Nell’alternarsi di giornate dedicate a qualcosa, non poche sono dedicate all’ambiente nelle sue varie componenti. L’ultima in ordine cronologico è stata il 1° settembre: “La giornata per la custodia del creato” che da 31 anni si celebra per iniziativa della Conferenza Episcopale italiana. Tra il susseguirsi, senza rispetto della “tradizione climatica”, di eventi estremi quali bombe d’acqua, esondazioni di fiumi (Isarco e Adige gli ultimi), grandinate che compromettono i raccolti, venti violenti che provocano la caduta di alberi uccidendo due povere bambine; tra il susseguirsi di tutto questo e le impennate dei contagi da Coronavirus, c’è proprio da chiedersi –fede a parte- che cosa ci rimanga da custodire. E, più ancora, chi sono i custodi?
Naturalmente per “creato” si intende la Terra con i suoi quasi otto miliardi di abitanti. Ma proviamo a riflettere sulla casa nostra Italia.
Ha scritto bene Giacomo Talignani su “la Repubblica” del 31 agosto (Correnti estive mai viste. E nell’Italia tropicale i temporali sono cicloni): “Con le correnti che cambiano, il mare che si surriscalda e senza più protezione dell’anticiclone delle Azzorre, l’Italia si trasforma in un pungiball preso a pugni dagli effetti della crisi climatica.” I pugni più potenti per ricevere i quali non siamo preparati, vengono dall’anticiclone africano che, come nota Antonello Pasini, tra i maggiori esperti di clima, quando questo africano “va giù e torna su dall’Africa non entra più l’anticiclone delle Azzorre a difenderci come prima, ma entrano subito correnti fredde da nord”. Le quali sono le responsabili degli eventi estremi che prima ricordavo. Non solo. Perché estati lunghe, calde e instabili come quelle che viviamo da qualche anno, provocano anche il riscaldamento del mare, per cui c’è da attendersi un autunno probabilmente più caldo e piovoso con “fenomeni meteo violenti e distruttivi”.
Così stanno le cose e fino a quando i custodi del creato - molti dei quali ritengono di avere altro cui pensare - non riusciranno a rallentare queste tendenze, sarà questa una condizione a cui dovremo abituarci.
Non abituarci a morire in un mare di fango o sotto un albero buttato giù dal vento, ma attrezzarci a preparare le difese.
L'arcipelago delle Azzorre. Foto: Jeff Schmaltz, MODIS Rapid Response Team, NASA/GSFC
L’Italia è già di per sé un Paese fragile e soggetto lungo tutto l’Appennino a forte dissesto idrogeologico con alluvioni, frane e smottamenti. E, sul versante costiero, con molti tratti di spiagge soggette ad erosione costiera. Il mutamento climatico in atto di conseguenza, avverte Pasini,
“con un clima che tende a una tropicalizzazione e un territorio fragile già devastato da sfruttamento del suolo, abusivismo e infrastrutture inadeguate” può ulteriormente sconvolgere il territorio.
Con queste prospettive la custodia sta essenzialmente nella prevenzione, agendo sulla vulnerabilità del territorio “costruendo opere idrauliche e migliorando le condizioni, ad esempio di fiumi tombati e aree soggette ad abusivismo”.
Insomma bisogna adattarsi al cambio climatico in atto. Non esistono più le mezze stagioni, è stato per anni un ritornello di sketch comici. È così. Ma, peggio, non si sa più le stagioni di cosa sono fatte e per prevenirne la conseguenze negative i custodi del territorio, che sono gli amministratori della cosa pubblica, devono creare le condizioni per una difesa sicura di ambiente, territorio e di chi ci vive.
Il territorio. Questa è un’altra delle parole usate pigramente senza darvi il significato che meritano. Allora vale la pena di riflettere e di ricordare che il territorio non è qualcosa su cui mettere i piedi e, quindi, anche da calpestare nella più ampia accezione del termine. Il territorio, invece, come ha sempre sottolineato Lucio Gambi, non è una realtà esclusivamente fisica, ma è la componente di una stretta connessione con sviluppo, società insediate, storia, tradizioni e impegno politico e organizzativo delle società stesse. E in un Paese come l’Italia nel quale è una componente fisica di rilevante estensione, è la vita stessa del paese..
L’indifferenza politica che ha storicamente caratterizzato la necessaria custodia di questo importante patrimonio naturale, ha provocato il progressivo abbandono dei territori montani e collinari che, privati della presenza umana, cioè dei loro custodi, si sono ulteriormente indeboliti e diventati ancor più oggetto degli eventi del dissesto idrogeologico.
Allora volendo tornare alla custodia e ai custodi, venendo meno i custodi istituzionali bisognerebbe identificare i reali custodi nei residui abitanti di queste aree prima che lo spopolamento le renda ancora più marginali nei modi di intendere le politiche di sviluppo economico. Significa che, come sosteneva già una cinquantina di anni fa Marcello Vittorini, chi ancora è radicato in questi luoghi sia individuato come “carabiniere” per la loro tutela con il riconoscimento di un adeguato salario part time per il compito che svolgono. Salario e compito che a queste condizioni potrebbero essere anche tali da provocare il rientro di non pochi dei “fuorusciti”.
Se questo si può considerare un modo per creare le condizioni per una difesa sicura di ambiente, territorio e di chi ci vive anche questo può far parte delle raccomandazioni della giornata di custodia del creato.