SOCIETÀ
Stereotipi di genere nei libri per l’infanzia. Biemmi: “In corso una rivoluzione culturale”
Mondi immaginari, grandi avventure, cavalieri coraggiosi e principesse ribelli. I libri di letteratura per l’infanzia non hanno solo il potere di divertire, intrattenere, stimolare la creatività e migliorare le competenze linguistiche, ma svolgono un ruolo importantissimo anche nella trasmissione di valori e modelli culturali. La letteratura per l’infanzia dota i bambini e le bambine di un’importante cornice di interpretazione attraverso la quale leggere la realtà, influenzando quindi la percezione che hanno di sé e degli altri. Questo effetto avviene nel bene e nel male. I libri in questione hanno infatti anche il potere di trasmettere messaggi inaccurati o fuorvianti sui ruoli di genere e promuovere atteggiamenti e convinzioni discriminatorie.
L’analisi dei testi di letteratura per l’infanzia da una prospettiva di genere è finalizzata all’individuazione di quelle narrazioni stereotipate, sessiste e discriminatorie che possono nascondersi, anche implicitamente, tra le pagine dei testi in questione e che rischiano di influenzare negativamente l’immaginario di bambini e bambine rispetto alle identità e ai ruoli di uomini e donne.
“In Italia, il monitoraggio dei testi scolastici e dei libri di letteratura per l’infanzia in ottica di genere rappresenta un settore di ricerca relativamente nuovo e ancora poco esplorato”, racconta a Il Bo Live la professoressa Irene Biemmi, docente di pedagogia all’università di Firenze e autrice di un volume pubblicato nel 2010 (e, in seconda edizione, nel 2017) dal titolo Educazione sessista stereotipi di genere nei libri delle elementari. “La pietra miliare di questo ambito di studio nel nostro paese è un libro del 1973 di Elena Gianini Belotti, intitolato Dalla parte delle bambine, che ebbe un impatto culturale e politico notevole, perché portò all’attenzione pubblica l’esistenza di un problema che in Italia – a differenza di altri paesi – non era oggetto di approfondimento scientifico.
Nel 1986 venne condotto il primo grande studio sugli stereotipi di genere basato su un campione notevole di libri di testo italiani per la scuola elementare. L’indagine – curata da Rosanna Pace – rilevò la tendenza da parte dell’editoria scolastica a rappresentare le donne solo come mogli e madri sottomesse all’autorità maschile e a veicolare un’immagine della realtà antiquata per l’epoca, che sembrava riflettere piuttosto la situazione italiana negli anni Quaranta.
Agli inizi del Duemila nacque poi un progetto europeo chiamato Polite (Pari Opportunità nei Libri di Testo) promosso dall’AIE (Associazione italiana degli Editori). Nell’ambito del Polite venne redatto un codice di autoregolamentazione per le case editrici affinché potessero produrre libri di testo scevri da stereotipi sessisti e attenti al linguaggio di genere”.
La ricerca di Biemmi citata poc’anzi era incentrata proprio su un campione di libri scolastici pubblicati da dieci case editrici subito dopo l’uscita del codice di autoregolamentazione del Polite. “I risultati furono a dir poco deludenti”, racconta la professoressa. “Anche i testi che presentavano nel colophon un bollino di aderenza al codice veicolavano rappresentazioni stereotipate e fortemente sbilanciate. I bambini e le bambine che leggevano quei libri trovavano al loro interno campi di pensabilità completamente diversi: ai maschi venivano presentate possibilità di carriera potenzialmente illimitate. Per le bambine, invece, la più alta aspirazione concessa era quella di diventare mogli, madri o, al massimo, maestre. Questi libri veicolavano inoltre gli archetipi del “sesso debole” e del “sesso forte”. Le bambine venivano rappresentate con indosso abiti rosa, mentre sedevano composte a svolgere attività tranquille in casa. I bambini, invece, erano agitati, curiosi, sportivi e scanzonati”.
Nei quindici anni successivi, la situazione non migliorò, anzi. “I risultati di un lavoro pubblicato nel 2016 da Cristiano Corsini e Irene Scierri – dal titolo Differenze di genere nell’editoria scolastica – suggerivano che la persistenza degli stereotipi di genere nei testi in questione fosse addirittura aumentata. “Il Polite, infatti, non esisteva più, così come il bollino di conformità al codice di autoregolamentazione”, spiega Biemmi, che per cercare di riequilibrare la situazione ha redatto insieme alla pedagogista Barbara Mapelli il primo manuale di pedagogia di genere in Italia. “I dati emersi dalla nostra ricerca per questo volume hanno mostrato un miglioramento dal 2018 in poi, con una rinnovata attenzione al tema da parte degli editori a offrire narrazioni alternative che non replichino gli stereotipi di genere”, racconta la professoressa. “Si tratta di una tendenza in positivo che però va costantemente monitorata”.
Ma quali sono gli stereotipi di genere più frequentemente veicolati nei libri di letteratura per l’infanzia? Abbiamo chiesto a Biemmi di citare qualche esempio concreto tratto dalla sua esperienza sul tema. “Il più banale tra gli indicatori di sessismo che ancora non tutti gli editori riescono a risolvere riguarda la rappresentazione sbilanciata del maschile e del femminile”, afferma la professoressa. “Pensiamo, ad esempio, alle antologie, dove solo il 30% circa delle storie contenute è incentrato su una protagonista di sesso femminile.
Un altro indicatore riguarda il racconto delle professioni, dei ruoli e delle abitudini quotidiane di uomini, donne, bambini e bambine. La ricerca dimostra che le bambine, così la maggior parte delle donne adulte, vengono ritratte quasi sempre in spazi chiusi, come la casa, la scuola, o altri luoghi “protetti”. I bambini e gli uomini, invece, vengono mostrati soprattutto in spazi aperti, dove vivono avventure ed esplorano il mondo.
Anche l’analisi degli aggettivi attraverso i quali vengono qualificati i personaggi maschili e femminili consente di rilevare alcuni stereotipi. Mentre i primi vengono tipicamente connotati come forti, coraggiosi, risoluti e razionali, donne e bambine, sono tendenzialmente descritte come emotive, dolci, apprensive, amorevoli e un po’ irrazionali”.
Biemmi spiega come l’impegno nel settore dell’editoria per correggere queste narrazioni stereotipate viaggi a due velocità diverse nell’editoria scolastica e nella narrativa per l’infanzia, che nel nostro paese è addirittura all’avanguardia rispetto alla produzione media europea. “È in corso una vera e propria rivoluzione culturale nell’editoria per l’infanzia, che oggi propone tantissime contro-narrazioni agli stereotipi descritti poc’anzi. Oggi sono sempre più diffusi nuovi immaginari di genere in cui compaiono modelli femminili alternativi a quelli del passato, come anti-principesse, bambine ribelli e donne in carriera autorevoli descritte in chiave positiva.
Procede invece più lentamente – ma comunque con una tendenza in crescita – la sperimentazione sui contro-modelli maschili. Stiamo parlando, ad esempio, di uomini adulti che esternano con naturalezza le proprie emozioni o di cui sono approfondite le fragilità, oppure di bambini sensibili, che piangono, o che al calcio preferiscono il pattinaggio o la danza”.
Un altro cambiamento in positivo che si sta consolidando negli ultimi 10-15 anni riguarda il pluralismo delle famiglie. “La famiglia tradizionale non è più l’unico modello di riferimento”, sottolinea Biemmi. “Anche negli albi illustrati per la prima infanzia (fascia 0-3 anni) iniziano ad essere rappresentati mille aggregati familiari diversi che, così come avviene nel mondo reale, sono tutti ugualmente legittimi: dal genitore single, alle famiglie omogenitoriali, a quella adottive, a quelle in cui i bambini sono cresciuti dai nonni o da altri parenti.
Inoltre, nonostante i modelli maschili evolvano lentamente, è in corso un’importante rivoluzione riguardo alla figura del papà. Nei libri di narrativa per l’infanzia e l’adolescenza, i padri sono più avanti di almeno un paio di generazioni rispetto alla media di quelli reali. Nei libri troviamo infatti padri estremamente competenti nei lavori di cura, che non solo giocano con i bambini, ma si occupano di loro svolgendo anche quelle attività che per lungo tempo venivano attribuite unicamente alle madri (come, ad esempio, cucinare, pettinare i figli e aiutarli a prepararsi per la scuola, fare il bucato)”.
Per quanto riguarda invece l’editoria scolastica, Biemmi sottolinea come ci sia ancora molto lavoro da fare per correggere le narrazioni stereotipate. “Si procede a due velocità diverse perché la narrativa per l’infanzia è più indipendente”, spiega la professoressa. “Il settore scolastico deve invece sottostare ad alcuni limiti: dal rispetto dei programmi ministeriali, alla necessità di focalizzare l’attenzione su certi temi, piuttosto che su altri”.
“Tra il secondo e il terzo anno di vita, bambini e bambine diventano consapevoli della propria appartenenza di genere: si auto-percepiscono, cioè, come maschi o come femmine e iniziano a suddividere il mondo in base a tale dicotomia. È in questo periodo che attecchiscono i primi stereotipi di genere”, continua Biemmi. “I bambini bevono dalla realtà in cui sono immersi, e concettualizzano di conseguenza: associano determinati ruoli, attività e comportamenti rispettivamente agli uomini e alle donne. Allo stesso modo, iniziano a intuire come su di loro ricadano aspettative sociali differenti a seconda dell’appartenenza di genere.
Naturalmente, il primo modello di identificazione è quello genitoriale. Osservando il comportamento dei genitori e i rispettivi compiti nella sfera domestica (le donne che cucinano e gli uomini che aggiustano i guasti, ad esempio) bambini e bambine costruiscono il modello di riferimento del loro genere, sapendo di dover aderire ad esso.
E poi c’è la scuola: il primo contesto autorevole che si incontra, ma non per questo immune ad alcune forme di disuguaglianza (a cominciare dal fatto che la quantità di insegnanti di sesso femminile è preponderante rispetto a quella di docenti di sesso maschile).
Siamo tutti portatori sani di stereotipi, l’importante è esserne consapevoli. Gli insegnanti, a maggior ragione, sono tenuti, a causa del loro ruolo, a rendersi conto degli stereotipi in cui sono immersi per cercare di non riversarli sulle nuove generazioni. Questo è dovuto loro professionalmente, non solo in quanto semplici cittadini. Per questo motivo sarebbe utile integrare nei percorsi formativi destinati agli insegnanti di ogni ordine dei corsi obbligatori incentrati sulla cultura di genere”.