Non c’è guerra che non sia disumana, ma alcune più di altre arrivano a toccare livelli di ferocia che lasciano sgomenti. Come quella che da quasi un decennio sta sconvolgendo il Sud Sudan, il “Paese più giovane del mondo”, che nel 2011 era riuscito a conquistare l’indipendenza dal Sudan (pagando un prezzo altissimo, dopo mezzo secolo di battaglie), ma che non ha mai, praticamente, conosciuto la pace: dal 2013 è precipitato in una spirale di guerra civile ed etnica che non sembra trovare vie d’uscita, nonostante un accordo di pace firmato nel 2018 e mai rispettato. Questa guerra, oggi, è scritta sul corpo delle donne, che da anni subiscono stupri sistematici e impuniti per mano di bande armate con la complicità attiva di governatori e commissari di contea. Ma è scritta anche sulla fame che sempre più viene usata come “arma di guerra”, con l’incendio sistematico di case e di villaggi e la distruzione di raccolti alimentari, tattiche che si rivelano efficacissime per “stanare” la popolazione civile, costringerla ad abbandonare le proprie terre, i propri clan, le proprie etnie, dopo averla straziata con ogni genere di violenza, ben oltre l’immaginabile. Oltre 2,3 milioni di sud sudanesi sono stati costretti a fuggire negli stati confinanti (soprattutto in Uganda, ma anche in Sudan e in Etiopia), numeri che rendono la crisi dei rifugiati del Sud Sudan la più grave di tutta l’Africa. Più di 2 milioni sono invece le persone sfollate all’interno del Paese. Secondo un rapporto appena pubblicato dal Global Rights Compliance Foundation, una Ong specializzata in diritto internazionale e nella difesa dei diritti umani, «sia le forze governative del Sud Sudan sia quelle ribelli stanno usando la fame come deliberata tattica per spingere i civili alla fuga». Una devastazione di territori e di raccolti che ha costretto all’esilio centinaia di migliaia di civili, finiti principalmente nei campi profughi nel nord dell’Uganda. Si stima che oltre 8 milioni di sud sudanesi (su 11 milioni in totale) stiano affrontando una situazione di “grave insicurezza alimentare”. Global Rights Compliance chiede non soltanto l’intervento della comunità internazionale, ma che «i crimini di fame nel Sud Sudan siano riconosciuti come violazione del diritto internazionale e che gli autori di crimini di guerra siano assicurati alla giustizia».
Violenza sessuale come arma di guerra
Quel tassello d’Africa orientale è assai lontano, le informazioni stentano ad arrivare, e quando arrivano sono spesso sovrastate da urgenze più vicine, più pressanti. Ma pochi giorni fa, a Londra, si è tenuta la conferenza Preventing Sexual Violence Initiative, alla quale ha partecipato anche la Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani in Sud Sudan. La cui presidente, Yasmin Sooka, ha fatto sentire alta la sua voce, le sue accuse: «In nessun’altra parte del mondo si trovano così tante donne che vivono un conflitto subendo ripetutamente stupri di gruppo, anno dopo anno, dal 2013», ha dichiarato Sooka, alla presenza anche di una delegazione del governo sud sudanese. «Donne che successivamente vengono emarginate e stigmatizzate dalle proprie famiglie proprio per la violenza che hanno subìto, donne che soffrono in silenzio. Mentre gli uomini responsabili vengono promossi e premiati». In sostanza, secondo le Nazioni Unite, quel che finora il governo del Sud Sudan ha promesso a parole, non è stato mai tradotto in fatto concreti. Come nel 2014, quando l’allora presidente, Salva Kiir, firmò un comunicato congiunto con l’Onu accettando di diventare “un campione nella lotta contro la violenza sessuale” legata al conflitto. Nel 2019 anche l’esercito presentò un “piano d’azione per affrontare la violenza sessuale”. Mentre nel 2020 il governo del Sud Sudan ha istituito un tribunale per la violenza di genere nella capitale Juba. Tutto inutile: «Se il governo del Sud Sudan è seriamente intenzionato ad affrontare la violenza sessuale, dovrebbe immediatamente rimuovere dall’incarico e indagare su governatori e commissari di contea presumibilmente ritenuti complici di stupri sistematici».
Si stima che circa 2,6 milioni di donne sud sudanesi, anche giovanissime, siano oggi a rischio di violenza. Quasi la metà di loro ha riferito di essere costrette a evitare luoghi pubblici essenziali, come i punti per la raccolta dell’acqua o della legna da ardere, oppure i mercati, per il timore di essere aggredite, violentate, rapite. La situazione è particolarmente grave nello stato di Unity (uno dei 10 che compongono il Sud Sudan) dove, secondo il rapporto della Commissione delle Nazioni Unite, il Commissario della contea avrebbe pianificato e ordinato stupri di massa (oltre 6mila i casi accertati nel 2021), spesso terminati con decapitazioni e vittime bruciate. Le chiamano “offensive di terra bruciata”, perché dopo il passaggio delle milizie in quei villaggi, in quelle case, non resta più traccia di vita. Tra le vittime, documentate, anche bambine, di 7 e 9 anni. Sostiene l’Onu: «Stupri diffusi, di gruppo, incredibilmente brutali e prolungati vengono perpetrati da tutti i gruppi armati in tutto il paese, spesso nell'ambito di tattiche militari di cui sono responsabili governi e leader militari. Spesso mariti, genitori o figli delle vittime sono stati costretti a guardare, impotenti». Per le vittime di violenza che riescono a sopravvivere si apre una voragine di dolore. Prima per l’impossibilità di accedere alle più elementari, ed essenziali, cure sanitarie, poi per lo stigma sociale: abbandonate dai mariti, allontanate dalle famiglie, senza più aiuto né un futuro. Al punto che spesso le donne vittime nemmeno denunciano l’accaduto, preferendo il silenzio alla vergogna sociale. «È difficile spiegare il livello di trauma delle donne sud sudanesi, i cui corpi sono letteralmente la zona di guerra», spiega ancora la presidente della Commissione per i diritti umani. «Madri e figlie subiscono aggressioni inimmaginabili, più e più volte. E se non riusciamo a dar loro una immediata risposta sanitaria, figuriamoci affrontare le cicatrici a lungo termine».
Il Sud Sudan è terra assai ostile anche per gli operatori umanitari. Le cliniche mediche allestite dalle ong vengono sistematicamente saccheggiate e distrutte dalle milizie armate, sia delle forze governative, sia dei ribelli. Secondo una stima di Human Rights Watch, che risale però allo scorso marzo, dal 2013 a oggi sono stati uccisi in servizio almeno 130 operatori umanitari. Nove le vittime finora registrate nel 2022. Il 28 febbraio di quest’anno un convoglio di Medici Senza Frontiere è stato attaccato mentre percorreva una strada nella periferia di Yei, nello stato di Yei River, nel Sud del Paese: due veicoli bruciati, derubati i 7 membri dell’associazione umanitaria, che ha sospeso qualsiasi attività nella zona. Pochi giorni prima un’infermiera di MSF era stata uccisa, assieme a decine di civili, in un assalto armato nello stato centrale di Warrap. Medici Senza Frontiere ha gestito per anni un grande ospedale a Leer, nel sud, l’unico in tutto lo stato dotato di reparti di chirurgia, medicina interna, maternità e in grado di trattare Hiv e tubercolosi: per due volte è stato assaltato dalle bande armate, razziato e dato alle fiamme. «Qualcosa deve cambiare in Sud Sudan perché il numero di persone bisognose continua ad aumentare ogni anno e le risorse continuano a diminuire», ha dichiarato la coordinatrice umanitaria per le Nazioni Unite in Sud Sudan, Sara Beysolow Nyanti.
Non solo guerra: la piaga delle inondazioni
Ma non c’è soltanto la guerra civile, se così vogliamo definirla, a straziare il Sud Sudan. La stima del numero di persone che nel 2023 potrebbe aver bisogno di aiuti umanitari o di protezione ormai si avvicina ai 10 milioni (sempre su poco più di 11 milioni di popolazione totale). Tra loro ci sono anche i 3,7 milioni di bambini, adolescenti compresi, che continuano a essere a rischio reclutamento nei gruppi armati locali (qui convivono, tutt’altro che pacificamente, oltre 60 etnie, con più di 80 lingue e dialetti, e diverse religioni). Il Paese africano detiene uno dei più alti livelli di mortalità infantile e materna al mondo. Senza dimenticare le inondazioni che i cambiamenti climatici stanno rendendo sempre più frequenti e violente da quattro anni a questa parte (circa due terzi del Paese ha subito danni), che spazzano via case, raccolti e bestiame, che sommergono pozzi e latrine, che contaminano le fonti d’acqua potabile, che spingono sempre più in alto i numeri della malnutrizione e dell’insorgenza di patologie connesse alle disastrose condizioni di vita. Bentiu, capitale dello stato di Unity, è diventata un’isola circondata dall’acqua proprio a causa delle inondazioni. Parlare di Covid, in un simile scenario, diventa quasi un paradosso (ufficialmente i contagi sono stati 18mila, appena 138 vittime).
Vie d’uscita non se ne vedono, per un Paese che avrebbe un enorme potenziale di ricchezza dal petrolio (e dalle foreste di teak), ma che non ha né attrezzature né tecnologie per estrarlo. Lo scontro politico è cristallizzato nella lotta tra l’attuale presidente, Salva Kiir, e il vicepresidente Riek Machar, il primo di etnia “dinka” mentre l’altro fa parte dei “nuer”, le più numerose del Sud Sudan, entrambi autorevoli membri dell’ex movimento separatista Sudan People’s Liberation Movement (SPLM), oggi acerrimi rivali nonostante coabitino in un governo “di unità nazionale” (sulla carta), ciascuno sostenuto dalle loro milizie armate. Ma mentre a Juba, la capitale, la situazione resta “relativamente tranquilla”, altrove infuria una guerra dove si fatica a distinguere chi sta con chi, con gruppi armati a volte sparuti, ma capaci di atti d’inaudita ferocia, che attaccano villaggi spesso per rancori personali. Il governo centrale non li governa e non muove un dito per intervenire. E qualsiasi crimine resta impunito. Il Papa ha annunciato un viaggio in Sud Sudan il prossimo febbraio, proprio nell’intento di favorire una pacificazione. Le elezioni politiche, inizialmente previste per il prossimo anno, sono state rinviate al 2025 grazie a un’intesa, raggiunta l’estate scorsa, tra il presidente e il suo vice: «Non stiamo prolungando la transizione per rimanere al governo più a lungo - ha sostenuto Salva Kiir -. Ma non vogliamo essere precipitosi: indire nuove elezioni ora, potrebbe riportarci in guerra». Contrarissime le opposizioni, a partire da Lam Akol, leader del National Democratic Movement (NMD, etnia shilluk). Amnesty International ha appena chiesto all’Unione Africana di accelerare sulla formazione di una Corte “ibrida”, dunque formata da giudici di vari paesi africani (come stabilito nell’accordo di pace, disatteso, firmato in Etiopia nel 2018) in grado di indagare e perseguire le gravissime violazioni e gli abusi dei diritti umani nel Sud Sudan.