Gradualmente riaprono i confini regionali e le frontiere. Gradualmente riaprono le scuole e i momenti di convivialità non sono più relegati a uno spritz su Zoom. Ogni Paese si sta lentamente riappropriando della propria quotidianità, con le opportune accortezze e precauzioni. L’infezione da Sars-CoV-2, tuttavia, continua ancora a mietere vittime in molte zone del mondo: è il caso del Brasile che nei giorni scorsi è stato indicato dall’Organizzazione mondiale della Sanità come nuovo epicentro della pandemia.
Ma – se ci guardiamo alle spalle – davanti all’emergenza quali sono state le risposte, le strategie adottate per contenere la diffusione del virus? Quali sono stati i tempi di reazione? Il Bo Live prova a fare un’analisi, prendendo in esame quattro Stati che si caratterizzano ognuno per specifiche peculiarità: Svezia, Germania, Brasile e Stati Uniti. I dati citati sono estrapolati dalla piattaforma Worldometer e sono aggiornati alle ore 19.00 dell’otto giugno 2020.
Misure “basate sulla fiducia” in Svezia
“Se ci trovassimo ancora davanti alla stessa malattia e con le conoscenze di cui disponiamo ora, credo che adotteremmo un approccio a metà strada tra quello della Svezia e quello del resto del mondo”. Lo avrebbe dichiarato nei giorni scorsi Anders Tegnell, epidemiologo in forze alla Public Health Agency responsabile della lotta al nuovo coronavirus in Svezia, aggiungendo che probabilmente sarebbero servite azioni più restrittive per contenere la pandemia. Poi, nel corso di una conferenza stampa, avrebbe invece raddrizzato il tiro, affermando che il modello svedese non è sbagliato, per quanto ci sia margine di miglioramento.
Le misure adottate dal Paese – che non ha imposto il lockdown, ma ha preferito piuttosto provvedimenti che fanno leva sul senso di responsabilità dei cittadini e sull’alto livello di fiducia nelle agenzie governative da parte della popolazione – hanno presto sollevato critiche: a fine aprile un gruppo di 22 scienziati scriveva sul quotidiano svedese Dagens Nyheter che le autorità di sanità pubblica avevano fallito ed esortavano i politici a intervenire con misure più severe, indicando l’elevato numero di morti per coronavirus nelle case di cura per anziani e sottolineando che il tasso di letalità della Svezia era superiore rispetto ai Paesi vicini, Danimarca e Finlandia, che invece avevano optato per la chiusura.
Il primo caso di infezione da Sars-CoV-2 nel Paese viene confermato il 31 gennaio, è una donna di ritorno da Wuhan; il primo decesso invece è stato annunciato l’11 marzo, a Stoccolma. A differenza della linea adottata da molti altri Stati, si ritiene che il lockdown non sia la soluzione e si privilegiano misure in larga parte “basate sulla fiducia”. “Questa non è una malattia che può essere fermata o eradicata – dichiarava ad aprile Anders Tegnell in un’intervista a Nature – almeno fino a quando viene prodotto un vaccino che funziona. Dobbiamo trovare soluzioni a lungo termine che mantengano la distribuzione delle infezioni a un livello accettabile. […] La chiusura dei confini, dal mio punto di vista, è ridicola, perché Covid-19 ora è presente in ogni Paese europeo. Ci preoccupano di più i movimenti all'interno della Svezia”.
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Sulla base di questi presupposti, si raccomanda dunque il distanziamento sociale e il lavaggio delle mani; agli anziani si suggerisce di limitare i contatti stretti con altre persone e di evitare aree affollate come negozi, trasporti e spazi pubblici. Si consiglia di evitare viaggi non necessari all’interno del Paese e di lavorare da casa quando possibile, dato che non è prevista la chiusura degli uffici. Dal 29 marzo vengono vietati raduni ed eventi pubblici con più di 50 persone – per chi viola il divieto è prevista una multa o la reclusione fino a un massimo di sei mesi – e dal primo aprile si vieta altresì di fare visita agli anziani nelle case di cura. Negozi, bar, ristoranti e caffetterie rimangono aperti, ma – in questi ultimi casi – si deve garantire che i tavoli siano distanziati per evitare l’affollamento. Rimangono aperte anche le scuole per gli studenti al di sotto dei 16 anni.
In seguito a queste misure, è stato riscontrato che circa la metà dei lavoratori, secondo quanto riporta The Guardian, hanno lavorato da casa, l'utilizzo dei trasporti pubblici è diminuito del 50% a Stoccolma e le strade della capitale sono state circa il 70% meno affollate del solito. Gli svedesi, tuttavia, hanno potuto fare acquisti, andare al ristorante e dal parrucchiere e mandare in classe i bambini più piccoli, anche se magari un membro della famiglia era malato.
Oggi la Svezia, su una popolazione di 10.095.291 di persone, conta 44.730 casi di contagio da Sars-CoV-2 e 4.659 decessi. Se si fa un confronto con i Paesi confinanti, si vedrà che la Finlandia su un numero complessivo di 5.540.198 abitanti, 6.981 hanno contratto il virus e 323 sono morti. In Danimarca, invece, i casi sono stati 11.948 e i decessi 589 su una popolazione di 5.790.943. In Norvegia, infine, su una popolazione di 5.418.531 persone, i contagi sono stati 8.547, le morti 238. Il numero di casi e decessi, dunque, è molto superiore in Svezia rispetto agli altri Paesi nordici, pur con una popolazione nettamente inferiore.
Più basso, rispetto agli Stati confinanti, il numero di tamponi eseguiti (su un milione di persone): 27.290 in Svezia; 36.280 in Finlandia; 47.486 in Norvegia; 121.991 in Danimarca.
Hans Wallmark, parlamentare di centro-destra, avrebbe dichiarato al Financial Times che il governo sarà chiamato a rispondere di tre cose: l’alto numero di morti nelle case di cura; il basso numero di tamponi effettuati sulla popolazione; l’isolamento da parte degli altri paesi scandinavi.
Bassa letalità in Germania
La Germania prima di altri Paesi europei ha gradualmente allentato le misure di restrizione adottate qualche mese fa per contenere la diffusione di Sars-CoV-2, sebbene il rischio di nuovi contagi sia dietro l’angolo, specie in assenza delle opportune precauzioni. È dei giorni scorsi la notizia di un focolaio nella città di Gottinga, in Bassa Sassonia, scatenato da una serie di feste private: già 80 persone al 3 giugno risultavano positive al virus, e si attendevano i risultati di altri test. Nella città 200 persone sono state poste in quarantena obbligatoria. Molti bambini e adolescenti sono risultati positivi al tampone e questo ha indotto a chiudere di nuovo le scuole cittadine in via precauzionale (dopo le graduali riaperture nel Paese).
In Germania l’infezione viene rilevata per la prima volta il 27 gennaio 2020. Un dipendente della società bavarese Webasto viene contagiato da un cinese in visita all’azienda, apparentemente privo di sintomi, trovato invece positivo a Sars-CoV-2 al suo rientro in Cina. Il 30 gennaio l’Oms dichiara lo stato di emergenza sanitaria, ma l’autorità federale per le malattie infettive, il Robert Koch Institute, definisce basso il rischio per la Germania e non ritiene di dover chiudere i confini e fermare i voli in arrivo. Da quel momento però i casi iniziano a salire rapidamente: dozzine di persone tornano dalle località sciistiche in Tirolo e in Italia positivi a Sars-CoV-2 e in molte zone, come ad esempio ad Heinsberg e in altre città dell’ovest e del sud-ovest del Paese, continuano i festeggiamenti di carnevale. Il 10 marzo oltre 300 persone, proprio ad Heinsberg, risultano positive a Sars-CoV-2.
Il 17 marzo il Robert Koch Institute dichiara il rischio per la Germania da moderato a elevato: in quel momento c’erano già più di 9.000 casi confermati e 26 morti. Università, scuole e asili vengono chiusi il 16 marzo. Il 22 marzo il governo centrale impone una serie di restrizioni su scala nazionale per far fronte all’epidemia, che hanno effetto a partire dal giorno successivo. Le persone risultate positive al virus intanto erano salite a circa 29.000. Il punto centrale del provvedimento è ridurre la vita pubblica. Ciò significa limitare al minimo indispensabile i contatti con persone diverse da quelle della propria famiglia (possono incontrarsi solo due persone che vivono in nuclei familiari differenti), mantenere in pubblico una distanza di almeno un metro e mezzo da altre persone. Si può andare dal medico, al supermercato, in farmacia, fare sport all’aperto da soli, ma le feste in gruppo o gli incontri al parco non sono più consentiti. Parrucchieri e ristoranti sono chiusi. Quante più persone possibile lavorano da casa. Per far fronte all’emergenza dei casi più gravi, poi, il Paese può contare su circa 28.000 letti in terapia intensiva.
Una settimana dopo il lockdown, il 30 marzo, viene riportato il numero più alto di nuovi casi al giorno. Successivamente, il numero comincia a diminuire. Ad oggi la Germania, stando ai dati di Worldometer, su una popolazione di 83.767.456 abitanti, conta 185.869 casi di infezione da Sars-CoV-2 e 8.776 decessi.
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Ciò su cui si è ampiamente discusso in questi mesi è proprio il basso numero di decessi, in Germania, rispetto a quanti hanno contratto il virus e, in generale, rispetto ad altri Paesi europei. C’è chi ritiene che l’elevato numero di tamponi eseguiti nel Paese possa essere una spiegazione. Christian Drosten, direttore dell'Istituto di virologia dell'ospedale Charité di Berlino, sottolinea che la Germania ha iniziato presto a fare molti test, in un’ampia fetta della popolazione tedesca. Mentre altri Stati conducevano un numero limitato di tamponi, su pazienti anziani e a uno stadio severo della malattia, la Germania includeva anche casi più lievi nei giovani. Com’è noto, più test vengono eseguiti, maggiore è la probabilità di trovare nuovi casi e maggiore è il numero di casi, minore risulterà essere il tasso di letalità. Nell'ambito del sistema sanitario pubblico tedesco, i test non sono limitati a un unico laboratorio centrale, come avviene in altre nazioni, ma possono essere condotti presso laboratori distribuiti in tutto il Paese. “In questa situazione – afferma Drosten – è stato facile per noi implementare un protocollo già a gennaio”. I cittadini tedeschi per eseguire il tampone contattavano il proprio medico di base per la prescrizione e poi potevano rivolgersi ai centri di analisi locali. Per facilitare l’esecuzione del test, inoltre, sono stati aperti i cosiddetti “drive-in”, nei grandi centri urbani e nelle zone più popolate o colpite da coronavirus come Düsseldorf, Oberhausen, Monaco di Baviera, Bochum, le Province di Rhein-Neckar e di Esslingen: qui i tamponi venivano eseguiti attraverso il finestrino dell’auto a chiunque lo chiedesse. Altri comuni, invece, hanno inviato personale preposto nelle case dei pazienti per eseguire il tampone. Ad oggi, la Germania ha eseguito 51.916 tamponi per milione di abitanti (complessivamente 4.348.880 test su una popolazione di 83.767.456 persone): l’Italia 70.063 (in totale 4.236.535), ma su una popolazione di 60.467.085 abitanti (dunque inferiore) conta 234.998 casi e 33.899 morti.
Per spiegare il basso numero di decessi si osserva, ancora, che molti casi sono stati importati da giovani di ritorno dalle vacanze sulla neve in Italia e in Austria e che in Germania l’età media dei positivi è di circa 50 anni (contro i 63 dell’Italia, i 59 della Spagna e i 57 della Francia). “Non abbiamo rilevato molta trasmissione nelle case per anziani o focolai nosocomiali – afferma Drosten –. Quando si verifica questo tipo di epidemia, l'età e il tasso di letalità saranno più elevati”.
Infine, non è mancato chi ha guardato anche ai criteri (restrittivi) con cui la Germania ha registrato i decessi: secondo alcune ipotesi, i medici avrebbero dichiarato morto di coronavirus solo chi non aveva altre patologie concomitanti. Il Roberto Koch Institute, però, avrebbe smentito, sostenendo che nel novero venivano inclusi tutti i pazienti che alla morte risultavano positivi a Sars-CoV-2, come avveniva negli altri Paesi. “La situazione epidemiologica della Germania, diversa dai principali Paesi colpiti dalla pandemia – sostengono Luca Carra e Sergio Cima su Scienzainrete – resta un mistero. Forse il tempo e la disponibilità di dati tempestivi e completi aiuterà a chiarirlo”.
Il Brasile e le “posizioni anti-scientifiche del governo”
A partire dai giorni scorsi il governo brasiliano ha iniziato a pubblicare sul sito dedicato al nuovo coronavirus solo i dati relativi ai casi accertati e ai decessi delle ultime 24 ore, omettendo il numero totale dei contagiati e delle morti. Una scelta, questa, criticata da molti e interpretata come un tentativo di minimizzare la gravità della situazione: su una popolazione di 212.463.372 abitanti, lo Stato conta 691.962 persone che hanno contratto l’infezione da Sars-CoV-2 e 37.312 morti.
Si fa risalire il primo caso, ufficialmente confermato, al 25 febbraio: a contrarre il virus è una persona tornata dalla Lombardia. Il 16 marzo viene registrato il primo decesso. A maggio, tuttavia, uno studio condotto dalla Oswaldo Cruz Foundation anticipa di due mesi la comparsa della malattia nel Paese: test molecolari condotti su un paziente, morto a fine gennaio a Rio de Janeiro, confermerebbero già allora la presenza del virus.
A fronte dell’aggravarsi della situazione, molti governatori brasiliani, seguendo le linee guida dell’Organizzazione mondiale della Sanità, introducono quarantene e isolamenti per contenere il proliferare del virus. Tra le misure adottate, anche la chiusura delle scuole, la riduzione delle attività commerciali, il divieto di viaggiare da uno Stato all’altro (promulgato dal governo di Rio Grande do Sul). Provvedimenti, questi, che ogni Stato tuttavia assume da sé, in assenza di un forte coordinamento da parte del ministero della Salute. Numerose strutture sanitarie sono in stato di emergenza e il numero di tamponi eseguiti è basso (4.706 per milione di persone, complessivamente 999.836).
Il presidente Jair Bolsonaro respinge l’utilità delle misure di restrizione e di distanziamento sociale, promuovendo invece pesantemente la clorochina, un farmaco antimalarico, come trattamento contro Sars-CoV-2, nonostante la mancanza di prove di efficacia. Insieme a Trump, Bolsonaro è uno dei maggiori fautori dell’impiego della clorochina. La linea adottata dal presidente nella gestione della pandemia, che antepone considerazioni di tipo economico ad altre più stringenti di carattere sanitario, è stato motivo di attrito con l’ex ministro della salute Luiz Mandetta che lo criticava per la continua opposizione alle misure restrittive imposte dai governatori federali per limitare la diffusione del virus. Il 16 aprile Mandetta viene licenziato. Il suo successore, Nelson Teich, si dimette il 15 maggio, dopo appena un mese di lavoro, perché contrario al piano per accelerare l’applicazione della clorochina nella cura dei pazienti. Dopo di lui assume ad interim la guida del ministero della salute il generale Eduardo Pazuello (senza esperienza nel settore) che dopo poco tempo dà il via libera all’uso della clorochina, con la raccomandazione di prescriverla fin dalla comparsa dei primi sintomi della malattia, facendo firmare però ai pazienti una liberatoria con cui venivano informati dei potenziali effetti collaterali del farmaco.
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“Gli scienziati – ha dichiarato Luiz Davidovich, presidente dell’Academy of Sciences di Rio de Janeiro, in un’intervista a Nature – devono combattere non solo il coronavirus, ma anche le posizione anti-scientifiche del governo”. Nonostante ciò, continua Davidovich, gli scienziati stanno lavorando alacremente in tutto il Paese. Gli ingegneri stanno progettando ventilatori affidabili ma meno costosi, i chimici stanno esplorando composti per possibili trattamenti e i matematici usano l'intelligenza artificiale per identificare molecole che potrebbero aiutare ad alleviare il dolore dei pazienti. Inoltre, sono stati condotti studi su possibili vaccini e trial clinici nella città di Manaus, nella regione amazzonica, sugli effetti della clorochina e dell'idrossicolorochina su persone con Covid-19. Ma i ricercatori coinvolti in questi studi hanno avuto seri problemi a causa dei risultati negativi, racconta Davidovich: poiché i risultati della sperimentazione hanno indicato che i farmaci non funzionavano, gli scienziati hanno iniziato a ricevere chiamate da persone che minacciavano la loro vita e le loro famiglie. “Le organizzazioni scientifiche rilasciano dichiarazioni pubbliche che criticano la posizione anti-scientifica del governo. Il presidente della National Academy of Medicine ed io abbiamo firmato una dichiarazione sull'uso della clorochina e dell'idrossiclorochina, affermando ciò che la scienza conosce su questi farmaci e criticando la posizione del governo”.
Anche senza questi problemi a livello politico, in Brasile non mancano le difficoltà nel contenere la diffusione della pandemia da Covid-19. Circa 13 milioni di brasiliani, infatti, vivono nelle favelas, si legge in un editoriale su Nature, spesso con più di tre persone per stanza e con scarse possibilità di accesso all’acqua pulita. In questi ambienti è quasi impossibile osservare le regole di distanziamento fisico e le norme igieniche: molte favelas si sono organizzate per implementare queste misure nel modo migliore possibile. La popolazione indigena, inoltre, è stata gravemente minacciata ancor prima dell'epidemia di Covid-19, perché il governo ha ignorato o addirittura incoraggiato l'estrazione illegale e il disboscamento nella foresta amazzonica. E ora chi si addentra in queste zone, a questi scopi, rischia di contagiarne gli abitanti. Oltre a colpire le baraccopoli, le città più piccole e le comunità remote, la malattia ha anche raggiunto le prigioni del Brasile, che hanno visto oltre 800 casi e 30 morti, stando ai dati pubblicati il 21 maggio su The Bmj. Si teme che questa possa diventare una bomba a orologeria, dato che il Paese nelle sue prigioni conta 748.000 persone, un numero che si colloca al terzo posto a livello mondiale.
L’“andamento lento” degli Stati Uniti
A fine maggio il presidente americano Donald Trump ha annunciato che, se dovesse registrarsi una seconda ondata epidemica, non bloccherà nuovamente il Paese. In realtà, fin dall’insorgere dei primi casi e a fronte del progressivo aggravarsi della situazione, la reazione degli Stati Uniti non è sembrata così tempestiva e ha messo in luce gravi carenze del sistema federale nel governo della sanità pubblica.
A parlarne sono Rebecca L. Haffajee e Michelle M. Mello sul New England Journal of Medicine. La reazione, sottolineano, è stata lenta in modo allarmante, causando confusione intorno alla natura del virus e alle misure necessarie per affrontarlo. I vari Stati hanno esercitato i loro poteri di sanità pubblica in modo non uniforme. Ma, dato che il distanziamento sociale e le misure di quarantena hanno successo solo se attuate ovunque il virus si stia diffondendo, la mancanza di coordinamento intergiurisdizionale ha causato (e causerà) la perdita di vite umane.
Il primo caso di infezione da Sars-CoV-2 si registra il 20 gennaio. Al 27 marzo, tutti i 50 stati, dozzine di località e il governo federale avevano dichiarato lo stato di emergenza per Covid-19. I poteri esecutivi che ne conseguono sono ampi, possono andare dalla limitazione della libera circolazione, alla limitazione dei diritti civili e delle libertà. Il governo federale però, secondo Haffajee e Mello, fa troppo poco. L’opinione pubblica (su cui forse hanno influito dichiarazioni fuorvianti sull’effettiva gravità della situazione da parte di funzionari federali) pesa sull’adozione di misure che avrebbero causato difficoltà alle famiglie e alle imprese. Il crollo del mercato azionario genera ulteriori pressioni, si vuole dare l’impressione che tutto sia tranquillo ed evitare effetti negativi sulle aziende. Però, si perde l’opportunità di contenere Covid-19 con un’azione nazionale rapida e unificata.
Tra la fine di marzo e i primi giorni di aprile, circa 70 giorni dopo il primo caso, 33 Stati e dozzine di località danno l’ordine di rimanere a casa, mentre alcune altre decidono solo di chiudere le attività non essenziali. Se in alcuni casi le regole vengono fatte rispettare con vigore, in altri questo non accade: in alcune giurisdizioni non si osservano le raccomandazioni di distanziamento sociale emesse dal CDC (ad esempio, nessuna riunione con più di dieci persone), si vedono spiagge affollate, scuole aperte, e aperti anche negozi che vendono merce non di prima necessità, bambini che si radunano nei parchi pubblici.
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“La risposta degli Stati Uniti a Covid-19 – osservano Haffajee e Mello – continua ad essere un’azione localizzata contro una minaccia che ha perso il suo carattere locale settimane fa. L'approccio contrasta sorprendentemente con quelli della Corea del Sud e di Taiwan, che hanno impedito la trasmissione del virus nella comunità, attuando rapidamente una strategia nazionale centralizzata. Mancando una forte leadership federale capace di guidare una risposta uniforme, gli Stati Uniti sono presto diventati il nuovo epicentro di Covid-19, come aveva previsto l’Organizzazione mondiale della Sanità”.
Haffajee e Mello non sono i soli a mettere in evidenza la lenta risposta del governo alla pandemia e gli esperti sanitari hanno sottolineato, in particolare, anche la scarsa disponibilità e velocità dei tamponi, che secondo gli specialisti avrebbe permesso al virus di diffondersi senza essere rilevato e ha richiesto stringenti misure di distanziamento sociale per contenerlo. Lo ha ammesso, a marzo, lo stesso Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases: il Paese stava fallendo nella capacità di testare le persone. Tra problemi tecnici, organizzativi e burocratici, gli Stati Uniti non hanno saputo rispondere con la necessaria immediatezza al bisogno di tamponi per il nuovo coronavirus. Inizialmente, il CDC ha creato l’unico test americano approvato, che tuttavia è risultato difettoso. Inoltre solamente i dipartimenti sanitari gestiti dallo Stato potevano usarlo. La Food and Drug Administration (FDA) degli Stati Uniti non ha allentato queste regole fino a fine di febbraio e fino a metà marzo non ha consentito che i laboratori commerciali potessero fare test. Solo il 21 dello stesso mese gli enti regolatori statunitensi hanno approvato un test rapido che poteva essere completato senza inviare i campioni a un laboratorio.
Ad oggi gli Stati Uniti contano 2.007.449 casi di infezione da Sars-CoV-2 e 112.469 decessi, su una popolazione di 330.880.530. Nei giorni scorsi Trump ha imputato l’elevato numero di casi alla capacità degli americani di fare tamponi in modo massivo: i test eseguiti sono complessivamente 21.291.677, in assoluto il numero più elevato, l’ammontare per milione di persone è di 64.349 (l’Italia ne ha condotti 70.063 per milione).