SOCIETÀ

Gli Stati Uniti e quel problema mai risolto con le armi

Scenari di guerra in tempo di pace. Vittime distese in terra, spesso giovanissime, senz’altra colpa di essersi trovate nel posto sbagliato proprio mentre il cecchino di turno sparava nel mucchio, per distruggere, nell’ossessiva reiterazione di quell’orgia di violenza privata che fa degli Stati Uniti una nazione senza uguali al mondo. E senza un plausibile perché. Questo 2023 si avvia a diventare un anno record nel conteggio delle “sparatorie di massa”(in cui un aggressore uccide o ferisce più persone contemporaneamente usando un'arma da fuoco): finora ne sono state contate 209, più di una e mezza al giorno. Gli “omicidi di massa” invece (definiti così dall’FBI quando gli eventi provocano quattro o più morti entro 24 ore, escluso il colpevole) sono stati finora 21, più di uno a settimana. L’ultimo la scorsa settimana in Texas, ad Allen, poche miglia a nord di Dallas. L’assassino, 33 anni, un ex militare con simpatie neonaziste, cacciato dall’esercito nel 2008 per disturbi mentali, ha aperto il fuoco contro la folla nel parcheggio di un centro commerciale, l’Allen Premium Outlets, con il suo fucile leggero semiautomatico AR-15: otto morti, sette feriti. Tra le vittime, oltre all’assalitore, ucciso poi dalla polizia, anche tre bambini, di 3, 6 e 11 anni. Che il fucile fosse stato acquistato “legalmente” vuol dire poco negli Stati Uniti, e soprattutto in Texas, lo stato con il maggior numero di armi in circolazione (nel 2022 le licenze hanno superato il milione) e le leggi più permissive in materia. Tra pochi giorni, il 24 maggio, ricorrerà il primo anniversario di un’altra, gravissima, sparatoria di massa che si è verificata sempre in Texas, nella Robb Elementary School, della piccola cittadina di Uvalde. Modalità simili: un solo killer (18 anni, un tipo “solitario” che non aveva mai manifestato disturbi mentali), stesso fucile (AR-15: negli Stati Uniti, si stima, ne circolano 20 milioni di esemplari), stessa fine, nel senso che dopo la carneficina è stato ucciso dalla polizia, intervenuta con un considerevole ritardo sulla scena. Diciannove i ragazzini ammazzati, tutti tra i 9 e gli 11 anni. Oltre a due insegnanti. «Sembrava una zona di combattimento», ha dichiarato un veterano dell’esercito che si era precipitato al centro commerciale di Allen, dove lavora suo figlio.

«Quando affronteremo la vera causa?»

Simile anche l’impalcatura delle reazioni che si rinnovano, puntualmente, dopo ogni sparatoria: lo sgomento, il dolore dei familiari coinvolti, quella diffusa e appiccicosa sensazione di paura, l’indignazione collettiva che però a un tratto si biforca, soprattutto quando scende in campo la politica, tra chi punta il dito contro l’eccessiva facilità dell’accesso alle armi e chi invece continua a sostenere il “diritto a difendersi”, evidentemente a qualsiasi costo. Una situazione cristallizzata, dopo decenni di stragi (quella della Columbine High School, che ispirò il film Elephant di Gus van Sant e il documentario di Michael Moore Bowling for Columbine, risale al 1999) e di interrogativi mai risolti. Sheila Jackson Lee, avvocata, rappresentante degli Stati Uniti per il 18° distretto congressuale del Texas, ha commentato l’ultima tragedia: «Sono così stanca, ferita e devastata dalle continue sparatorie di massa in questo stato e in questa nazione. Persone innocenti continuano a morire per colpi d’arma da fuoco. Ancora pistole, pistole, pistole. Naturalmente offro le mie preghiere e le mie preoccupazioni per quelle famiglie che stanno lottando con la perdita dei loro cari. Ma pongo anche la domanda: Quando affronteremo la vera causa»? Secondo il senatore democratico Roland Gutierrez «i legislatori del Texas devono avere il coraggio politico di fare qualcosa contro la violenza armata. È triste che questa sia diventata la nostra realtà quotidiana. Grazie al regime repubblicano che ha guidato lo stato negli ultimi 30 anni, le leggi sulle armi sono più permissive che mai». Il governatore del Texas, il repubblicano Greg Abbott, uno che nel 2015 incitava i residenti nel suo stato ad acquistare più armi e a superare la California in termini di possesso di nuove armi, quasi fosse una gara, ha definito la sparatoria di Allen «una tragedia indicibile», senza tuttavia cedere di un millimetro sul tema delle armi: «Abbiamo visto un aumento del numero di sparatorie in stati con leggi permissive sulle armi, ma anche in stati con leggi molto più severe. La verità è che c’è un drammatico aumento di rabbia e di violenza, dovuti a problemi di salute mentale. Dobbiamo fare di più su questo punto». Sull’onda emotiva della strage di Allen, un comitato bipartisan della Camera del Texas ha approvato un disegno di legge che punta ad aumentare l’età minima per l’acquisto di fucili tipo AR-15, da 18 a 21 anni. Scrive il New York Times: «Il testo dev’essere ancora esaminato dall’intera Camera del Texas. Ma anche se dovesse passare – una prospettiva improbabile – affronterebbe un rifiuto quasi certo da parte del Senato dello Stato, dove il vice governatore di estrema destra, Dan Patrick, detiene il controllo assoluto».

Il diritto del popolo di detenere e portare armi, non deve essere violato II emendamento Costituzione degli Stati Uniti

Difesa delle armi e Secondo Emendamento

Insomma, siamo alla solita impasse. Alla solita contrapposizione tra “paura” e “libertà”. Tra chi sventola come un simbolico vessillo il Secondo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America (“il diritto del popolo di detenere e portare armi, non deve essere violato”) e chi invece punta a fissare dei limiti, come peraltro ha fatto nel 2008 anche la Corte Suprema: «Il diritto alle armi non è illimitato e non preclude l’esistenza di alcuni divieti di lunga data, come quelli che vietano il possesso di armi da fuoco da parte di criminali e malati di mente o restrizioni sul porto di armi pericolose e insolite». Ma questa volta il presidente americano Joe Biden, oltre alle parole di cordoglio e all’imposizione delle bandiere a mezz’asta, ha voluto dire una mezza parola in più, che suona come un atto d’accusa alla politica, al Congresso: «Un attacco del genere, così insensato, è troppo scioccante per essere considerato abituale. Ancora una volta chiedo al Congresso di inviarmi un disegno di legge che vieti le armi d’assalto e i caricatori ad alta capacità. È necessario attuare controlli universali dei precedenti, pretendere una conservazione sicura delle armi e la fine dell'immunità per i produttori di armi. Lo firmerò immediatamente. Non abbiamo bisogno di niente di meno per mantenere le nostre strade sicure». Il presidente ha poi rimproverato esplicitamente i suoi avversari politici: «Troppe famiglie hanno sedie vuote ai loro tavoli. I membri repubblicani del Congresso non possono continuare ad affrontare questa epidemia con un’alzata di spalle. I pensieri e le preghiere twittati non sono sufficienti».

Il tema delle armi sarà di certo uno degli elementi centrali nelle prossime elezioni presidenziali (si voterà il 5 novembre 2024). Ma è anche evidente il sostanziale fallimento della politica statunitense, che 24 anni dopo la strage di Columbine si trova ancora a dibattere su cosa sia giusto o meno fare, ciascuno immobilizzato nelle proprie convinzioni (e nei propri interessi elettorali, comprese le “carezze” alle lobby dei produttori di armi, dalla National Rifle Association al Gun Owners of America), mentre la mattanza continua, incessante. Come si legge sul Gun Violence Archive, un database online indipendente sulla violenza armata negli Stati Uniti aggiornato quotidianamente con informazioni provenienti da oltre 7500 fonti (forze dell’ordine, media, governo, amministrazioni locali): dall’inizio del 2023 a oggi ci sono state 209 sparatorie di massa, 21 omicidi di massa (dal Texas alla Florida, dall’Oklahoma all’Alabama, dalla California al Tennessee, fino allo Utah, al Kentucky, all’Alabama, al Maine), con 6514 vittime, tra le quali 96 bambini (da 0 a 11 anni) e 537 adolescenti (da 12 a 17 anni). «Gli ostacoli alla regolamentazione delle armi non risiedono necessariamente nella Costituzione o nel buon senso», sostiene Walter Clemens, professore emerito di scienze politiche alla Boston University. «Derivano da incentivi finanziari e pressioni politiche da parte delle lobby delle armi e del tipo di fanatici senza legge che hanno preso d’assalto il Campidoglio il 6 gennaio 2021. Data l’epidemia di violenza armata in America, forse dovremmo testare, autorizzare e tassare i proprietari di armi e le armi stesse».

La “normalità” di cercare ovunque una via di fuga

Scriveva pochi mesi fa Stephen Collinson, reporter della Cnn: «Mentre centinaia di milioni di cittadini svolgono le loro attività quotidiane in sicurezza, nessuno e nessun luogo è immune dalla possibilità di un’improvvisa esplosione di violenza. È quella stranezza americana per antonomasia: lo sguardo istintivo intorno a un Walmart, un luogo di culto, un supermercato o un posto di lavoro, per una via di fuga se dovesse accadere il peggio». Collinson proseguiva poi nella sua analisi, dopo aver elencato alcune tappe della serie infinita di sparatorie: «Ognuno di questi incidenti è distinto e può avere cause uniche. A volte ci sono controversie sul posto di lavoro, traumi familiari, rancori personali o problemi di salute mentale. Possono essere coinvolti crimini d’odio o motivi politici. La facile disponibilità di armi mortali – legalmente o illegalmente detenute – dà alle persone la capacità di provocare carneficine. Ed è indiscutibile che le nazioni che hanno represso la disponibilità di armi da fuoco hanno visto diminuire le sparatorie di massa. I diritti del Secondo Emendamento della Costituzione americana rendono questo paese un’anomalia – con profonda soddisfazione di molti cittadini che credono nel diritto di portare armi. E la mentalità di frontiera del paese, il radicato sospetto nei confronti del governo e dell’autorità e l’immagine di sé dell'autosufficienza aiutano a spiegare come gli americani abbiano un rapporto diverso con le armi rispetto a molte altre nazioni sviluppate. Ma, allo stesso tempo, la “normalità” delle persone che vengono uccise mentre lavorano, fanno acquisti o giocano sollevano crescenti domande sulla misura in cui la libertà di una persona di portare armi sopprime i diritti di un’altra alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Molti difensori dei diritti delle armi non sono disposti nemmeno a prendere in considerazione questo problema». Traduzione: i repubblicani non accetteranno mai una limitazione al diritto di armarsi.

Sull’argomento gli Stati Uniti restano spaccati a metà tra due posizioni sempre più distinte e inconciliabili. Lo spostamento sempre più netto dei repubblicani americani verso posizioni di estrema destra è un dato di fatto, e sono direttamente collegate alle strategie di Donald Trump anche in vista delle presidenziali del prossimo anno. Marjorie Taylor Greene, membro repubblicano della Camera dei Rappresentanti per lo stato della Georgia dal 2021 (nota per aver dato credito alla teoria del complotto QAnon) ritiene che «la chiave per fermare i massacri scolastici non è vietare i fucili d’assalto, ma avere più armi. Dobbiamo proteggere i nostri figli nello stesso modo in cui proteggiamo il nostro presidente». Oppure spostano il tiro altrove, come il governatore del Texas, che parla di una questione di “salute mentale”. Al quale risponde, indirettamente, Adam Lankford, professore di criminologia presso l’Università dell’Alabama: «Se dici che si tratta di un problema di salute mentale, perché stai permettendo alle persone con significativi problemi di salute mentale di acquistare legalmente armi da fuoco? E non soltanto armi da fuoco, ma essenzialmente armi di livello militare». Anche Jeffrey Swanson, professore di psichiatria e scienze comportamentali presso la Duke University School of Medicine, contesta le affermazioni del governatore Abbott: «La violenza armata e la malattia mentale sono due problemi di salute pubblica molto diversi».  Ma entrambi i ricercatori individuano nelle cosiddette “leggi bandiera rossa” un passaggio importante, seppur marginale, per ridurre il numero delle future sparatorie di massa. Le leggi sulla bandiera rossa consentono a familiari, amici, vicini o conoscenti di presentare una petizione a un tribunale per rimuovere temporaneamente il diritto di possedere armi da fuoco a persone che potrebbero rappresentare un rischio per sé stessi o per gli altri. Il Texas, per dire, non ha una legge sulla bandiera rossa. Ma ce l’ha la California, dove quest’anno si sono già verificati quattro omicidi di massa.

La strada per risolvere il problema della violenza privata negli Stati Uniti è dunque ancora lunghissima e accidentata. Una preoccupazione sociale e politica di enormi dimensioni, al punto che, secondo un sondaggio appena pubblicatodalla Kaiser Family Foundation, più della metà delle famiglie statunitensi ha avuto a che fare con problemi legati alle armi. Il 21% degli adulti ha dichiarato di essere stato minacciato almeno una volta con una pistola, il 19% di aver avuto un membro della famiglia ucciso (compresi i casi di suicidio), il 17% di aver assistito a una sparatoria. E più subentra l’assuefazione, la tolleranza, la rassegnazione, più la via d’uscita si allontana. Mentre la vera e unica domanda resta ancora lì, a galleggiare, senza trovare risposta: perché?

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