Daniela Gambaro vince con gran merito il Premio Campiello opera prima con la raccolta di racconti “Dieci storie quasi vere” edita da Nutrimenti (2020), riconoscimento che le verrà consegnato domani a Venezia, quando sapremo anche chi sarà il vincitore della cinquantanovesima edizione del Premio maggiore.
Il suo testo era stato finalista al Calvino nel 2019 e aveva ricevuto lì una menzione che era valsa all’autrice la pubblicazione per il piccolo editore dai gusti raffinati. E in effetti Dieci storie quasi vere è un’opera letteraria breve, elegante e compiuta. C’è chi dice che gli esordi contengano quanto di più prezioso un autore ha da portare alla luce, perché tipicamente sono covati, maturati e perfezionati per anni, ma – in casi come questo –possono anche mostrare una padronanza del mestiere che induce a credere alla tesi secondo cui scrittori lo si nasca.
Gambaro nella fattispecie inanella dieci racconti in cui il twist (la trovata, il “punto” attorno al quale la storia svolta), la struttura della narrazione e l’uso della lingua sono così sapientemente calibrati, osando ma senza mai eccedere, che la lettura diviene un’esperienza acuta.
Il lettore ha voglia di scoprire cosa succede, il suo orecchio è solleticato da una lingua in sottrazione in cui però la voce, diversa da racconto a racconto, è molto nitida, e infine la sospensione dell’incredulità è davvero ben riposta, quando il lettore l’affida a Gambaro, perché, come in casi magistrali (è pertinente in questo caso – davvero – citare Carver), sebbene succeda poco in realtà in queste storie accade qualcosa di esiziale.
La vicenda di una tartaruga che non viene più ritrovata nel giardino di casa diviene l’occasione, per una donna, di disvelare il suo sentire a uno sconosciuto, la fissa per Balla coi lupi rivela un dissidio tra madre e figlia, incontrarsi dopo molti anni il tempo giusto per rendersi conto di aver davvero condiviso un momento; e ancora le tartarughe tornano in scena, e non solo qui, quando partoriscono sulla spiaggia di Llorona mentre una donna si trova ad accudire il figlio di un’altra, fatto questo (l’accudire un figlio d’altri) che diviene il fulcro di un racconto successivo, così come più volte, nelle storie, il vuoto del grembo s’associa al desiderio di prendersi cura del prossimo. Sono coppie, famiglie, singoli individui, pur anco degli sconosciuti, che si alternano sulla scena, e nel fotografarli l’autrice restituisce a chi legge un frammento di verità. Quasi un’intuizione.
Sono storie quasi vere, appunto: tecnicamente perché assomigliano molto a racconti di vita realmente vissuta che l’autrice ha fatto suoi, ma soprattutto perché, da un’altra angolatura, il confine tra ciò che può essere e ciò che narrativamente diventa esperienza è sfidato.
Non è facile costruire racconti che funzionano. Lo sanno gli scrittori che si cimentano ma ancor più i lettori che, tendenzialmente, preferiscono la misura lunga in cui la lettura, una volta rotto il ghiaccio, procede concatenata senza richiedere immersioni ed emersioni continue. Ma Gambaro intende continuare sulla via del racconto: quando c’è talento è giusto coltivarlo.