CULTURA
Stele di Rosetta. Svelato due secoli fa il segreto dietro ai geroglifici
Geroglifici al tempio di File. Foto: Jeremy Bezanger / Unsplash
1799. L’antica città di Rosetta, sulla sponda sinistra del delta del Nilo, ospitava da secoli una grossa stele di basalto nero tra i “mattoni” di una fortificazione araba. Quella che all’apparenza sarebbe potuta sembrare una pietra qualunque, uno dei tanti pezzi utilizzati per rinforzare la struttura, si sarebbe in seguito rivelata la chiave per sciogliere un enigma rimasto irrisolto per secoli: quello che riguardava l’antica civiltà egiziana.
Fino a quel momento, infatti, storici di tutte le epoche, dal mondo classico in poi, si erano confrontati con il grande mistero delle piramidi, dei sarcofagi, delle pitture di uomini con teste di animale e, soprattutto, di una scrittura assolutamente incomprensibile, di cui da secoli si era persa ogni cognizione. In un periodo in cui non esisteva alcun indizio per la traduzione dei geroglifici, la stele di Rosetta fornì la chiave del rebus. Essa, infatti, presentava uno stesso testo inciso con tre diversi sistemi di scrittura: i geroglifici, il demotico (la lingua “popolare” degli antichi egizi) e il greco, che gli intellettuali dell’epoca conoscevano.
Eppure, tradurre i geroglifici e il demotico dal greco antico non sarebbe stata un’impresa semplice quanto si sarebbe potuto ingenuamente immaginare. Ci vollero altri vent’anni per restituire finalmente la voce alla lingua dei faraoni, rimasta muta per secoli.
200 anni fa, il 27 settembre 1822, il linguista francese, Jean-François Champollion, da sempre incuriosito dall’alone di mistero che avvolgeva l’antico Egitto, annunciò all’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres di Parigi di essere riuscito in un’impresa dove molti, prima di lui, avevano fallito. Lo studioso aveva infatti fornito una prima fondamentale interpretazione dei geroglifici sulla stele di Rosetta. Questo evento avrebbe cambiato per sempre lo studio dell’antico Egitto, riportando finalmente alla luce la lingua, la storia e la cultura di una civiltà la cui grandezza era rimasta, fino ad allora, soltanto immaginabile.
La stele di Rosetta conservata al British Museum. Foto: © Hans Hillewaert, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=3153928
La scoperta
Il ritrovamento della stele fu un evento assolutamente fortuito, che sarebbe potuto benissimo non accadere. Furono infatti dei soldati francesi a trovarla, durante la campagna in Egitto di Napoleone. Giunto a Rosetta, il capitano Bouchard e i suoi uomini avevano intenzione di rimettere in sesto un vecchio forte arabo a nord della città costruito (come molti altri edifici dell’epoca) riciclando pezzi provenienti dai monumenti egizi. Era in corso, infatti, una battaglia con l’esercito inglese, anch’esso determinato a colonizzare la terra degli antichi faraoni. Non era assolutamente scontato che in una situazione come quella dei soldati prestassero attenzione ai singoli blocchi che componevano la struttura. Eppure, qualcuno di loro lo fece. Bouchard dovette intuire che quel pezzo di basalto non era una pietra qualunque. Ordinò infatti di spedirlo al Cairo, dove si trovava un quartier generale di storici, archeologi e scienziati che si erano uniti alla campagna napoleonica.
“Al momento del suo rinvenimento, la stele si trovava inserita nella muratura di una fortificazione”, racconta il professor Emanuele Ciampini, professore di egittologia all’università Ca’ Foscari di Venezia. “Una volta trasportata al Cairo, dove si trovava l’Istitute de’Egipt fondato da Napoleone, ebbero inizio i tentativi di traduzione dell’iscrizione, che subito misero in luce la caratteristica principale di questo reperto: le tre versioni di testo riportavano un contenuto analogo”.
“Tuttavia, gli studi condotti al Cairo durarono ben poco”, prosegue Ciampini. “La campagna napoleonica in Egitto non andò come il conquistatore aveva prospettato e la stele di Rosetta, insieme ai molti altri reperti archeologici raccolti dagli studiosi francesi, venne confiscata dalla Gran Bretagna e trasportata al British Museum”.
A quel punto ebbe inizio un lungo contenzioso tra studiosi francesi e inglesi, poiché chi per primo fosse riuscito a decodificare la stele avrebbe goduto di fama eterna. Eppure, dal momento della scoperta a quello della decifrazione passarono più di vent'anni.
La traduzione
“Sebbene il testo greco potesse essere facilmente letto e tradotto dagli studiosi dell'epoca napoleonica, non esisteva più alcuna cognizione del geroglifico e del demotico dalla fine della cultura faraonica”, spiega Ciampini. “Le ultime iscrizioni in geroglifico rinvenute in Egitto risalgono infatti alla tarda antichità e, in particolare, a un periodo compreso tra il IV e il VI secolo, quando ormai ben poche persone erano ancora in grado di leggerle. Il fattore determinante per la conservazione della memoria di questa lingua era il suo profondo legame con i templi. Quando questi santuari vennero chiusi in seguito alla proclamazione del Cristianesimo come religione di stato nell'Impero Romano d'Oriente, tutti gli elementi culturali ad essi legati, compresa la scrittura, si persero.
Va comunque considerato che le ultime attestazioni di scrittura geroglifica pervenute si trovano in un santuario dedicato a Iside sull'isola di File, dove probabilmente continuarono a operare dei sacerdoti per il culto della dea anche in epoca pienamente cristiana, tanto è vero che nella stessa isola di File è stato ritrovato, oltre al tempio in questione, anche un vescovado”.
La prima difficoltà che incontrava chi lavorava alla traduzione del testo riguardava la lettura dei segni. “Prima dell’arrivo di Champollion, generazioni di studiosi avevano attribuito ai geroglifici una funzione puramente simbolica”, afferma il professor Ciampini. “Champollion riuscì a sfrondare l’alone di mistero che avvolgeva questi segni attribuendo loro un valore diverso (in parte di tipo fonetico, ndr). Per fare questo, lo studioso si avvalse di alcune intuizioni che erano già state proposte in precedenza, in primis quella di contare il numero dei segni utilizzati per scrivere i nomi dei sovrani di origine greca (come, ad esempio, “Tolomeo”) per fare un paragone con gli stessi nomi scritti con l’alfabeto greco. Compiendo questa operazione, Champollion si accorse che la scrittura egizia rappresentava una registrazione “imperfetta” della lingua, perché non riportava, ad esempio, i suoni vocalici (non si tratta di un dato sorprendente, perché tutte le lingue semitiche seguono, tradizionalmente, questo sistema)”.
Ma la carta vincente che permise a Champollion di riuscire nella sua impresa fu la sua ottima conoscenza del copto. “Si tratta dell’ultima evoluzione della lingua egiziana – tradizionalmente definita come la lingua della chiesa cristiana d'Egitto – risalente all’epoca più tarda della cultura faraonica e che veniva scritta con caratteri quasi identici a quelli greci”, prosegue Ciampini. “Champollion si basò sulla struttura grammaticale della lingua copta per affrontare le caratteristiche di una scrittura – e di una lingua – che si comportava in maniera completamente diversa dal greco. Grazie a un lavoro di ricostruzione estremamente paziente, lo studiosi riuscì – utilizzando tra l’altro uno strumentario estremamente ridotto – a delineare la struttura grammaticale che contraddistingue sia i geroglifici che il demotico; quest’ultimo, nonostante presentasse una difficoltà in più dal punto di vista grafico (essendo una scrittura corsiva) era più simile al copto dal punto di vista grammaticale rispetto al testo in geroglifico, nel quale veniva usato invece un registro linguistico più arcaico. Consideriamo, inoltre, che la lingua egiziana si sviluppò per oltre tre millenni e quindi, come tutte le lingue, subì delle trasformazioni con il corso del tempo”.
A questo punto, non possiamo non domandarci quale fosse il contenuto dell’iscrizione sulla stele.
“Si tratta di un decreto sacerdotale in favore di un sovrano tolemaico”, spiega Ciampini. “Reca l’iscrizione anche in greco proprio perché risale a un periodo chiamato appunto “tolemaico”, in cui i faraoni d'Egitto erano i successori macedoni di Alessandro. Questo documento, simile a molti altri decreti pubblici (anch’essi scritti in più lingue) trovati successivamente, aveva l’importante funzione di legittimare il potere dei Tolomei, i quali si presentavano in Egitto come Faraoni nonostante fossero di cultura greca e avessero instaurato in Egitto un modello statale fortemente legato alla tradizione mediterranea”.
Un nuovo, immediato rapporto con l’antico Egitto
La decifrazione della stele di Rosetta ha rappresentato una rivoluzione nel campo dell’egittologia. Il periodo successivo all’impresa di Champollion fu infatti ricco di nuove scoperte che permisero di approfondire la storia, la cultura e l’organizzazione statale di questa civiltà.
“Conoscere lo schema grammaticale della lingua egiziana consentiva finalmente di confrontarsi con le testimonianze dirette che ci sono giunte della cultura faraonica”, osserva Ciampini. “La civiltà egizia riconosceva nella scrittura un elemento identificativo della propria cultura (i geroglifici, infatti, possono essere utilizzati per registrare solo e unicamente quella lingua, a differenza, ad esempio, dei nostri caratteri latini). Il lavoro di Champollion ha aperto quindi le porte a un patrimonio testuale sterminato e ha dato agli studiosi la possibilità di leggere, nel vero senso del termine, le iscrizioni pervenute direttamente dalla civiltà egizia.
La lettura dei geroglifici ha permesso finalmente di appurare l’ordine effettivo in cui si susseguirono i sovrani. Infatti, nonostante i nomi dei faraoni comparissero già in alcune fonti classiche, ad esempio nelle Storie di Erodoto e nell’opera del sacerdote egiziano Manetone, il quale aveva redatto una vera e propria cronostoria dell’antico Egitto in lingua greca, non era mai stato possibile, prima d’allora, confrontare tali testi con le testimonianze dirette dell’epoca.
Champollion stesso ha svolto un lavoro pionieristico dal punto di vista storiografico. Dopo la decifrazione soggiornò per un periodo a Torino, dove studiò la raccolta di antichità egizie che allora erano state acquisite dai Savoia. Nel lotto di papiri che faceva parte di questa raccolta, lo studioso individuò una serie di frammenti che si dimostrarono di fondamentale importanza: costituivano infatti una delle più importanti raccolte di liste di nomi regali che ci siano mai giunte. Questi frammenti si rivelarono una fonte preziosissima che successivamente permise a una scuola di papirologi di ricostruire la storia di una cultura come quella dell'antico Egitto, che ha navigato lungo il corso del Nilo per più di tre millenni e che è stata capace di esportare i propri modelli culturali anche al di fuori dei suoi confini territoriali”.