La grandezza di un autore sta (anche) nella sua capacità di non scrivere sempre lo stesso libro, vizio tutto contemporaneo dettato – forse – anche da ragionamenti di tipo editoriale che possono nascere nelle agenzie letterarie, nelle case editrici, o ancora prima nell’inconscio del romanziere che teme di deludere il suo pubblico.
Invece Paolo Giordano ogni volta torna (dopo il successo nel 2008 de La solitudine dei numeri primi, con cui è stato il più giovane autore a vincere lo Strega, aveva ventisei anni) con un romanzo che è diverso, diversissimo dai precedenti. Passano anche un certo numero di anni tra l’uno e l’altro (Il corpo umano è del 2012, Il nero e l’argento del 2014 e Divorare il cielo del 2018) a dimostrare che Giordano scrive quando ha qualcosa da dire.
Quello che è comune a tutti i suoi libri lo svela lui stesso nell’ultima riga di questo nuovo lavoro, Tasmania, appena uscito per Einaudi: “Scrivo di ogni cosa che mi ha fatto piangere”. E per ragioni diverse, dalla storia dei ragazzi in Afghanistan, al fragile equilibrio di una famiglia, passando attraverso l’impetuosa storia d’amore e di vita dei protagonisti di Divorare il cielo, Paolo Giordano tocca inevitabilmente una qualche corda dell’anima di chi legge. È così.
Tasmania spiazza. Perché il romanziere non è più dietro e dentro i suoi personaggi. In Tasmania l’autore è la voce narrante della storia. Chi racconta è uno scrittore laureato in fisica che collabora con il Corriere della Sera, insegna alla Sissa, si occupa di clima e di scienza, ha una moglie di dieci anni più grande di lui con un figlio: è Paolo Giordano. E quella che racconta è con tutta probabilità precisamente la sua vita, i suoi pensieri, la sua crisi. La prima reazione può essere di meraviglia, quasi anche di sgomento. In una certa misura è come se tradisse. Ci aspettiamo di sentirci raccontare una storia e ci troviamo davanti la realtà (anche se qui ci sarebbe una grande parentesi da aprire: il confine con la finzione è sempre labile) ma questo è quello che probabilmente il romanziere voleva portare sulla pagina: la nostra realtà. E per fare questo è passato attraverso la sua.
Giordano scrive un romanzo sulle discontinuità ed è come se sottovoce lo stesse dicendo a se stesso e a noi che leggiamo: guardate che sta tutto cambiando, non funziona più come prima, il mondo scivola via con nuovi colori, nuove temperature, nuovi assetti politici, esistenziali, personali.
“C’era una contiguità mai sperimentata tra le nostre vite e una nuova forma di male assoluto – l’espressione è trita, ma non saprei come altro definirlo –, un male che sbocciava qua e là nel continente come un fiore marcio. Eppure Lorenza e io continuavamo a fare tutto ciò che avevamo sempre fatto, comprese le feste di compleanno”.
Ecco: nel romanzo a fare da cassa di risonanza della crisi di un sistema (ecologico, biologico, politico, climatico) è quanto di più vicino e comprensibile a chiunque. La crisi matrimoniale. Il protagonista e la moglie non sono riusciti ad avere un figlio loro, e allevano quello di lei, camminano in un binario che li vede scivolare vicini, lui tutto dedito alla sua vita e lei a essere un controcanto dolce, sapienziale, di cui però non si scorge il vero centro. E sulla scena, accanto al protagonista, a tratti, vediamo altri: Curzia, una giornalista con la valigia sempre in mano da quei luoghi dove c’è la guerra e che ha il fascino della sregolatezza, Novelli, un professore universitario di grido che molto sa e molto si crede, Giulio, l’amico di studi impicciato in un divorzio in cui, come spesso accade, oggetto della contesa è il figlio, Karol, un prete che s’innamora di una donna.
Nessuno ha torto e nessuno ha ragione. Tutti sopravvivono e basta. Ma c’è un luogo dove si può trovare rifugio dai mali del mondo e dal mondo che s’ammala?
La “Tasmania. È abbastanza a sud per sottrarsi alle temperature eccessive. Ha buone riserve di acqua dolce, si trova in uno stato democratico e non ospita predatori per l’uomo. Non è troppo piccola ma è comunque un’isola, quindi più facile da difendere. Perché ci sarà da difendersi”.
La difesa che racconta Giordano è la fuga in Tasmania di chi resta: la sua, che se ne va da Roma e dalla casa coniugale viaggiando attraverso l’Europa con in testa il progetto di un libro sull’atomica, ma che mai niente lascia davvero, così come resistono nelle loro vite tutti gli altri.
“Fantasticavo spesso di andarmene. La mia vita interiore si esauriva quasi tutto in quello, nell’immagine di me che abbandonavo Lorenza, Eugenio, il nostro appartamento. In un istante voltavo le spalle a tutto e mi incamminavo con un bagaglio leggero verso un’esistenza imprevedibile. Cos’avrei trovato là fuori?”
Anche Tasmania, come in fondo tutti gli altri libri di Giordano, è un libro che declina “la solitudine dei numeri primi”, cioè di chi ha o dovrebbe avere un altro primo, o semplicemente un altro, vicino a sé. La solitudine che è la cifra del nostro mondo interconnesso.
“La questione andava affrontata anche da un punto di vista professionale: per quanto tempo ancora avrei resistito come scrittore raccontando solo di ambizioni e di esperienze mancate? Per poter scrivere non bisognava prima di tutto, forsennatamente, vivere?”
E cosa significa vivere? Tasmania ci fa chiedere anche questo. Se non ci riesce uno scrittore di successo poi, chi può riuscirci? O forse è la solita leopardiana questione del Dialogo della Natura e di un’anima, che chi più può più soffre?
Il narratore a un certo punto a un party incontra la smaliziata Luisa: “Non che io pretenda di avere una conoscenza approfondita di lei, ha detto, come sa l’ho googlata giusto un attimo fa. Ma dal poco che ho intuito, lei sta attraversando una specie di… crisi. Possiamo chiamarla così? Nel frattempo lavora a un libro su dei fatti accaduti in Giappone settant’anni fa di cui non interessa più niente a nessuno. Sono curiosa: qual è il criterio con cui sceglie di cosa scrivere?”
Verrebbe da chiederglielo davvero: Paolo Giordano scrive di ogni cosa che lo ha fatto piangere? Paolo Giordano scrive di quello che ci tocca l’anima.
“ Scrivo di ogni cosa che mi ha fatto piangere Paolo Giordano