SOCIETÀ

La trasformazione del lavoro. Generazioni a confronto

Baby boomers, millennials, generazione Zeta: sono queste, oggi, le generazioni che popolano il mondo del lavoro. Tra queste coorti, oggetti di studio psicologico e sociologico, le differenze non sono solamente anagrafiche: gli individui che vengono identificati all’interno di queste categorie ideali sono accomunati soprattutto dall’aver vissuto in un determinato periodo storico che ha plasmato i loro valori, le loro aspettative e la loro visione del mondo.

Tali caratteristiche, strettamente intrecciate con i grandi cambiamenti sociali ed economici degli ultimi decenni, hanno a loro volta contribuito a forgiare la realtà e, in particolare, a cambiare il mondo del lavoro. Uno dei temi che più animano il dibattito odierno sulla gestione degli ambienti di lavoro è, ad esempio, come gestire la transizione generazionale, e come rispondere in maniera adeguata alle esigenze inedite poste dai millennials e dalla generazione Zeta, i più giovani attori del mondo del lavoro.

Nella quarta puntata della serie de Il Bo Live sulla trasformazione del lavoro proviamo a ricostruire gli avvicendamenti che, a livello macroscopico e microscopico, hanno cambiato questo settore, concentrandoci sui suoi protagonisti. A guidarci è il sociologo Nazareno Panichella, docente di sociologia del lavoro all’università Statale di Milano.

Figli del proprio tempo

«In primo luogo – esordisce il professore – è bene chiarire che non tutti gli approcci sociologici si concentrano sulle differenze tra generazioni come chiave di lettura dei grandi mutamenti sociali. La letteratura sul mercato del lavoro e sulla diseguaglianza sociale, ad esempio, pone al centro dell’analisi non tanto gli aspetti generazionali, quanto piuttosto fenomeni sociali di larga scala come i cambiamenti nel mercato del lavoro o la modificazione della struttura delle disuguaglianze».

Individuare e caratterizzare le generazioni che oggi compongono la società rimane, in ogni caso, un esercizio rilevante. «A mio avviso, la generazione più sui generis è quella dei baby boomers, le cui peculiarità sono frutto dell’unicità dell’epoca storica (gli anni ’50 e ’60 del Novecento) in cui quella generazione si è formata. Al contrario, l’eterogeneità tra le generazioni successive è decisamente inferiore», spiega Panichella. «Le generazioni Y e Z sono senz’altro più omogenee tra loro dal punto di vista della struttura occupazionale. Tuttavia, bisogna tenere a mente che gli esiti di alcuni cambiamenti strutturali emersi di recente, come l’innovazione tecnologica e la globalizzazione, non sono ancora osservabili, poiché le generazioni che ne stanno vivendo le conseguenze sono ancora troppo giovani».

L’epoca storica in cui si vive è fondamentale per plasmare tanto la società quanto i suoi membri. Una delle più evidenti differenze tra i baby boomers e le generazioni successive riguarda un tema fondamentale in ambito occupazionale: il valore che si riconosce al lavoro, il peso che si attribuisce all’attività lavorativa nel determinare l’identità personale. Secondo una narrazione piuttosto recente, supportata dall’emergere – soprattutto negli Stati Uniti – di fenomeni come la great resignation e il quiet quitting, molti giovani non vedrebbero più nel lavoro il punto massimo di realizzazione della propria identità. Si tratta, secondo alcune ricerche, di un’opinione piuttosto diffusa. Ma è davvero così?

«Indubbiamente è cambiato il modo in cui gli individui cercano di costituire una propria identità collettiva attraverso il lavoro. Negli anni ’50 e ’60 dello scorso secolo, con l’espansione dell’industria fordista, il lavoro arrivò a rappresentare un canale privilegiato attraverso il quale poter ricreare non solo la propria identità sociale, ma anche un’identità collettiva», argomenta il professore. «È proprio questo approccio che sembra cambiato: una delle ragioni principali è che, oggi, la struttura produttiva e il sistema di strutturazione delle disuguaglianze sociali sono diventati più complessi. Ciò non significa che le disuguaglianze sociali siano scomparse; vuol dire, invece, che gli elementi di eterogeneità all’interno dei gruppi sociali sono divenuti più rilevanti, e perciò hanno indebolito il ruolo del lavoro nella costruzione dell’identità collettiva».

Identità individuale e collettiva, tuttavia, rimangono tutt’altro che sovrapponibili: secondo Panichella, «dal punto di vista dell’identità individuale, questa perdita di importanza del lavoro è tutt’altro che dimostrata, perché il lavoro rappresenta, ancora oggi, il fattore che meglio descrive la posizione dell’individuo all’interno della struttura sociale».

Per comprendere fenomeni che, come la great resignation, stanno assumendo una portata sempre più rilevante nel mondo del lavoro, è inoltre necessario fare un’ulteriore distinzione: quella tra fattore generazionale e fattore anagrafico. In altri termini, non è detto che la posizione che oggi i giovani – o molti di essi – assumono nei confronti dell’impegno lavorativo sia dettata dall’appartenenza generazionale, come precisa Panichella: «Per verificare che si tratti davvero di un effetto generazionale, dovremmo riuscire a studiare come questo approccio si evolverà nel corso del tempo. Dovremmo, insomma, verificare che questa tendenza sia ancora presente nei millennials e nei genZ quando questi avranno 40-50 anni, oppure effettuare degli studi per comparare gli approcci e le esigenze manifestate dai baby boomers quando avevano l’età di chi oggi compie queste scelte».

La sociologia economica adotta un approccio nel quale si dà particolare rilevanza all’interazione tra processi microscopici e macroscopici, e a come i cambiamenti sopraggiunti in un settore possano influire su molti altri aspetti della società. In tal senso, ogni nuovo fenomeno va inquadrato e compreso facendo ricorso a più elementi esplicativi. Nel caso dei cambiamenti sopraggiunti nel mondo del lavoro, spiega il sociologo, «entra in gioco anche un altro processo macroscopico, che è in realtà un processo di lunga data: nel corso del tempo è infatti aumentata – e continuerà ad aumentare – la quota di popolazione inattiva. Se analizziamo i dati dei primi censimenti italiani, risalenti alla fine dell’‘800, notiamo che la percentuale di persone inattive era molto più bassa rispetto a quella che si osserva oggi. Negli anni, con l’espansione del welfare e con le innovazioni tecnologiche, la società è riuscita a creare un surplus economico tale da poter sostenere anche una quota sempre maggiore di persone non attive in ambito lavorativo. Simili cambiamenti strutturali sono essenziali per comprendere i mutamenti della nostra società, e non possono essere ignorati. È possibile che in futuro, con l’ulteriore aumento della quota delle persone inattive, si indebolisca ulteriormente – tanto sul piano individuale, quanto nella percezione collettiva – il ruolo dell’attività lavorativa. Ma anche questa è, per ora, solo un’ipotesi».

Il terremoto dell’innovazione tecnologica

Tra i fattori strutturali che più hanno contribuito a modificare il mercato del lavoro vi è sicuramente l’innovazione tecnologica, i cui progressi si sono accumulati con crescente rapidità negli ultimi decenni mettendo in discussione la stabilità lavorativa di intere fasce di lavoratori, le cui mansioni sono state improvvisamente esposte al rischio della sostituzione da parte delle nuove tecnologie. Questo fattore ha avuto conseguenze profonde sulla struttura del mercato del lavoro: «La tecnologia ha innanzitutto accresciuto l’eterogeneità tra i diversi gruppi occupazionali, dando più centralità ad occupazioni che prima non l’avevano, e che hanno acquisito una nuova importanza proprio in ragione del fatto che non possono essere sostituite dalla tecnologia», afferma Panichella.

A questo si aggiungono fattori culturali e sociali in rapida evoluzione. Sono cambiati, ad esempio, i valori che guidano le persone nella scelta di una posizione lavorativa: tra le generazioni più giovani è comune dare maggiore importanza a fattori legati al benessere individuale, e le aziende riservano crescente attenzione a questi aspetti; anche alle questioni etiche è riconosciuta maggiore rilevanza rispetto al passato.

Tuttavia, la diffusione di questa nuova sensibilità non è certo l’unico elemento di novità. Come chiarisce il sociologo, è necessario considerare almeno altri due aspetti non direttamente legati, ma comunque interconnessi all’economia del lavoro: «In primo luogo bisogna ricordare che, in pochi decenni, l’accesso all’istruzione si è ampliato moltissimo: in generale, possiamo affermare che oggi la popolazione italiana è molto più istruita che in passato. In secondo luogo, anche in conseguenza di un più esteso accesso all’educazione, è più facile assistere alla modificazione dei cosiddetti “gruppi di riferimento”, cioè quei gruppi con cui le persone si confrontano, e attraverso questo confronto definiscono le proprie ambizioni e aspettative. Con un più alto grado d’istruzione cambiano le prospettive e, soprattutto, le aspettative personali: a mutare è la stessa concezione del lavoro».

Diversità sociale, diversità lavorativa

Le maggiori possibilità di accedere all’istruzione superiore interagiscono poi con un altro fattore che si sta rivelando essenziale nel modificare il panorama lavorativo contemporaneo: si tratta dell’aumento della popolazione di origine non italiana attiva nel mondo del lavoro e dell’avvio di un processo di progressiva sostituzione della forza lavoro di origine italiana. «Questo processo – spiega Panichella – è stato osservato soprattutto in alcuni ambiti lavorativi, in particolar modo nelle occupazioni del “mercato del lavoro secondario”, cioè quello strato del mercato del lavoro in cui sono più diffuse le occupazioni precarie, pericolose, poco pagate. In questo genere di occupazioni, gli immigrati hanno ampiamente sostituito la forza lavoro italiana, la quale, in quanto più istruita, è sempre meno disposta a spostarsi lungo il territorio, come avveniva in passato, e che ha dunque cambiato le proprie ambizioni lavorative.

Il problema, tuttavia, è che per soddisfare tali ambizioni bisogna che domanda e offerta siano bilanciate. Ma il sistema produttivo italiano non è in grado di accogliere tutta questa richiesta di lavoro qualificato, etico, attento al well-being: si tratta di un mismatch generazionale, frutto di processi sociali complessi, in cui all’innalzamento del livello d’istruzione medio non si è accompagnato un upgrading della struttura produttiva. In risposta a ciò, si inizia perciò ad osservare un nuovo fenomeno – ancora poco consistente ma che, a mio avviso, aumenterà ulteriormente nei prossimi anni – che è l’emigrazione dei giovani italiani verso altri paesi».

Ad agire è un complesso intreccio di fattori storici, sociali ed economici, con conseguenze in molti casi difficili da prevedere, e ancor più difficili da governare. È importante, però, sottolineare che gli esiti talvolta negativi di queste interazioni non devono indurre a considerare negativamente i singoli processi. Panichella sottolinea con chiarezza questo punto: «Bisogna chiarire che il problema di fondo non è l’estensione dell’accesso all’educazione: questo è, anzi, un dato positivo. Invece, il punto è che quel maggiore accesso non è compensato da un corrispondente aumento di posizioni lavorative qualificate. Quando, in Italia, ci si lamenta del fatto che la scuola non forma gli studenti in modo adeguato, ci si dovrebbe ricordare che sarebbe altrettanto necessario aumentare l’investimento delle aziende in ricerca e sviluppo e adottare strutture organizzative che valorizzino le posizioni più elevate. Il problema non è il percorso di formazione in sé, ma il fatto che ci siano più persone qualificate che posizioni lavorative disponibili». Per affrontare mutamenti tanto ampi, rapidi e complessi, dunque, non è possibile cercare soluzioni semplici e univoche. Bisogna invece agire su più fronti: quello dei valori, quello dell’istruzione, quello della struttura occupazionale, quello dell’integrazione sociale tra etnie e generazioni diverse.


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