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La stretta di mano, domenica scorsa a Ramallah, tra Benny Gantz, ministro della Difesa israeliano, e Mahmoud Abbas, anziano presidente dell’Autorità Palestinese, dimostra che un passaggio è avvenuto: dalla guerra al dialogo, dai missili all’ascolto, dalla distruzione all’aiuto. Non accadeva dal 2010 che rappresentanti di Israele e Anp s’incontrassero. E il prestito annunciato di 500 milioni di shekel (pari a circa 155 milioni di dollari) non è una chiacchiera: è un sostegno concreto per la soddisfazione dei bisogni, spesso primari, della popolazione della Cisgiordania occupata. «Abbiamo parlato di politica, di sicurezza, di questioni civili ed economiche», ha dichiarato il ministero della Difesa israeliano in una nota.
Sicurezza sia in Israele, sia in Cisgiordania. «Più forte è l’Autorità Palestinese, più debole sarà Hamas», ha spiegato poi Gantz ai giornalisti israeliani, per rimarcare l’utilità del gesto. «E maggiore sarà la sua capacità di governare, più sicurezza avremo e meno dovremo fare». All’incontro hanno partecipato anche Ghasan Alyan, responsabile per Israele degli affari civili nei territori palestinesi, l’alto funzionario dell’Autorità Palestinese Hussein al-Sheikh e il capo dell’intelligence palestinese Majid Faraj. Al termine qualche dettaglio è filtrato: il denaro prestato è un anticipo sulle tasse che Israele riscuote per conto dei palestinesi (circa 2,8 miliardi di dollari all’anno): l’Anp comincerà a restituire la somma a partire da giugno 2022. Israele s’è inoltre impegnata a concedere nuovi permessi di lavoro per 15mila palestinesi e a risolvere lo status di residenza per circa 5mila famiglie che vivono nella Cisgiordania occupata, tra i quali palestinesi originari di Gaza e coniugi stranieri di palestinesi locali (ancora oggi, 28 anni dopo la firma degli Accordi di Oslo, le carte d’identità rilasciate dall’Anp non hanno valore senza la convalida delle autorità militari israeliane).
“ La strada verso nuovi negoziati di pace resta in ripidissima salita
Sia chiaro: la strada verso nuovi negoziati di pace resta in ripidissima salita, da qualsiasi angolo si osservi. Il premier israeliano, Naftali Bennett, nazionalista intransigente, non ha cambiato pelle, anzi. Un pensiero riportato da Iqna (agenzia d’informazione sul Corano nel mondo islamico): «Finché sarò io al potere non ci sarà alcuno stato palestinese». Una fonte vicina al governo ha invece dichiarato al quotidiano Haaretz, che «Israele non intende avviare processi diplomatici con l’Autorità Palestinese, né ora né in futuro: l’incontro ha riguardato solo questioni di ordinaria amministrazione». Negative, com’era prevedibile, anche le reazioni di Hamas, il movimento di resistenza islamista palestinese. Secondo il portavoce, Hazem Qassem, questi incontri «approfondiranno le divisioni e complicheranno la situazione palestinese». L’agenzia di stampa turca Anadolu riporta le dichiarazioni di Tareq Selmi, portavoce della Jihad islamica palestinese (PIJ): «E’ una pugnalata. Questo incontro avviene mentre le forze israeliane continuano i loro attacchi a Gaza e mantengono il loro blocco sul territorio. Il sangue dei bambini palestinesi uccisi dall’esercito israeliano su ordine di Gantz è ancora a terra e non si è ancora asciugato». Anche l’ala sinistra della resistenza, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), ha criticato il faccia a faccia chiedendo ad Abbas di risolvere prima le spaccature interne e riconquistare l’unità palestinese “invece di incontrare gli israeliani”.
Un fragilissimo equilibrio
Cos’è cambiato dunque? Sul terreno di scontro quasi nulla: il governo israeliano sembra lontanissimo dal parlare di pace, e il premier Bennett se ne guarda bene per non crollare nei consensi, per non contraddire quanto garantito nelle scorse, innumerevoli, campagne elettorali, e soprattutto per non mettere a repentaglio il fragilissimo equilibrio che tiene in piedi l’attuale esecutivo (formato anche da partiti di sinistra e arabi), che ha posto fine all’era di Bibi Netanyahu. Ma la tensione resta altissima. La scorsa notte un palestinese è stato ucciso dall’IDF (Israel Defense Force) nel corso di disordini al confine di Gaza (e 5 sono i bambini rimasti feriti). I manifestanti continuano da settimane a protestare per il protrarsi del blocco su Gaza (una misura decisa dopo il prolungato bombardamento israeliano del maggio scorso, che ha prodotto enormi danni all’economia palestinese, con una disoccupazione salita oltre il 50%). I soldati usano gas lacrimogeni per disperdere i dimostranti. Anche in Cisgiordania l’esercito israeliano è accusato di aver ucciso un uomo di 39 anni, Ra'id Jadullah, sospettato di aver pianificato attentati su un'autostrada utilizzata principalmente dagli israeliani. Insomma: c’è ancora moltissimo da fare e da costruire. Sull’altro fronte l’Anp appare sempre più fragile di fronte alle varie fazioni della resistenza, peraltro divise tra loro. Il gradimento di Abu Mazen è al minimo storico, dopo la decisione del 29 aprile scorso di rinviare le elezioni legislative e presidenziali (con la richiesta di formare un governo di unità proprio in risposta al riaccendersi della guerra con Israele), con un’azione giudicata troppo blanda a difesa delle rivendicazioni del popolo palestinese. Una posizione che sta consentendo ad Hamas di aumentare il suo appeal, anche tra i laici. E non è un buon segno.
Di fatto la mossa del governo israeliano mira a puntellare il ruolo dell’Anp, a renderla più autorevole e forte (anche economicamente) proprio per non lasciare campo libero agli estremisti. Perciò è stato deciso anche un allentamento delle restrizioni su Gaza. Ma l’input a porgere la mano non arriva da Gerusalemme, che ha eseguito, probabilmente a denti stretti. Arriva da più lontano, dalla Casa Bianca. Dal presidente americano Joe Biden che già nella sua campagna elettorale aveva promesso di impegnarsi per “promuovere i diritti umani a livello globale”. E che oggi, impantanato com’è nell’affaire Afghanistan, e nel danno d’immagine derivato dal caotico ritiro dal paese, è determinato più che mai a passare come il presidente che vuol favorire percorsi di pace, e non più di guerra. Costruire, e non distruggere. L’ha ripetuto anche pochi giorni fa, nel suo discorso alla nazione (qui il testo integrale del suo intervento), motivando, rivendicando (e in alcuni passaggi giustificando) la sua decisione di proseguire con il ritiro da Kabul. Biden ha fatto alcune ammissioni importanti: «Non credo che la sicurezza degli Stati Uniti sarebbe migliorata continuando a dispiegare migliaia di soldati e spendendo miliardi di dollari all’anno in Afghanistan. Ma questa decisione sull’Afghanistan non riguarda solo l’Afghanistan. Si tratta di porre fine a un’era di grandi operazioni militari per ricostruire altri Paesi». Quindi diplomazia, dialogo.
Usa e Israele: distanze e convenienze
Le distanze tra il presidente degli Stati Uniti e il premier israeliano sono evidenti: sulla questione iraniana (Bennettt tenterà di opporsi al tentativo americano di ripristinare un accordo sul nucleare) e su quella palestinese (Israele vuole consolidare, se non espandere, gli insediamenti in Cisgiordania). Ma entrambi hanno ribadito la necessità di rafforzare il legame strategico tra i due paesi. «Porto con me uno spirito nuovo, di buona volontà, spirito di speranza, decenza e onestà», ha dichiarato il premier israeliano la scorsa settimana, nella sua prima visita alla Casa Bianca. In diplomazia è sempre questione di equilibri. Per dire: il presidente degli Stati Uniti chiede "pari misure di libertà” per israeliani e palestinesi. Ma nonostante l’aperta contrarietà del governo attuale di Gerusalemme (come del precedente) non ha mai preso in considerazione l’ipotesi di limitare o condizionare i 3,8 miliardi di dollari annui di aiuti militari a Israele. Questo comunque non gli ha impedito, come spiega una nota della Casa Bianca, di ribadire il suo sostegno a una soluzione a due stati del conflitto israelo-palestinese e a sottolineare «l’importanza di misure per migliorare la vita dei palestinesi». Sopire, mediare, moderare i toni, concedere: così Bennett ha finito per accettare il suggerimento americano di porgere la mano, sotto forma di aiuti economici, all’Autorità Palestinese. Come gesto di buona volontà. Come gesto di rottura rispetto alla ferocia messa in campo negli ultimi anni dall’asse Trump-Netanyahu. Un gesto che serve a Biden, ma che serve anche a Bennett, per dimostrare, sul campo, che il capitolo Netanyahu è definitivamente chiuso.
Un Netanyahu che in questi giorni non se la passa bene, impegnato com’è a difendersi (senza poter contare sull’immunità) nei processi che con tutte le sue forze ha tentato, per anni, di schivare. Processi per corruzione, per frode, per aver favorito un editore in cambio di coperture “favorevoli” alle sue azioni. L’ultimo colpo di scena pochi giorni fa, quando l’accusa ha trovato sul cellulare dell’amministratore delegato di Walla (sito d’informazione online, proprietario Shaul Elovitch) un’enorme quantità di messaggi dove l’editore gli chiedeva di oscurare qualsiasi notizia negativa sulle azioni del governo guidato da King Bibi. In cambio, secondo l’accusa, Netanyahu avrebbe favorito gli interessi dell’editore con leggi ad hoc, per un controvalore di centinaia di milioni di dollari. Ora i pubblici ministeri hanno chiesto all’ex premier di restituire alcuni regali ricevuti durante l’esercizio delle sue funzioni. È consuetudine che i leader stranieri si scambino regali durante i viaggi ufficiali. Ma in Israele, quelli che valgono più di 300 shekel (poco più di 90 dollari Usa) sono di proprietà dello stato: Netanyahu e sua moglie, Sara, non li hanno consegnati. Scrive il Los Angeles Times: «Tra i doni non restituiti ci sarebbe una scatola rettangolare di vetro decorata con foglie d'oro, con la firma di Obama, e il primo libro della Bibbia di Putin. L’elenco include anche doni di leader francesi e tedeschi, di un papa e di vari ambasciatori». La prossima udienza del processo a carico di Bibi Netanyahu è fissata per il 13 settembre.