SOCIETÀ

La trasformazione del lavoro: quanto l'immigrazione impatta sull'economia

In questa serie sul lavoro abbiamo analizzato diversi aspetti: dalla great resignation al lavoro agile, dalle questioni generazionali fino alle questioni di genere. C’è un aspetto però che troppo spesso passa sotto traccia ma che è di vitale importanza per il nostro paese e non solo. È quello dell’impatto dell’immigrazione proprio sul lavoro e quindi, di conseguenza sul prodotto interno lordo di una nazione. 

Partiamo con il dire che in Italia gli immigrati regolari sono circa 5 milioni. Questo significa che in Italia, al 1° gennaio 2023, i cittadini stranieri rappresentavano l’8,7% della popolazione residente. L’83,4% di questi poi, si concentra nel Centro-Nord.

Rispetto ad un anno fa gli stranieri sono aumentati soprattutto nel Nord-Est (+5,2%), mentre sono diminuiti nel Mezzogiorno (-2,8%). Al 1° gennaio 2021 poi, quasi l’85,8% dei cittadini non comunitari regolarmente presenti ha avuto un permesso rilasciato o rinnovato nel Centro-Nord Italia, mentre solo il 14,2% l’ha ottenuto o rinnovato nel Mezzogiorno. Le Regioni con le quote più elevate di rilasci o rinnovi di permessi di soggiorno sono Lombardia, Emilia-Romagna, il Lazio e i Veneto. La diminuzione dei nuovi flussi di ingresso ha riguardato, invece, soprattutto il Centro (-42,4%) e il Nord-Ovest (-39,5%).

La comunità straniera più presente in Italia è quella proveniente dalla Romania, con più di un milione di persone, seguita dai marocchini, dagli albanesi ed infine dai cinesi. Cercando di tracciare una panoramica il più completa possibile degli stranieri presenti in Italia, vediamo come si differenziano rispetto ad alcuni indicatori. I dati su cui facciamo affidamento sono quelli rilasciati dall’Istat ed aggiornati al 15 dicembre 2021, e ci dicono che il tasso di natalità per mille abitanti degli stranieri è di 11,2, ben più alto rispetto al 6,4 degli italiani. Di contro, il tasso di mortalità degli italiani è al 12,8 per mille abitanti, mentre quello degli stranieri è di 2.

Mentre l’età media degli italiani è di 46,7 anni, quella degli stranieri si abbassa a 35,2. Più della metà degli stranieri presenti in Italia poi, ha un grado di istruzione superiore alla terza media. Solo circa il 10% invece, ha un titolo universitario.

 

 

Ciò che ci interessa di più affrontare però, è la partecipazione degli stranieri al mercato del lavoro. Su questo tema permangono chiare differenze tra italiani e stranieri. Come ha messo in luce l’Istat “dopo il forte calo registrato nel 2020, nel 2021 il tasso di occupazione degli stranieri tra i 15 ed i 64 anni, nonostante la crescita più intensa di quello dei coetanei italiani, risulta ancora inferiore a quello degli autoctoni. La linea che esce dal grafico relativo all’occupazione degli stranieri è interessante in quanto, dal 2011 in poi ha subito una grande variazione, passando dal 62,3% al 57,8% attuale. 

Il tasso di disoccupazione invece aumenta maggiormente per gli stranieri (+1,1 rispetto a +0,1 punti), i quali continuano a presentare un valore dell'indicatore significativamente più elevato (14,4%) rispetto a quello degli italiani (9,0%). Il tasso di inattività (15-64 anni) per gli stranieri (32,4%) resta, invece, inferiore rispetto a quello degli autoctoni (35,9%), con differenze più marcate nel Mezzogiorno.

Ma per capire qual è l’impatto reale dell’immigrazione sul lavoro in Italia ci viene in aiuto una ricerca della Fondazione Leone Moressa, che mette in evidenza come nel 2020, i più colpiti dalla crisi siano stati i lavoratori precari, non protetti dal cosiddetto “blocco dei licenziamenti”. In particolare le più colpite sono state le donne straniere, che nel mercato del lavoro rappresentano il 4,2% degli occupati. Queste hanno perso il 16,3% dei posti di lavoro scomparsi (724 mila), nel 2020, a causa della pandemia.

L’incidenza degli stranieri nel mercato del lavoro è estremamente frammentata e rappresenta mediamente il 10% rispetto al totale degli occupati. È una media che però vede al suo interno delle grosse differenze, perché passa dal 2,2% tra le professioni qualificate fino al 29,2% tra il personale non qualificato.

Su questo tema la Fondazione Leone Moressa focalizza l’attenzione, mettendo in evidenza l’esistenza di una forte immobilità sociale tra gli stranieri. Possiamo parlare anche i “spreco di talenti” in quanto molti immigrati “si trovano a svolgere lavori non qualificati pur essendo in possesso di titoli di studio e competenze. Questo fenomeno (“overeducation”), è più diffuso tra gli stranieri per una serie di fattori, tra cui: la carenza linguistica e la poca conoscenza del territorio, la necessità di avere un’occupazione per poter rinnovare il Permesso di soggiorno, la mancanza di una rete familiare che consente di rifiutare offerte di lavoro non inclini alle proprie competenze”.

C’è infine il tema dell’impatto fiscale che i lavoratori stranieri hanno sul sistema italiano. Come si legge dal rapporto della Fondazione i dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) sulle dichiarazioni dei redditi 2021 (a.i. 2020) dicono che i contribuenti nati all’estero sono 4,17 milioni e che hanno dichiarato 57,5 miliardi di euro di redditi e versato 8,2 miliardi di euro di Irpef.  

Tra i contribuenti nati all’estero, quasi la metà (48,7%) ha dichiarato un reddito annuo inferiore a 10 mila euro. Tra i nati in Italia invece, in quella classe di reddito si attesta solo il 29,5% dei contribuenti. Complessivamente, i contribuenti nati all’estero rappresentano il 10,1% del totale, con un’incidenza che oscilla tra il 3,3% nella fascia di reddito sopra i 50 mila euro e il 15,7% in quella sotto i 10 mila.

 C’è poi il tema delle “spese”, cioè di quanto costano in termini di servizi sociali gli stranieri regolari. Queste sono stime effettuate dalla Fondazione Leone Moressa che parla di uscite per un totale di 26,8 miliardi di euro annui, suddivise tra servizi sanitari, istruzione, servizi sociali, giustizia e sicurezza pubblica e previdenza e accoglienza. 

Insomma, a ben vedere, il saldo tra il gettito fiscale e contributivo, cioè le entrate per lo Stato che vengono stimate in 28,2 miliardi, e la spesa pubblica per i servizi di welfare, cioè le uscite di 26,8 miliardi, rimane attivo per +1,4 miliardi di euro. Questo banalmente significa che gli immigrati, che sono prevalentemente in età lavorativa e mediamente più giovani rispetto agli italiani, hanno un basso impatto sulle principali voci di spesa pubblica come sanità e pensioni. Tutto ciò senza considerare l’impatto che l’immigrazione ha sull’aspetto più sociale e sulla natalità. Abbiamo già visto infatti come l’Italia sia un Paese “vecchio” e che ha un basso tassi di natalità tra gli autoctoni.


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