La fisica ci ha aiutato a relativizzare la nostra pratica e la nostra idea dello spazio, del tempo e delle relative connessioni, con o senza trattino. Siamo alla ricerca di dove quando tutto (o qualcosa) sia davvero iniziato, ma è difficile trovare risposte precise già per l’evoluzione della nostra stessa complicata esistenza e ancor più incerta appare la risposta definitivamente valida, relativa sia alla materia (prima) che alla vita (poi), chiunque fosse lì presente in quell’attimo, serva o meno un po’ di fede (almeno a qualcuno). Come l’universo venne a trovarsi proprio lì, non lo sa nessuno e quello che successe prima (ammesso che sia successo qualcosa) è altrettanto misterioso. Sappiamo solo che circa 13,8 miliardi di anni fa (zero virgola miliardo più zero virgola miliardo meno) questo grumo primordiale dell’universo (per farci capire si è detto un “denso” granello) cominciò a espandersi rapidamente: il Big Bang rilasciò un’immensa ondata di energia e anche di materia, ovvero di quark, leptoni e gluoni, particelle subatomiche che a un certo punto (probabilmente “dopo”) avrebbero formato gli atomi.
La nostra conoscenza dell’universo e della sua storia si fonda in gran parte su una fonte effimera, la luce, che ha almeno un paio di proprietà significative: la sua velocità è di 299.792,458 metri al secondo, un semplice calcolo consente di dire quando è stata emessa; l’intensità delle diverse lunghezze d’onda delle sue radiazioni che ci arrivano è inoltre un indice della composizione del dove alla fonte. La luce interagisce con la materia attraverso la gravità, la forza di attrazione tra oggetti diversi per massa e distanza, ma esistono anche, in partenza, materia oscura ed energia oscura, elementi enigmatici (diversi dalle narrazioni gialle) che non siamo in grado di localizzare e che abbiamo ancora capito poco. La materia convenzionale delle stelle primordiali era composta in gran parte da atomi di idrogeno ma la ricchezza della composizione chimica è stato poi il prodotto delle varie successive generazioni di stelle (delle loro galassie e dei buchi neri). Fra di queste, a un certo punto, la Via Lattea e il Sole, sono le rocce del nostro pianeta a garantirci spunti sulla loro conoscenza.
La nascita del nostro pianeta (dall’aggregazione di materia stellare alla fusione globale, dalla differenziazione degli strati interni fino alla formazione dei bacini oceanici e dell’atmosfera) si svolse nell’arco di un centinaio di milioni di anni. Circa 4,4 miliardi di anni fa, la Terra aveva assunto all’incirca la forma e la sostanza attuali, un territorio roccioso bagnato dalle acque, sotto una patina d’aria. La Terra è risultata così come una palla rocciosa non perfettamente sferica (a causa della rotazione, è gonfia in mezzo e si appiattisce verso i poli), il cui diametro all’equatore misura 12.746 chilometri e al cui interno come noto abbiamo vari strati concentrici, un nucleo caldo e denso (circa un terzo del totale), un mantello che lo circonda (circa due terzi), una crosta (meno dell’uno per cento). Non era necessario che ci si sviluppassero successivamente anche forme di vita biologica (individui che si riproducono ed evolvono) ma non era impossibile, evidentemente.
Nella Breve storia del nostro pianeta. 4 miliardi di anni in 8 capitoli, di Andrew H. Knoll (HarperCollins Milano, 2022, traduzione di Alberto Pezzotta, orig. 2021, pag. 253 euro 19,50) si comincia proprio a raccontare cosa accadde dopo la nascita del contesto terrestre, qui più o meno, dal principio giorno più giorno meno. Noi, materia e individui, viviamo la nostra vita ancorati dalla forza di gravità al nostro pianeta, grande sfera che ci sostiene e che ogni tanto ci mette in pericolo, in occasione di uragani e di terremoti, di siccità e di frane. Codesto piccolo pianeta si formò più di quattro miliardi di anni fa dall’aggregazione di detriti rocciosi, in orbita attorno a una giovane solare stella di modeste dimensioni. Per la maggior parte della sua successiva storia, la Terra che ci ospita non è stata abitabile dagli esseri umani, il momento che stiamo vivendo da qualche decina di milioni di anni è dunque fuggevole, fragile e prezioso.
Ebbene, come sottolinea Knoll, di questi contemporanei tempi, i titoli dei notiziari spesso sembrano versetti dell’Apocalisse e le notizie che vengono dal mondo della biologia non sono migliori. Declino non significa ancora estinzione: ma è la strada che porta le specie alla fase finale. I colpevoli siamo noi sapiens: noi uomini e donne, responsabili di quell’effetto serra che non solo riscalda il pianeta, ma rende più devastanti e più frequenti le ondate di calore, le siccità e gli uragani. Va allora ancora una volta confermato che l’indifferenza è deprimente e molesta, odiosa come fu detto. Un grande scienziato ci esorta a prendere atto, con dovizia di analisi e dati e figure e particolari, di come l’attività umana stia radicalmente alterando un mondo che ha impiegato vari miliardi di anni per diventare così. E ci sfida a porre rimedio.
Il celebre paleontologo americano Andrew Herbert Knoll (West Reading, Pennsylvania, 1951) sceglie ottimamente di raccontare, in modo chiaro e semplice, la lunga evoluzione dei fattori abiotici (prima) e biotici (poi e anche) che fanno parte dell’impervia coesistenza di otto miliardi di individui della nostra stressa specie. Intreccia questioni scientifiche e indagine storica, la geologia e la fisica prima della biologia, l’ecologia degli ecosistemi e l’impatto umano sulle altre specie animali (e vegetali), le teorie allo stato attuale delle conoscenze, cortesemente immerse in esempi della vita quotidiana. Siamo il risultato fisico e biologico di 4 miliardi di anni. Camminiamo dove una volta c’erano fondali marini su cui zampettavano trilobiti, colline coperte di ginkgo calpestate da dinosauri o pianure ghiacciate dominate da mammut. Una volta questo mondo apparteneva a loro, adesso è nostro. La differenza fra noi e i dinosauri è che noi possiamo capire il passato e prevedere il futuro.
La particolare positività del volume è proprio la leggibilità scientifica. Knoll lavora da sempre a Harvard, ha ottenuto innumerevoli collaborazioni scientifiche e premi, risulta molto ben conosciuto ovunque per i contributi sulla biogeochimica del Precambriano. Ha interessi di lunga data negli studi sulla biomineralizzazione, nella paleobotanica, nell’evoluzione del plancton e nelle estinzioni di massa, utilizzando la fisiologia come ponte concettuale per integrare le registrazioni geochimiche dei cambiamenti abiotici con le registrazioni paleontologiche della storia biologica. Ha lavorato e scritto sulla documentazione microfossile delle prime forme di vita in Groenlandia orientale, in Siberia, in Cina, in Africa, in Australia e ovviamente nel nord America. Risulta tra i primi ad aver applicato i principi della tafonomia e della paleoecologia, ha anche chiarito le prime registrazioni di animali scheletrati in Namibia e di altri notevoli fossili, mostrando anche la forte variazione stratigrafica nella composizione isotopica del carbonio dei carbonati e della materia organica conservata nelle rocce sedimentarie del Neoproterozoico (1000-539 milioni di anni fa).
Di tutto ciò trovate tracce nel testo, ma la forza della scrittura sta nella compattezza e nella sintesi. Chi sfoglierà le pagine troverà una narrazione piana, senza note e citazioni, poche virgolette o parentesi, niente rimandi o rinvii, tante utili foto o figure (quasi cinquanta) che accompagnano gli otto capitoli, non piattamente cronologici, con varie specificazioni sempre dello stesso oggetto, La Terra: chimica, fisica, biologica, dell’ossigeno, animale, verde, delle catastrofi, umana. Il linguaggio usato volutamente non è specialistico, non si spacca il capello in quattro (come siamo talora abituati a fare nei riti intellettuali delle singole discipline o dei consessi autoreferenziali).
Quando si richiamano le 14 specie di Homo finora riconosciute sulla base dei fossili (13 estinte) non si approfondiscono tutti i dibattiti aperti sulla qualità e sulla classificazione, qui non servirebbe: basta accennare all’essenziale origine africana, al decisivo carattere della posizione eretta (prima che del cervello più grande), alle migrazioni e agli incroci. Quando si segnala che i più antichi fossili di Homo sapiens hanno 300.000 anni e sono stati trovati recentemente in Marocco non si riapre la questione delle date precise e dei luoghi originari, qui non servirebbe (ammesso che possa essere mai risolta): basta confermare l’essenziale origine africana, la lunga convivenza con alcune altre specie umane (almeno tre), la parziale novità dell’uomo moderno.
La ricca bibliografia è distinta per ciascun capitolo e, al proprio interno, fra i testi non specialistici e le letture più complesse. Molto ben fatto anche l’articolato indice analitico, dall’abiogenesi a Zuber, passando per Galileo e Gould, per estinzioni e migrazioni. Knoll ritorna di continuo su un punto cruciale. Il mondo che abbiamo ereditato non solo ci appartiene: ne siamo responsabili. Che cosa ne sarà, dipende da noi. Lo scienziato consegna ai lettori una sintesi della storia del nostro pianeta e un invito a conoscerla tutti quel poco che basti a sentirci piccola parte di un globo condiviso. L’autore aiuta così forse la democrazia della convivente conoscenza. Usava spesso (pure su queste pagine) locuzioni innovative in materia, per connettere conoscenza scienza democrazia felicità, il grande amico giornalista Pietro Greco; perlopiù partiva, non a caso, dal “Convivio”, da Dante.
Come Pietro frequentemente spiegava, il poeta e filosofo toscano analizzò sia le difficoltà di accesso al bisogno primario della conoscenza che la necessità di rimuovere “politicamente” quelle difficoltà, soprattutto per coloro che sono impediti da ragioni che prescindono dalla loro volontà (e non per coloro che scelgono di spendere la loro esistenza in “viziose dilettazioni”). Rendere possibile l’accesso alla conoscenza attraverso la divulgazione, a questo lo scienziato Knoll contribuisce oggi un poco e noi scrivani con lui, con divertito stupore, come chiunque si sforzi di parlare con semplicità e poesia di queste cose al bar, fra gli amici, nelle riunioni, sul web.
Non prendetevela voi scienziati con chi non è alla vostra altezza di competenza. Non prendiamocela noi che scriviamocon chi non legge. Trovate e troviamo tempi e modi per garantire un minimo sostrato scientifico comune a ogni individuo sapiens, convivente nella cittadinanza scientifica, concentrandosi oggi soprattutto sulle urgenze della pace(la fine delle guerre e delle competizioni armate) e del cambiamento climatico (il divieto dei combustibili fossili e gli adattamenti solidali). La conoscenza è un bene che ha effetti sociali, di inclusione e di esclusione. Tutti hanno diritto alla conoscenza e, tuttavia, esiste una disuguaglianza di accesso che genera esclusione sociale immeritata e scelte collettive incompetenti.