, secondo i dati pubblicati da diverse organizzazioni. Il traffico di armi non diminuisce, come dimostrano gli alti livelli di violenza armata nel paese e le nuove attrezzature che le bande sfoggiano. Ma anche i civili cercano sempre più spesso di garantire la propria sicurezza, anche ricorrendo a società private, come le unità della “Brigata di sorveglianza delle aree protette”, che non fanno capo al governo nazionale».

Anche donne e bambini sono arruolati dalle bande criminali?

«Donne e bambini sono tra le principali vittime di questa crescente insicurezza. Sebbene non siano disponibili dati ufficiali, organizzazioni umanitarie e per i diritti umani e funzionari governativi stimano che almeno il 30% dei membri di gruppi criminali sia composto da minorenni. “I bambini partecipano ad attività criminali che vanno dall’estorsione e dal saccheggio allo spionaggio e alla violenza grave, inclusi omicidi e rapimenti”, ha scritto Human Rights Watch in un rapporto pubblicato nel settembre 2024. Diversi bambini associati a gruppi criminali hanno riferito che la fame è stato il fattore principale che li ha costretti a unirsi a questi gruppi o che ha indotto le loro famiglie a permetterne l'adesione. Questi gruppi sono spesso la loro unica fonte di cibo e reddito, e gli unici a fornire loro un riparo. Le ragazze costrette a unirsi a gruppi criminali sono particolarmente vulnerabili alla violenza sessuale. Di solito vengono sfruttate come manodopera, per cucinare o pulire le case in cui vivono leader e membri di gruppi criminali. Durante il giorno sono anche responsabili delle commissioni e del trasporto di armi e munizioni. Secondo diversi operatori locali per i diritti umani, molto spesso vengono rilasciate dopo un certo periodo di tempo, di solito quando rimangono incinte in seguito a uno stupro. In questo contesto di grande violenza, le aggressioni sessuali perpetrate contro ragazze e donne sono numerose. Lo stupro è usato come forma di punizione e dimostrazione del potere delle bande. Il controllo di un quartiere si accompagna purtroppo anche alla presa di potere sui corpi delle donne».

Come uscire da questa situazione? Cosa potrebbe o dovrebbe fare la comunità internazionale per aiutare Haiti a ritrovare un minimo di pace e serenità?

«La situazione che stiamo vivendo ad Haiti è l’ultimo atto di una crisi profonda e strutturale, alla quale non è mai stata trovata una soluzione dalla nascita della nazione. Per superare tutto questo, è necessario mettere in atto strategie a lungo termine, con azioni progressive a breve termine. Abbiamo bisogno di politiche pubbliche che mirino a ridurre il livello di povertà estrema in cui si trova oltre il 90% della popolazione. Sono necessarie strategie per ridistribuire la ricchezza e promuovere la partecipazione dei gruppi sfruttati ed esclusi come gli agricoltori e le donne. La povertà è un terreno fertile per la proliferazione di ogni tipo di violenza. Abbiamo bisogno anche di politiche pubbliche a favore dei bambini, dei giovani e delle donne. L’abbandono dei giovani dei quartieri popolari che vivono per la maggior parte nell’ozio, senza alcuna presenza dello Stato, ha dato libero sfogo alle mafie che si sono infiltrate tra loro per corromperli e trascinarli nella delinquenza. Che ruolo può giocare la comunità internazionale in tutto questo? In primo luogo dovrebbe riconoscere i suoi ripetuti fallimenti ad Haiti e lasciare agli haitiani il compito di farsi carico del proprio destino cercando la propria strada. Naturalmente il sostegno sarà necessario, ma spetta agli haitiani determinarlo, incanalarlo, organizzarlo, richiederlo. Il sostegno precedente è stato troppo spesso egoistico, dettato dall’esterno e ha contribuito in gran parte a indebolire le strutture del Paese, rendendole più dipendenti e più vulnerabili. Per mettere in atto tutto questo è necessaria una leadership solida e assertiva. Ciò che ancora stiamo faticando a trovare. Le future elezioni sono annunciate, probabilmente nel corso del 2025 o 2026. La nostra speranza è di vedere, con queste elezioni, l’arrivo al potere di uomini e donne consapevoli della realtà del Paese. La questione è nelle nostre mani e dobbiamo lavorare con la popolazione per uscire dalla dura realtà in cui viviamo».

Cosa c'è nel tuo futuro? Rassegnazione, rabbia, speranza?

«Il futuro non mi è affatto chiaro. Sono arrabbiata per i tanti fallimenti, per la tanta incapacità, per l’inerzia degli uomini e delle donne (poche) al potere. Sono delusa dal comportamento di alcune persone su cui pensavamo di poter contare. Comprendo sempre di più il sistema politico haitiano e la sua capacità di fomentare la violenza. Il sistema mafioso ha monopolizzato lo Stato e non lascia spazio ad azioni a favore dei più poveri. I collegamenti di questo sistema con i paesi stranieri per mantenersi e perpetuarsi sono potenti. Sono convinta che senza una rottura profonda con questo sistema, non saremo mai in grado di spezzare questo ciclo infernale di miseria e sofferenza e costruire qualcosa di nuovo. Questa rottura va fatta prima nella nostra testa, nel nostro cuore e poi in tutto ciò che facciamo per rifiutare certi privilegi e metterci accanto agli altri, solidali con questa massa sofferente per cambiare le cose. Io, per quanto mi riguarda, non mi arrendo. Spero che Haiti, che stupì il mondo nel 1804 spezzando le catene della schiavitù e del colonialismo, due sistemi che dominavano il mondo a quel tempo, alla fine troverà la sua strada. Continuerò a lavorare per trasmettere ai più piccoli, ai giovani che si ritrovano sul mio cammino, i valori fondamentali dell’amore, della solidarietà, della condivisione, della giustizia, dei diritti umani. Nonostante tanto orrore intorno a me, continuerò a essere umana e a credere in una Haiti migliore».

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